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Teatro

Alla Fenice l’Offenbach di super Michieletto è uno spettacolo eccezionale

Alberto Mattioli

La prima a Venezia con i “Contes d’Hoffmann”, onorata dalla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella

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Michieletto laughs!, come la Garbo, in questa produzione internazionale dei Contes d’Hoffmann di Offenbach, alla tappa veneziana dopo Sydney e prima di Londra e Lione, gran prima stagionale della Fenice onorata dalla presenza del presidente della Repubblica. Nell’incompiuta opera terminale, il “geniale buffone”, il “Mozart degli Champs-Elysées” (copyright rispettivamente di Nietzsche e di Rossini) spinge l’ironia fino alla tragedia; il riso è disperato e il pianto divertente; il cabaret diventa dramma e viceversa: tutto pane, anzi baguette, per i denti di Michieletto, al suo meglio sia come padronanza tecnica sia come visionarietà interpretativa. L’opera è, in effetti, il Bildungsroman del protagonista. E dunque un vecchio Hoffmann un po’ barbone ricorda i tempi in cui era un ragazzino innamorato della compagna di scuola (Olympia, esilarante) e con il cappello d’asino in testa quando scopre, buon ultimo, che si trattava di un automa. Poi è un giovane in love con l’étoile Antonia, qui ballerina malata alle gambe e costretta alla sedia a rotelle, e infine uomo fatto, in tutti i sensi, nell’atto di Giulietta, che resta una cortigiana in lamé. Se superDamiano dà il meglio moltiplicando le idee e facendo recitare anche i sassi, il resto della squadra diverte e si diverte: le scene di Paolino Fantin sono il solito capolavoro architettonico, Carla Teti mette i diavoli metà nudi e metà in paillettes, le luci di Alessandro Carletti come al solito “raccontano” anche da sole e le coreografie di Chiara Vecchi sono un capolavoro di ironia. Spettacolo eccezionale.

Peccato che sul podio Frédéric Chaslin vada in senso contrario. Il meglio che si possa dire è che dirige un po’ meno male che la stessa opera alla Scala e il Faust qui. Resta l’insostenibile pesantezza della sua orchestra e la riduzione dei mille colori della partitura a uno solo: il grigio. Poi si sa che i Contes hanno una storia testuale complicata. L’edizione scelta è un ircocervo tra la vecchia e oggi improponibile Choudens e quella molto discussa di Oeser: poiché esiste una nuova edizione critica, sarebbe bene usarla. In particolare, qui l’atto di Giulietta diventa un torso senza capo né coda.  Il peccato è doppio perché la compagnia è eccellente. A Ivan Ayon Rivas, che anni fa cantava alla Fenice una piccola parte della Favorite svettando in ogni concertato, qualcuno che conosco bene predisse un futuro da grande tenore: profezia compiuta. Magari manca ancora un po’ di carisma, ma che gran bel canto e che acuti sfolgoranti, in una parte non solo difficile ma lunghissima. Istrionico e sardonico, ironico e autoironico, Alex Esposito fa per tutta la sera il diavolo a quattro: travolgente. Magnifica Carmela Remigio nella parte scomoda come poche di Antonia, granitico il trillo della romanza e imperioso il re naturale del terzetto; una delizia dall’inizio alla fine l’Olympia di Rocío Pérez; divertente Didier Pieri nei quattro servi (ma l’aria di Frantz, gayssimo maître de danse, è staccata a un tempo catatonico); sempre di gran classe Véronique Gens come Giulietta. Ci sono anche, e non è scontato, l’ottimo Nicklausse di Giuseppina Bridelli e una Muse scoppiettante, la bravissima Paola Gardina, tutta di verde vestita in quanto, appunto, fée verte, perché nel Prologo Hoffmann non si sbronza con i previsti vino, birra e punch ma con l’assenzio (sono finezze…). Accoglienze trionfali sia alla prima di parata sia, soprattutto, alla bombatissima matinée della domenica.

PS: il grigiore provinciale dei teatri italiani ha ormai fatto sparire dalle nostre scene, semmai ci siano salite, le sublimi opéra-bouffe di Offenbach, quelle che gli stolti chiamano operette, e vabbé, non ve le meritate, sorbitevi pure la tremilionesima Traviata uguale alle 2.999.999 precedenti. Ma è incredibile che non si sia trovato uno straccio di editore per tradurre la monumentale biografia di Jean-Claude Yon pubblicata da Gallimard ormai tredici anni fa, e che finalmente rende giustizia a quel gran genio di Jacques Offenbach… 

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