Storia dell'economia per l'oggi

“L'occidente ha crescita e innovazione nel suo Dna. Se le rinnega, si eclissa”

Marco Valerio Lo Prete

La molla “culturale” della Rivoluzione industriale di ieri e l’eccesso di pessimismo di oggi. Parla Joel Mokyr

Roma. Non sono mancati, nel corso della storia, esempi di innovazione tecnologica che abbiano trasformato nel profondo una società. Ma una serie di innovazioni che scatenassero “un progresso tecnologico sostenuto, con effetti enormi sul reddito e sul benessere di milioni di persone, al punto di portare il mondo a essere oggi più ricco che mai”, tutto questo è successo soltanto una volta nella storia, e in un luogo specifico: l’Europa. C’è stata una potente “molla culturale” dietro questo balzo in avanti, una molla che da qualche tempo l’occidente, percorso da una revanche pessimista e protezionista, sembra essere disposto ad archiviare. “A suo rischio e pericolo”, dice al Foglio Joel Mokyr, storico americano dell’economia che insegna alla Northwestern University di Chicago. Il Foglio lo ha incontrato a Roma – dove era in occasione del conferimento dei Premi Balzan 2016 da parte del presidente della Repubblica e alla vigilia di un seminario dell’Istituto Bruno Leoni che si terrà oggi a Milano – per parlare del suo ultimo libro: “A Culture of Growth: The Origins of Modern Economy”, in uscita per la Princeton University Press. “Gli economisti dedicano molta attenzione alla crescita e si sono occupati a lungo della Rivoluzione industriale nata nel diciottesimo secolo in Inghilterra, ma hanno tralasciato spesso le ragioni culturali e istituzionali della stessa. I sociologi, che pure potrebbero affrontare il tema, sono invece fondamentalmente disinteressati alla crescita. Perciò ho sentito l’esigenza di scrivere un libro di storia sulla materia”, dice Mokyr. La convinzione dello studioso è che nei due secoli che vanno dalla scoperta dell’America di Crisforo Colombo (1492) alla pubblicazione dei “Principia Mathematica” di Newton (1687) si sia realizzato “il cambiamento culturale che ha posto le fondamenta della rivoluzione capitalistica”.

 

“Il sapere nel campo scientifico e in quello tecnologico è sempre stato appannaggio di un gruppo ristretto di persone, in tutte le società. In Europa però questa élite intellettuale si è trasformata, diventando molto influente e soprattutto decisiva per le sorti materiali dei loro paesi – dice Mokyr – In maniera progressiva queste élite in Europa hanno smesso di pensare all’ambiente che li circondava come a qualcosa che fosse governato da regole al di fuori della loro portata. Hanno iniziato invece a scrutare la natura come se fosse caratterizzata da regolarità e fenomeni comprensibili, controllabili e addirittura sfruttabili per andare incontro ai bisogni dell’uomo”. Mokyr ha ritenuto di dover tornare ad approfondire biografie e contributi intellettuali di alcuni di quelli che chiama “imprenditori culturali”, come gli inglesi Francis Bacon e Isaac Newton o l’italiano Galileo Galilei: “Non sapevano tutto delle ‘discipline produttive’ che risultarono poi decisive per la Rivoluzione industriale, cioè agricoltura, chimica e fisica per esempio.

 

Però iniziarono a cercare qualcosa. E a criticare il sapere antico, che è qualcosa che ben poche civiltà fanno. Furono animatori di un’epoca in cui questo atteggiamento iniziò a essere incentivato, anche se di tanto in tanto osteggiato dalla vecchia guardia e spesso con modalità violente. Galilei fu condannato dal Vaticano, ma prima fu anche assunto come matematico ufficiale dal governo di Firenze. Newton esordì come matematico poco conosciuto ma poi al suo funerale c’era una folla più imponente di quella che si raccolse attorno alle spoglie dei re inglesi”.

 

Mokyr non ignora il ruolo che hanno avuto la relativa libertà politica europea e la secolarizzazione come propellenti dello sviluppo straordinario del continente. “La secolarizzazione è stata importante, ma si è affermata compiutamente solo con la Rivoluzione francese e non è stata il fattore fondamentale. La frammentazione dell’autorità politica in Europa, invece, fu la chiave di un modello competitivo tra stati che fece la differenza, per esempio, rispetto a regimi unitari e tendenzialmente assolutistici come quello cinese. Le persone potevano muoversi, in Europa, sfuggendo per esempio alla censura o a eccessive inefficienze economiche. Era un sistema che apriva la strada a tante evoluzioni possibili, insomma. Tuttavia, senza il cambiamento culturale di cui dicevo prima, specie nell’atteggiamento rispetto alla natura, la Rivoluzione industriale non era affatto garantita”. A fronte della frammentazione politica dell’Europa moderna, infatti, esisteva una certa coesione intellettuale, la Respublica literaria, “che incentivava la formazione di eminenze grigie con status da superstar e soprattutto la circolazione delle idee”. Il libro di Mokyr racconta decine di casi in cui nuove scoperte scientifiche, prima della Rivoluzione industriale, iniziarono a “filtrare” verso il basso: “Perché nei due secoli che la precedettero, tra le altre cose, crollò la separazione a compartimenti stagni tra esperti di filosofia naturale e addetti al lavoro manuale.

 

I primi animati dal motto della Royal Society, nullius in verba, cioè ‘non dare fiducia alle parole di nessuno’. I secondi ansiosi di risolvere problemi concreti, legittimati a farlo confrontandosi con i più grandi pensatori e poi forti di conoscenze sempre più diffuse e alla loro portata. Ciò era impossibile altrove nel mondo. Perché se vivi in una società in cui il progresso non è né possibile né desiderabile, è ovvio che di progresso non ne avrai molto”. Un esempio di questo processo di contaminazione è costituito dalla macchina a vapore che col tempo fu utilizzata nel settore estrattivo, poi nelle fabbriche e infine nei trasporti: “Prima Evangelista Torricelli e Blaise Pascal dimostrarono che l’impossibilità logica del vuoto, teorizzata da Aristotele, era infondata. Poi, alla metà del Seicento, Otto von Guericke inventò la pompa a vuoto, e nel 1712 venne costruita la macchina di Newcomen, prima applicazione del vapore al processo industriale”.

 

Tale cultura favorevole all’innovazione e alla crescita, che fece dell’Europa un unicum, può cambiare nel lungo termine e magari subìre un’involuzione, diventando invece avversa al rischio e allo sviluppo? “Tutto è possibile. Ma una cosa è evidente: se oggi l’occidente abbandonasse crescita e innovazione che sono nel suo Dna, ci sarebbero altri paesi e aree del mondo pronti a raccogliere il testimone. Ormai è l’autorità politica mondiale a essere frammentata, replicando su scala globale quell’assetto istituzionale che rese possibile l’arricchimento europeo. Stati Uniti, Cina, Russia, Unione europea: chi rinnega la cultura della crescita si eclissa, come accaduto alla Spagna nel Diciottesimo secolo”. “Di fronte al progresso – conclude Mokyr – ci sarà sempre chi gli urla contro. Ma i problemi di cui oggi discutiamo animatamente in occidente sono pur sempre i problemi di una società ricca, in cui viviamo di più, in cui nessuno muore di fame o manca di accesso all’educazione. Le nostre vite diventano migliori, inoltre, perché sono cresciute esponenzialmente le possibilità e le modalità di svago. La democrazia liberale è sì in seria crisi, mentre invece non mi bevo la vulgata del manifesto declino economico-materiale dei nostri paesi. Tra pochi decenni avremo possibilità che oggi nemmeno immaginiamo”. 

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