I giusti degli scacchi

Francesco M. Cataluccio

La passione di Gombrowicz e l’Olimpiade del 1939 in Argentina, rifugio e salvezza dalla Shoah. Il gioco che mantiene vivi nella prigione comunista. Un ’900 in bianco  e nero: note in margine a una mostra

È aperta da pochi giorni al Museo del Novecento di Milano la mostra di Massimo Kaufmann “Le regole del gioco”, una rassegna dal forte carattere interattivo e performativo (fino al 31 agosto). In esposizione quattro opere, vere e proprie scacchiere d’artista che sono rese disponibili ai visitatori. In questo mese di giugno è in programma una serie di sfide e incontri alla presenza dello stesso Kaufmann e dei tre autori dei testi nel catalogo “Le regole del gioco” (edito da Pondus): Marco Senaldi, filosofo, curatore e teorico d’arte contemporanea, Francesco M. Cataluccio, scrittore e saggista, e Lorenzo Madaro, critico d’arte e curatore, che converseranno di scacchi, letteratura e arte contemporanea. Ecco una parte del testo del catalogo.


  

Null’altro siamo che non parte del gioco, 
muoviamo su una scacchiera di giorni e notti; 
a ogni mossa un pezzo cade preso, 
la partita continua mentre noi siamo riposti.
(Omar Khayyām (1048-1131), matematico e poeta persiano).

   

In uno dei mosaici nel presbiterio dell’antica basilica di San Savino (XII secolo), a Piacenza, si vede una partita di scacchi tra un barbuto signore seduto su una specie di trono e un misterioso avversario. Misterioso perché di lui vediamo soltanto un braccio e la mano che muove una torre in f3. Mi sono sempre chiesto se quel braccio non sia, come in certi affreschi, la mano di Dio che sbuca dal cielo. L’ho visto che ero un ragazzino ed è diventato una specie di ossessione, qualche anno più tardi, quando guardai al cinema la morte (impersonata da Bengt Ekerot) sconfiggere in riva al mare il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow), nel film Settimo sigillo (1957) di Igmar Bergman. Quel braccio senza corpo né volto mi torna sempre in mente quando, durante una partita a scacchi, mi capita di astrarmi per riflettere sulla mossa successiva. Allora l’avversario di fronte a me sparisce. Quando poi tocca a lui muovere vedo solo la mano che tiene il pezzo che sta muovendo.

 
Iniziai a giocare a scacchi, all’età di sette anni, durante le vacanze estive grazie a un vecchio e annoiato bagnino di Viareggio, amico della nonna. Ma la vera scuola fu all’inizio delle medie, quando il nostro professore di matematica, che aveva a sua volta imparato gli scacchi come alpino durante la disastrosa campagna di Russia, si prestò a insegnarci, una volta alla settimana nelle ore pomeridiane, come migliorare attraverso lo studio e la pratica collettiva. La cosa più importante per me fu la scoperta che, essendo molto sfortunato in tutti i giochi (e nemmeno compensato, allora, dalla fortuna nell’amore), avevo capito che negli scacchi la fortuna conta pochissimo. Come lessi nella Novella degli scacchi (1941) di Stefan Zweig, l’ultimo racconto scritto prima del suo suicidio: “Conoscevo per esperienza personale la misteriosa forza di attrazione del ‘nobil gioco’, l’unico fra tutti quelli ideati dall’uomo che sovranamente si sottrae alla tirannia del caso e consegna la palma della vittoria esclusivamente all’intelletto o, meglio, a una certa forma di talento intellettuale”. 

 
La scacchiera si presenta come un campo neutro e rigoroso, assoluto: un universo manicheo retto da rigide regole dove lo scontro tra il bianco e il nero incarna la metafora dell’eterna lotta tra il Bene e il Male. Per questo, come ha scritto Mauro Ruggiero (Il labirinto sulla scacchiera, in “L’Italia scacchistica”, n.1179, 2005) quello degli scacchi è un tema caro alla letteratura tanto antica quanto moderna, come dimostra il fatto che autori di ogni tempo e luogo hanno scritto e continuano a scrivere opere il cui tema centrale ruota intorno a questo antico gioco di origine indiana, conosciuto in Persia, e diffuso in Europa dagli arabi tra il IX e il X secolo d.C.: “Da Zweig a Edgar Allan Poe, da Digny a Montale, da Omar Khayyām a Dante, da Cervantes a Goethe, tralasciando gli antichi trattati sul gioco (alcuni di illustri personaggi storici come quello di Alfonso X “il Saggio”, re di Castiglia e Leòn, del XIII sec.) e gli innumerevoli moderni studi dei grandi maestri, sono moltissimi gli autori che hanno dedicato particolare attenzione al gioco che nelle loro opere si spoglia delle sue caratteristiche logico-matematiche, per conservare solo i connotati filosofici a esso connessi”.
Lo scrittore polacco Witold Gombrowicz (1904-1968), che ho molto amato  e studiato, è stato accanitamente appassionato di scacchi. Come ha ricordato sua moglie Rita Labrousse: “Witold amava giocare a scacchi. Il suo maestro di scacchi Frydman mi disse che Gombrowicz vinceva quasi sempre perché assumeva una posizione di attacco. Iniziando il gioco, si percepiva subito che era all’attacco. Prendeva una pedina in mano e, per disorientare l’avversario, la batteva contro la scacchiera”. Gombrowicz comprese profondamente gli aspetti filosofici degli scacchi nella sua lotta incessante contro la Forma. Non era solo un gioco per lui, ma uno strumento di conoscenza, dell’avversario e di se stesso. Nell’estate del 1939, a bordo del transatlantico “Chrobry” (Valoroso), ammazzando il tempo giocando a scacchi, si recò a Buenos Aires, dove rimase fino al 1963. Là, in condizioni economiche assai precarie, scrisse molto e giocò parecchio a scacchi. 

 
Nella stessa estate del 1939, anche il più grande scacchista polacco, Moshe Mendel Mieczyslaw Miguel Najdorf (1910-1997) salpò da Anversa, a bordo della nave “Pirapolis”, per l’Argentina per prendere parte all’Olimpiade degli scacchi di Buenos Aires. I suoi genitori avevano una macelleria nel quartiere ebraico di Varsavia e volevano che diventasse una persona importante, un medico. Il suo destino fu deciso, quando aveva 9 anni,  da un evento legato alla malattia, anche se non alla medicina. Ha ricordato Najdorf: “Il padre del mio amico Ruben Fridelbaum mi insegnò a giocare a scacchi, e questo, si può dire, per puro caso. In quel momento era a letto e si annoiava molto, così quando andai a trovarlo mi  chiese se sapevo giocare a scacchi. Dopo la mia risposta negativa, tirò fuori un set di scacchi e iniziò a spiegarmi le regole. Fu così che fui contagiato dal virus degli scacchi e dopo una settimana ero già imbattibile per Fridelbaum senior...”. Najdorf partì per l’Argentina inconsapevole dell’imminente scoppio della Seconda guerra mondiale. Sua moglie avrebbe dovuto imbarcarsi con lui, ma rifiutò perché indebolita da una forte influenza. Rimase in Polonia con la figlia di tre anni. Najdorf racconterà in seguito: “Nessuno dei miei familiari è sopravvissuto alla guerra: moglie, figlia, quattro fratelli, mio padre...”.

 

Era solito dire di essere nato in Argentina per la seconda volta, ed è per questo che per oltre cinquant’anni considerò questo paese la sua patria. I suoi inizi in Sudamerica non furono facili: le Olimpiadi iniziarono il 21 agosto. Il 1° settembre, la notizia dell’attacco della Germania alla Polonia raggiunse i partecipanti. I tre inglesi si ritirarono dalla competizione e tornarono in nave a casa (a Londra lavorarono in seguito, sotto la direzione di Alan Touring, per decifrare il codice Enigma). Alcune partite non ebbero nemmeno luogo, come il previsto incontro della squadra polacca con quella del Terzo Reich, che fu semplicemente dichiarato concluso con il punteggio di 2-2 senza che i rappresentanti di entrambe le nazioni si sedessero alla scacchiera. L’intera squadra tedesca rimase in Sud America.

       

Najdorf e Gombrowicz  si conoscevano bene e, almeno nei primi giorni del loro soggiorno in Argentina, trascorsero molto tempo insieme. Il loro luogo comune era il caffè scacchistico “Rex”, che dopo qualche tempo fu gestito da un altro olimpionico polacco, Paulino Frydman, stabilitosi in Argentina come diversi altri maestri di scacchi polacchi, per scampare alla Shoah. Non solo grazie agli scacchi, Najdorf divenne sempre più ricco e famoso grazie alla sua compagnia di assicurazioni in Argentina. Fu un campione delle “partite di scacchi alla cieca”: si sedeva in una stanza separata, priva persino di strumenti per prendere appunti, sorseggiava succhi di frutta forniti dal suo sponsor, qualcuno gli portava le informazioni sulle mosse degli avversari e Najdorf rispondeva attraverso un microfono. Queste sessioni duravano fino a venti ore. La sua fama lo portò a giocare con personaggi come Winston Churchill, Nikita Kruscev, lo Scià dell’Iran, Josip Broz Tito: “Una volta Che Guevara mi invitò a Cuba e in un pomeriggio giocai dieci partite contemporaneamente. Alcuni dei miei avversari: Fidel Castro; suo fratello Raul; Camilo Cienfuegos; il presidente Dorticos; il Che... Offrii al Che un pareggio e non l’accettò. Mi disse: ‘Con te, vinco o perdo’. Ho vinto nove partite, ho fatto una patta con Fidel, non si sa mai...”, ricordò Najdorf. 

 
Jorge Luis Borges che fu amico e ammiratore di Najdorf, mentre ebbe in grande antipatia (ricambiato) Gombrowicz, allude frequentemente nelle sue opere agli scacchi. Molto bello è il un racconto breve Il miracolo segreto (1944). Vi si narra dello scrittore praghese Jaromir Hladik che sognò di essere il primogenito di una delle due nobili famiglie che disputavano una partita a scacchi iniziata dai loro antenati molti secoli prima e la cui posta in gioco nessuno ricordava, ma che si sapeva essere di enorme importanza e che, al momento della giocata, che doveva compiere lui e che non portò a termine, si risveglió mentre i carri armati del Terzo Reich entravano a Praga. Assai stretto è, secondo Borges, soprattutto il rapporto tra scacchi e poesia, nella quale egli intravede un enigma paragonabile a quello scacchistico: “Come scacchi misteriosi, la poesia, la cui scacchiera e i cui pezzi mutano come in un sogno e sul quale mi inchinerò dopo essere morto”. Nella bellissima poesia I Giusti (1981), vengono insigniti di questa qualità anche “Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi”. 

 
Un “giusto degli scacchi” è stato certamente Janusz Szpotanski (1929-2001), detto “Szpot”. Poeta, critico e traduttore geniale senza lavoro fisso perché considerato “elemento parassitario e antisociale”. Tre volte campione di scacchi a Varsavia e titolare del titolo di Maestro. Arrestato nel 1967 per aver scritto opere satiriche sul regime comunista, nel 1968 fu condannato a tre anni di prigione dove salvò il proprio equilibrio mentale grazie agli scacchi (tutti volevano giocare con lui) e ai libri. Lo frequentai a Varsavia negli anni Ottanta. Andavamo a volte a fare una passeggiata nel parco vicino a casa sua, dove c’erano dei pensionati che come avvoltoi attendevano le “prede” seduti dietro a tavolini di pietra con sopra disegnata la scacchiera. Giocavano a soldi e per invogliare i passanti erano disposti a concedere il vantaggio di una torre, un alfiere e persino un cavallo. Quando vedevano arrivare Szpot impallidivano: li batteva comunque. Io invece “arricchii” diversi di quei vecchietti, dei quali, anche per questo motivo, divenni amico e mi insegnarono parecchi preziosi trucchi. 

  
Szpotański è rimasto celebre nel mondo degli scacchi per esser stato protagonista di un “re che mangia l’altro re”. Durante la gara nel campionato di scacchi del 1957, stava perdendo. Era una cosiddetta “partita rapida”, con poco tempo per pensare e la possibilità di dare lo scacco al re senza dichiararlo. Messo alle corde, Szpot mise con nonchalance il suo re accanto al re dell’avversario. E dopo che l’altro, senza accorgersene, gli mangiò l’alfiere, lui gli mangiò il re. L’avversario contestò la mossa sostenendo che con si può mettere un re accanto al re. Spot replicò che avrebbe dovuto dirlo nel momento in cui i due re erano stati messi vicini. Il giudice perplesso, dopo aver consultato inutilmente il regolamento, decise di sospendere il risultato e scrivere al Centro degli scacchi di Reykjavik. La risposta arrivò dopo un mese: Szpot vinse e fu anche ringraziato perché da quel momento, nel regolamento, fu introdotto il principio che non si può affiancare, nelle “partite rapide”, un re a un altro re.
Fu Szpotanski a farmi leggere La difesa di Lužin (1930) di Vladimir Nabokov, scritto in russo a Berlino e pubblicato con lo pseudonimo di V. Sirin. Lo scrittore era un buon giocatore di scacchi, ma era interessato soprattutto ai problemi, che considerava, se ben costruiti, delle vere e proprie opere d’arte. Ne compose e pubblicò una ventina. 
Molte volte ho avuto la sensazione di aver smarrito il senso degli scacchi. Per molti anni non ho avuto voglia di giocare. Se venivo forzato a farlo mi si manifestava quasi subito il mal di testa. Ho ritrovato le motivazioni per tornare a pensare e giocare agli scacchi il 2 marzo del 2022 quando ho letto l’appello contro la guerra all’Ucraina, firmato dai più importanti scacchisti e scacchiste russi, a cominciare dal Grande Maestro Internazionale Ian Nepomniachtchi: 

  

“Ci opponiamo alle azioni militari sul territorio dell’Ucraina e chiediamo un cessate il fuoco tempestivo e una soluzione pacifica del conflitto attraverso il dialogo ei negoziati diplomatici. E’ insopportabilmente doloroso per noi vedere la catastrofe che sta accadendo in questi giorni ai nostri popoli. Abbiamo sempre giocato per la Russia in gare individuali e, con particolare orgoglio, in squadre. Crediamo che gli scacchi, come gli sport in generale, debbano unire le persone. (...) Gli scacchi insegnano la responsabilità delle proprie azioni; ogni passo conta e un errore può portare a un punto fatale di non ritorno. E se si è sempre trattato di sport, ora è in gioco la vita delle persone, i diritti e le libertà fondamentali, la dignità umana, il presente e il futuro dei nostri paesi”.

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