L’Altra Europa con la Troika
Il più duro di tutti è stato il premier slovacco Robert Fico, di formazione comunista come Tsipras, che già a febbraio era stato il primo a lanciare l’idea di un referendum, ma per bocciare qualsiasi ipotesi di taglio del debito alla Grecia deciso a Bruxelles: “Spiegare alla gente della povera Slovacchia che dobbiamo dare soldi alla Grecia per i loro stipendi e pensioni? Impossibile”. E in effetti, nonostante i tagli subiti, la pensione media in Grecia è di 833 euro al mese, più del doppio che in Slovacchia dove è di 408 euro, in un paese che ora è in crescita ma che è uscita da una crisi con alti tassi di disoccupazione: “Se la Slovacchia è riuscita a fare le riforme anche la Grecia deve essere in grado di farle, da parte nostra non c’è spazio per la compassione”, ha sentenziato il socialdemocratico Fico. A dargli man forte è il suo ministro delle Finanze, Peter Kazimir, che per primo dopo l’Oxi del referendum greco aveva subito aperto la porta della Grexit e che ieri ha tuìttato: “Se il compromesso raggiunto è considerato duro e pesante, è solo l’esito sfortunato della ‘Primavera di Syriza’”. Sulla stessa lunghezza d’onda della Slovacchia c’è la Slovenia, dove il governo di centrosinistra di Miro Cerar sta attuando misure di austerity, liberalizzazioni e privatizzazioni per rientrare dal deficit e non ha intenzione di sussidiare la Grecia se il governo non mostra l’intenzione di intraprendere il sentiero delle riforme. Durante il vertice di Riga dello scorso aprile è stato proprio il ministro delle Finanze sloveno Mramor, stanco dei discorsi generici di Varoufakis, il primo a suggerire che la Grecia avesse bisogno di un piano B (leggi Grexit). Insomma, l’idea del vicecancelliere tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, secondo cui non possono essere i lavoratori e le famiglie tedesche a dover pagare le irrealizzabili promesse elettorali di Tsipras, non è popolare solo in Germania, ma anche e soprattutto in quei paesi in cui i cittadini hanno pensioni e stipendi più bassi che in Grecia. Il caso più evidente è quello delle repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania, ultime entrate nell’euro e tra i paesi più poveri del continente con uno stipendio medio tra il 50 e l’80 per cento di quello greco. “Non venite a dirci che avete fatto di più in Europa. No, avete fatto troppo poco, troppo lentamente e meno dell’Estonia”, ha detto Jürgen Ligi che da ministro delle Finanze estone ha avuto a che fare con la tremenda recessione del 2008 dopo la crisi finanziaria e lo scoppio della bolla immobiliare. In due anni l’Estonia ha perso circa il 20 per cento del pil e si è ripresa dopo una cura lacrime e sangue: taglio degli stipendi pubblici, innalzamento dell’età pensionabile, tagli al welfare, liberalizzazione del mercato del lavoro e aumento dell’Iva.
[**Video_box_2**]Per la Lettonia è stato peggio, in due anni il pil è crollato del 24 per cento, e la terapia è stata ancora più drastica di quella estone. Ora i baltici crescono a ritmo sostenuto, hanno i conti in ordine, un debito pubblico basso (in Estonia è il 10 per cento del pil, in Grecia il 180) e dopo anni di sacrifici si oppongono a questa solidarietà secondo cui i più poveri dovrebbero aiutare i più ricchi per aver fatto quelle politiche insostenibili che i più poveri hanno evitato di fare. “Noi la crisi dei più ricchi non la paghiamo”, sembrano dire. E le loro ragioni sono talmente difficili da contestare che quasi non compaiono nel dibattito pubblico. Non si vedono intellettuali pronti a difendere le ragioni dei poveri europei dell’est. Ma d’altronde non c’erano neppure quando quei popoli erano schiacciati dal dominio dell’Unione sovietica, figurarsi ora che difendono le ragioni del “paradigma neoliberista”.