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A Venezia

Questa Biennale piacerà molto e avrà successo, ma per i motivi sbagliati

Francesco Bonami

L'edizione di quest'anno si concentra sugli esclusi. Ma portarli al centro significa esporli all’antropofagia e al cannibalismo del mondo dell’arte occidentale che divora, digerisce e defeca senza pietà: può essere un buco nero

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"Come siamo arrivati a questo punto?" È stata la domanda che ha aperto il discorso del neo presidente della Biennale di Venezia alla conferenza stampa della sessantesima edizione della mostra di arti visive. Una domanda che, vista l’aria che tira, potrebbe sembrare catastrofica e portatrice di chissà quale ritorno all’ordine e invece è intesa come una finestra su un futuro di pace che solo un posto come la Biennale si può illudere di aprire. Detto questo la mostra di Adriano Pedrosa, brasiliano e primo latinoamericano a curare la Biennale, non è semplice da analizzare senza cadere nella sviolinata postcolonialista, il peana dei diversi modernismi, la barba della correttezza politica e di genere o, dalla parte opposta, la ghettizzazione d’ufficio nell’universo del folclore tout-court. Il titolo – bellissimo sulla carta – “Stranieri Ovunque”, preso dal collettivo italo britannico Claire Fontaine fondato a Parigi nel 2004, nella declinazione pratica della mostra rivela qualche problema, correndo il rischio di trasformare lo straniero in curioso o turista. La mostra si basa sull’inclusione degli esclusi, i sessualmente non definiti, gli indigeni, gli artisti outsider del sistema dell’arte. 330 in tutto, 120 defunti. Questa forma di necrofilia che va di moda già da varie edizioni mi porta a un’altra citazione del discorso di Buttafuoco. Citando il famoso dipinto di una pipa di Magritte “questa non è una pipa”, lui dice “questa non è una Biennale”.
 

Affermazione che mi sento di condividere anche se probabilmente con motivi diversi. Da varie edizioni la Biennale è diventata una mostra da museo troppo grande per stare in un museo, ma non è più una Biennale. La Biennale era sì un caos, ma un caos dove chi la dirigeva o la curava provava a infilarvi l’immediatezza fallace del presente e la presunzione di intravedere il futuro. Producendo a volte catastrofi. La Biennale nasce come un giusto e necessario errore e possibile disastro. Nello sbaglio stava l’unicità di questa ancora unica e insuperata istituzione. Ecco perché la legittimazione dell’escluso si compie a Venezia: non a Delhi non a Sidney, non a Rio, nemmeno a New York o Parigi. Ma da varie edizioni la Biennale non si concede più errori, guarda alla storia come garanzia, al presente come strategia e dimentica di azzardare qualche profezia. Più Instagramus che Nostradamus. Pedrosa ha trasformato l’Egocentrismo occidentale in Egomarginalismo ma nel fare questo con tutta legittimità si è preso la responsabilità di alterare l’ecologia della marginalità. Portare gli esclusi al centro significa esporli all’antropofagia e al cannibalismo del mondo dell’arte occidentale che divora, digerisce e defeca senza pietà, con una rapidità di uso e consumo terrificanti. Il centro può essere un buco nero.
 

Quando a novembre gli esclusi, gli strani, gli indigeni e i diversi torneranno a casa, ai margini, presenteranno al curatore, bracconiere, sociologo, antropologo, il conto degli effetti e dei danni che la sua visione produrrà a lungo termine per i loro equilibri, alla loro ecologia mentale, alla loro identità. Questo significa che allora non si possono scardinare gli schemi sclerotici dell’occidente? Assolutamente no. Ma portare tutta in blocco la periferia del mondo a Venezia non è scardinare l’occidente ma illudere la periferia che sia diventata Venezia. Una responsabilità enorme. A molti degli artisti viventi in mostra Pedrosa dovrà dare una brutta notizia, tornati a casa. Non stranieri ovunque ma stranieri per sempre. Non una condanna ma un destino dovuto a tanti fattori, non tutti colpa dell’occidente ma della realtà delle cose e dalla qualità della propria immaginazione. Uno può suonare il violoncello da solo a casa sua convincendosi di essere Pablo Casals ma se qualcuno lo porta alla Carnegie Hall per il semplice gusto dell’inclusività può darsi che corra il rischio che invece degli applausi riceva fischi. Questa Biennale piacerà molto al pubblico e sarà un successo, ma per i motivi sbagliati. Sarà un successo proprio per gli stereotipi folcloristici e artigianali che Pedrosa ha provato a ribaltare.
 

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Tuttavia, questa Biennale può rappresentare una lezione – bella o brutta dipende – per il club esclusivo del mondo dell’arte. I visitatori radagi, in branco, comuni e dozzinali, i turisti mordi e fuggi, da sempre guardati con disprezzo da noi egomaniaci curatori, aristocrazia autoreferenziale dell’arte, avranno la loro rivincita. Esclusi, anche loro a prescindere dalle loro origini, messi a disagio da sempre, troveranno moltissimo con cui saziare la loro giusta curiosità e la loro a volte beata ignoranza. Alla domanda come siamo arrivati a questo punto, Buttafuoco ha risposto nel suo sorprendente discorso. Dove si va da questo punto in poi è tutto da vedere e molto complicato. Anzi complicatissimo.

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