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fotografia

L’ultima serie di fotografie di Mario Giacomelli in mostra

Luca Fiore

Elementi spirituali a sfondo autobiografico, ha raccontato lo stesso autore presentando le immagini esposte fino a maggio a Cinisello Balsamo. E in effetti, per la prima volta, il fotografo ritrae sé stesso

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"Nel mio recente lavoro, ‘Questo ricordo lo vorrei raccontare’, ci sono alla base elementi spirituali a sfondo autobiografico chiusi in immagini dove tutto è dato come essenza, come odore mentale, come simbolo, come proiezione del pensiero”. Le parole che Mario Giacomelli usa per presentare la sua ultima serie di fotografie, per la prima volta esposta nella sua interezza al Museo di fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo (fino al 19 maggio), hanno il sapore definitivo del testamento. Già malato, il fotografo di Senigallia realizza queste 66 stampe nei mesi subito precedenti alla morte, avvenuta il 25 novembre 2000. Il testo manoscritto dell’appunto, una paginetta scritta in un corsivo dalla mano ferma, è esposto nella prima delle due sale del museo. E continua così: “Nel recinto del linguaggio il soggetto prende una vitalità nuova, in nuove circostanze, che spezza i vecchi schemi per evocare quella musica che è voglia di vivere ancora, è una preziosa mia confessione critica dell’avventura della vita, una linea di riflessione legata ai segni nati dalla nebbia postoperatoria divenuta poi cristallo forte e preciso, un flusso di immagini tra me e il mondo, miste al mio respiro fragile che sorreggeva il corpo in quel momento, pieghe dell’anima invase dalla luce, per architettare un racconto anche come intuizione futura nel silenzioso fiume del tempo!”. 

E’ difficile spiegare a parole che cosa compare in queste immagini. Sono state scattate tra i casolari della campagna marchigiana nel bianco e nero senza compromessi tipico di Giacomelli. Eppure non sono i campi striati, i volti, i pretini che ci aveva insegnato a conoscere. Le inquadrature sono composizioni sceniche, in cui oggetti (una maschera, animali impagliati, sedie, lenzuola) appaiono come simboli misterici e onirici. In camera oscura l’autore, talvolta, realizza dissolvenze, sovrapposizioni, ritagli di fotogrammi per rendere l’“odore mentale” e la “nebbia postoperatoria”. Giacomelli, per la prima volta, ritrae sé stesso: “E’ come se io entrassi dentro di me e ne uscissi purificato”. Vediamo la sua ombra proiettata su un muro bianco. Ma anche il suo corpo nudo che risale un pendio sterrato, al cui culmine lo attende una sorte di spaventapasseri dal volto umano, la silhouette di un uccello appollaiato su un palo e un cane immobile.

Il susseguirsi delle immagini non sviluppa nessuna narrazione. Come in un sogno, tutto sembra accadere in modo disarticolato. Alcune apparizioni danno l’impressione di accadere in contemporanea, come intrecci di pensieri. Se la fotografia espressionista di Giacomelli era apparsa precedentemente una lettura personale di ciò che stava di fronte all’obiettivo, qui ci troviamo davanti a radiografie di ciò che si muove nella mente e nell’animo dell’artista. Sussurri alle orecchie di un immaginario confessore o psicanalista. 

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Come spiega Katiuscia Biondi Giacomelli, nipote del fotografo e curatrice della mostra al MuFoco, dopo la morte dell’artista sono stati ritrovati centinaia di provini riferibili anche a questa ultima serie. Raggruppati per sequenze omogenee, le piccole stampe sono riproposte nella prima parte del percorso, nel tentativo di entrare nella “sala macchine” di “Questo ricordo lo vorrei raccontare”. Un prezioso lavoro di archivio, che restituisce la misura del rovello creativo e che conferisce alla mostra uno spessore culturale al di sopra della media.

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In occasione dell’esposizione di Cinisello è stato realizzato un libro, pubblicato da uno dei rari editori italiani specializzati in fotografia, la Skinnerboox di Milo Montelli. Una pubblicazione raffinata, in brossura svizzera, che ripropone sia le immagini della sequenza principale sia molti dei provini preparatori. Oltre al saggio introduttivo della curatrice, vengono proposti i testi di Francesco Zanot e Brad Feuerhelm. Il critico italiano riporta un brano di un’intervista del 1990, in cui Giacomelli parla della scomparsa della madre di poco tempo prima: “Forse la sola differenza tra noi era che lei portava un vestito da donna, e io da uomo”, confessa l’artista: “Di mia madre, la cosa che mi sembra la più importante, e anche la più bella, è che in tutta la sua vita non sono mai riuscito a dirle che la amavo. Forse per il mio cattivo carattere, o per timidezza. Non sono mai riuscito a darle un bacio, e nemmeno a chiederle come stava. E’ morta pochi mesi fa. Ho baciato le sue labbra, dopo morta, ma per me era bello, e da quel momento ho cominciato a vivere con lei, adesso le chiedo come sta, se è felice di me”. Zanot osserva che è proprio l’ombra del profilo della madre, quella che l’autore cerca di riprodurre mettendosi un cappello sotto la maglia per simulare il rigonfiamento del seno. Per Feuerhelm, più che di fronte a un testamento, siamo di fronte a un memento mori. Non più quello della serie battezzata con i versi di Pavese “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, realizzata alla fine degli anni Sessanta nell’ospizio di Senigallia, in cui Giacomelli vedeva l’avvicinarsi della fine del corpo degli altri. Qui, piuttosto, è la sua voce che ci raggiunge dall’aldilà. Ed è un invito a guardare davvero per poter vivere davvero.

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