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letteratura

Le sempre valide lezioni di Pontiggia sulla scrittura

Marco Archetti

Disponibile su YouTube in 25 puntate, il corso di scrittura dello scrittore e critico letterario italiano non è cosa da lasciarsi sfuggire

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"Ha un romanzo? Me lo mandi pure. Poi tra un po’ mi chiami, io sicuramente non l’avrò letto. Faccia passare un po’ di tempo e mi richiami un’altra volta, tanto non l’avrò letto nemmeno allora. Al che mi chiami una terza volta, io sarò molto irritato dalla sua terza telefonata però a quel punto l’avrò letto. Allora le darò un appuntamento e ne parleremo”.

Così disse Elio Vittorini all’allora venticinquenne Giuseppe Pontiggia. E mantenne la parola: dopo quattro mesi erano seduti a una scrivania e lo scrittore siciliano esaminava il testo di quel giovane impiegato pagina per pagina, segnando col la penna le parti che non andavano. “Via le recensioni dei sentimenti”, gli disse. “Bene i dialoghi, benissimo quando parli di soldi e di cambiali”. 

L’aneddoto che avete appena letto viene raccontato presto, quindi possiamo dire che bastano 9 minuti e 48 secondi per sapere, in forma liofilizzata, gran parte di ciò che c’è da sapere su come si scrive. Ma il consiglio è opposto: mettersi comodi e tirar tardi, perché un corso di scrittura con Giuseppe Pontiggia in cattedra, disponibile in venticinque puntate su YouTube (“Dentro la sera, conversazioni sullo scrivere”), non è cosa da lasciarsi sfuggire. Si tratta della registrazione integrale di un ciclo di incontri per Radio Rai che lo scrittore condusse trent’anni fa su insistenza di Aldo Grasso, e sentirla fa bene al cuore. Alle orecchie un po’ meno, la qualità dell’audio è difforme, ma la freschezza delle questioni e dello stile ci fa dire che al programma non è passato un anno, mentre, da allora – Pontiggia aveva appena pubblicato Vite di uomini non illustri vincendo il premio Flaiano –, molti cattivi romanzi sono passati sopra i ponti anziché sotto come avrebbe dovuto essere. Ma proprio per questo, cullati dalla certezza che la ripetizione sia utile quanto più è inutile, il riascolto è donchisciottescamente consigliato.

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Come prendere sul serio molte cose che dice Pontiggia: con la sua parlata refrattaria all’effetto facile, amabilmente divagante, sempre sul filo di una simulata improvvisazione e di una cordialità non spettacolare, eccolo menare felpati fendenti e regalare dritte eterne. Eccellente l’impostazione problematica e non normativa delle questioni di scrittura, a partire dal concetto che la scrittura – quella quotidiana, che si ottiene a fatica, stanandola – sia inevitabilmente lontana dalla denominazione euforica che è “creativa”. Molto interessante la demolizione del culto superstizioso della parola: “Quando ci si innamora si scopre la parola”, dice Pontiggia, ma subito rievoca per contrasto Stendhal – “meglio tacere”. Perché è un fatto: si parla anche se non si verbalizza, ma la nostra prosa non lo sa, troppo spesso oberata di informazioni e direttive. Irrinunciabile anche la chiarezza, che – dice Pontiggia – “è una vera aspirazione intellettuale, rispetto ai modesti e narcisistici trionfi che garantisce un linguaggio incomprensibile”. Lodi all’oralità “da folletto micidiale” di Piero Chiambretti e alla prosa di Romano Prodi – tutto avremmo immaginato. E poi amore dichiarato per Italo Svevo, Paul Valéry, Montaigne. Le perplessità, anche queste molto attuali: verso chi si lascia prendere e perde la misura, e verso chi ulula contro i forestierismi senza accorgersi dei danni che produce chi scrive in italiano spento, usando una lingua le cui risorse resteranno in gran parte inutilizzate. Senza mezzi termini, le nude verità: non tutti coloro che si applicano, pur con tenacia, diventano scrittori; l’illusione che coglie lo scrittore che ha appena consegnato un’opera è di saper scrivere la successiva; scrivere non è trascrivere ciò che si ha in testa e men che meno rovesciare le budella sulla pagina – “non bisogna innamorarsi dei propri percorsi psicologici, è vanità puerile”. Evitare la retorica come la peste – cose del genere “trascorsi l’estate con un sodale di gioventù contubernale”. E tenere a mente Jules Renard, secondo il quale “che cielo!” è sempre meglio di “cielo azzurro”.

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