Martin Amis e il piacere di vedere gli altri fallire

Stephanie Mansfield

Il disprezzo per i soldi, per New York, per chi ha più successo di te. E  l’unico  suo romanzo che il padre ha finito di leggere. Un’intervista del 1985, dopo “Money” 

Per lo scrittore britannico Martin Amis, il denaro fa parte della stessa ignobile categoria dell’herpes genitale, dei giochi a premio durante il giorno e della Long Island Expressway.


In altre parole: puzza. Avvicinate il naso al dollaro onnipotente e inalate il fetore dell’avidità e dei sogni marci.


“Il denaro puzza, letteralmente”, dice il celebre autore del nuovo e scandaloso Money: una nota suicida (tutti i libri di Martin Amis sono pubblicati in Italia da Einaudi). “Il sesso non ha bisogno di puzzare, ma il denaro sì, sempre”. Amis non li avvicina neanche, i soldi. “Mi trovo in quella brillante posizione in cui ho abbastanza soldi da non averci a che fare mai. Non apro una lettera della banca da tre o quattro anni. Quando le mando al mio commercialista alla fine dell’anno, le taglio, così almeno sembra che le abbia aperte. Le ore che passo con il mio commercialista sono le peggiori della mia vita”.


Oltre ai soldi, Amis disprezza una mucchio di altre malattie sociali: New York, le persone che leggono i suoi libri troppo in fretta, gli intervistatori “che vengono pensando che io stia per fare lo spocchioso, sono esageratamente amichevoli e poi tornano a casa e mi picchiano con la macchina da scrivere”, e gli autori che hanno più successo di lui.


“Conosci la sensazione che si prova quando un tuo coetaneo, uno come te, va a fondo”, dice con un ghigno. “E’ un vero brivido. Come diceva Gore Vidal: ‘Non basta avere successo. Gli altri devono fallire’”. 


E ora che il successo c’è, chi vorresti vedere andare a fondo? “Potrei dire: chiunque. Il cuore si alza come un falco nel vedere qualcuno che viene fatto a pezzi”.
Aspira la sigaretta. “Tutti noi fingiamo di essere modesti, ma non puoi essere un cucciolotto se fai lo scrittore”.


Il figlio trentacinquenne del romanziere Kingsley Amis è questo: un cucciolo perverso che morde le caviglie dell’establishment letterario, abbaia alle convenzioni, guaisce per attirare l’attenzione.


Amis è seduto in un ristorante di Washington, sorseggia vino rosso, le dita pallide tengono una sigaretta arrotolata a mano senza filtro, il sorriso teso e i denti malandati – tutte prove fisiche del cinismo degli oxfordiani che ha spinto Newsweek a definirlo “il romanziere inglese più perfido dai tempi di Evelyn Waugh”.
Amis minimizza il paragone. “Credo di provenire da un’altra direzione. Lui aveva una specie di disprezzo patrizio per le cose. Io sono più interessato a sviluppare un disprezzo proletario”.


Se Mick Jagger sapesse scrivere bene come canta, si chiamerebbe Martin Amis. Sono fratelli degli anni Sessanta, tutti labbra imbronciate e pallore anemico. You’re so vain che probabilmente pensi che questo libro parli di te. “Ti dirò una cosa che non sa nessuno. Ogni volta che uno scrittore sfoglia per esempio la Sunday Book Review del New York Times, si domanda: ‘Che cos’è tutto questo parlare di altri? Perché non si parla soltanto di me?’”.


Cosparge la nostra conversazione di bon mots e di riferimenti letterari del passato – Baudelaire, Ezra Pound, Dorothy Parker – il nome di Saul Bellow viene fuori una o due volte, anche quello di Bernard Shaw.


In effetti, se non fosse per l’indiscussa padronanza della lingua, il genio comico e l’orecchio attento ai dialoghi, Amis potrebbe essere semplicemente un altro giovane inglese intelligente e sì, spocchioso, con un arsenale di battute, come: “Lo stile è tutto e niente, ma è soprattutto tutto”.


Arriva il cameriere. “Possiamo ripetere?”, dice Amis, indicando il suo bicchiere vuoto. Tutti gli chiedono come gli sia venuto in mente il personaggio di John Self, il protagonista di Money, un regista di spot pubblicitari londinese borioso e vizioso il cui cammino transatlantico verso la ricchezza e la fama è lastricato di prostitute, sbornie di una settimana, intermezzi masturbatori, star del cinema drogate e un’auto chiamata Fiasco. Per non parlare, come fa Amis davanti a un altro bicchiere di vino, di “artisti licenziati, artisti sprecati, artisti cretini, artisti scappati”.


Self è un uomo “dipendente dal XX secolo”. Un uomo che va in California per un trapianto. Un uomo che assiste a una rappresentazione di Otello e si infastidisce perché non è in inglese. Un ragazzo boogie-woogie bugle con un viso “pieno di archeologia adolescenziale, di cibo a buon mercato e di denaro sporco, la faccia di un serpente grasso, che porta tutti i segni dei suoi peccati”. Che sono “imprecare, litigare, picchiare le donne, fumare, bere, i fast food, la pornografia, il gioco d’azzardo e le seghe”.


Questo tizio farebbe sembrare John Belushi un mormone. In effetti, dice Amis, il libro ha ricevuto un’accoglienza migliore negli Stati Uniti che in Inghilterra. “La mia teoria è che questo sia il primo eroe transatlantico verso il quale gli americani non si sentono affatto inferiori”.


Scrive la rivista People: “Da quando la scrittrice Joyce Cary aveva pensato al pittore Gulley Jimson per The Horse’s Mouth, non si era mai visto un romanziere che inventasse un personaggio tanto ripugnante... un ritratto acuto e sorprendentemente credibile dell’uomo di oggi al massimo della sua avidità, sgradevolezza e dissolutezza”.


Scrive James Atlas su Vogue: “Money è volgare, febbrile, petulante, ma è uno dei romanzi più divertenti che abbia letto dopo Lucky Jim di Amis senior”. 

 

Dice Amis: “Tutto ciò che avevo all’inizio era l’idea di un inglese ubriaco che cerca di girare un film a New York”. Un inglese che non assomiglia a nessuno nella vita di Amis, nemmeno a lui stesso. “Ho visto una persona in un pub in Inghilterra a cui poi ho pensato molte volte. La gente crede che i personaggi dei libri si basino su persone reali, ma è molto più probabile che si tratti di persone che hai incontrato per dieci minuti e che ti sono rimaste addosso. Se si conosce troppo una persona, questa non si adatta a un romanzo. I romanzi sono cose artificiali. Non sono come la vita. Sono molto più armoniosi. Non sono caotici come la vita”.


La vita, per Martin Amis, è “un processo a perdere”, dice, “un viaggio pietoso e patetico”. Non c’è da stupirsi che abbia scelto di guadare il pozzo nero dell’esistenza umana per trarne ispirazione. 

 

“Per me che sono uno scrittore comico il cui interesse principale sono il dolore, l’angoscia e la delusione”, dice, “il libro è tutto quel dice”. Pensate a quando scriviamo a chi è rimasto a casa. “Una lettera che parli solo del bel tempo, del buon cibo e degli alberghi confortevoli è: non divertente da scrivere e non divertente da leggere. La lettera che parla di passaporti rubati e di diarrea è divertente da scrivere e da leggere”.
“Tutti noi – insiste – preferiamo leggere di disgrazie”.


E la sfortuna, dal vivo e in Technicolor, è stata a lungo la musa di Amis. “Non so perché mi appassioni tanto”, dice pensieroso. “Dovresti parlare con il mio psicologo di quando ero piccolo”. 


Sei davvero così traviato? “Beh”, sorride beffardo spegnendo la sigaretta, “tu cosa dici?”.

 

Il cameriere gli riempie il bicchiere. “Fai un piccolo assaggio di quel tipo di vita. Prendi quel pezzettino e lo espandi. Lo esageri in modo comico. Scegli la pepita più peccaminosa”. In Money quella pepita sono i soldi, mentre John Self va da Londra a Los Angeles per cercare di finanziamenti al suo film, intitolato alternativamente Good Money o Bad Money. (Ironia della sorte, ad Amis è stato commissionato di trasformare il romanzo in una sceneggiatura).


I soldi, i soldi puzzano. Davvero, prendi una mazzetta di banconote ben usate e mettitele in faccia... calze di ragazzini, sapore di mal di testa da porno, vecchie infezioni, rifugi di fortuna, dispense, asciugamani umidi, l’odore delle cuciture delle borse, il sudore dei palmi delle mani e la sporcizia delle unghie delle persone che maneggiano questa roba tutto il giorno, in modo così bisognoso. Ah, quanto puzzano...


Sono uno strano gruppo, questi uomini con i soldi, i baroni degli hotel di Miami, i boss degli allevamenti del Nebraska, i re del petrolio del Maryland. I loro unici argomenti sono le star del cinema e i soldi. Parlano di soldi in quel modo americano da squalo, come se il denaro fosse l’unica unità di misura. Trovo che siano una compagnia piuttosto rilassante.


Cos’è questa ossessione per il denaro? “Molte persone civili passano gran parte della loro vita a preoccuparsi del denaro o a volerne di più”, dice Amis.

 

Tira fuori un sottile cofanetto di cartine, prende un po’ di tabacco Virginia e fa su la sigaretta, passandosela sulla lingua prima di metterla tra le labbra. “Non si tratta di soldi, ma di più soldi. Perché la gente non si accontenta? Perché la gente non si ferma? Le persone sono avide del loro quindicesimo milione come del terzo”.


Oltre ai soldi, Amis trova  insopportabile Manhattan. “Mi sono  allontanato completamente da New York. La trovo profondamente sgradevole. E’ diventata una città per ricchi. E’ impossibile vivere una vita da classe media a New York. Si può essere ricchi o poveri. Non si può essere una via di mezzo”.
Amis ha un’opinione piuttosto bassa dell’America in generale, ma non ha pregiudizi: “E’ piuttosto bassa anche quella dell’Inghilterra”.


Non tutte le recensioni di Money sono state positive. La rivista New York lo ha definito “un romanzo altezzoso e distaccato” e “una satira scontrosa”. 


 Amis si rigira tra le dita la sigaretta giallognola. “Non sono mai sicuro che quello che scrivo sia satira o no, ma è un’opinione satirica. E’ un’opinione comica”.

Un’opinione che suo padre non apprezza. “Non è riuscito a finirlo”. Amis ha scritto altri quattro romanzi, uno più depravato dell’altro, tra cui Dead Babies, Success e Other People (“Non è riuscito a leggere nemmeno questi”). Il suo primo libro, pubblicato nel 1973, è stato The Rachel Papers, definito dal Times Literary Supplement “scurrile, spudorato e molto divertente... è un libro che metterà Martin Amis sulla mappa” della letteratura. Ma Amis non fu l’unico a ritrovarsi su questa mappa. Nel 1980 prese in mano una copia di Wild Oats, un romanzo di formazione di un giovane scrittore americano di nome Jacob Epstein, figlio dell’importante editore di Manhattan Jason Epstein, e notò che l’autore aveva preso dei passaggi, alla lettera, da The Rachel Papers. Lo scandalo che ne seguì fece chiacchierare a lungo la scena letteraria transatlantica. Amis non ne vuole parlare. “In realtà è una questione risolta, a volte mi pento di aver richiamato l’attenzione su questa cosa”.


The Rachel Papers, che vinse il prestigioso Somerset Maugham Award, come era accaduto al primo romanzo di suo padre due decenni prima, è anche l’unico libro di Martin Amis che Kingsley Amis è riuscito a finire. A sua madre, racconta, Money è piaciuto molto. “Mi ha telefonato e mi ha detto: ‘Sai che tuo padre non è riuscito a finirlo?’. Le ho chiesto: ‘Che scusa ha addotto questa volta?’. Lei ha risposto: ‘Ha detto che era troppo difficile’”.  Il figlio spiega che all’anziano romanziere non piace la prosa moderna. Il suo autore vivente preferito è Dick Francis, e di recente ha detto: “Non leggerò più romanzi che non inizino con la frase: ‘E’ risuonato uno sparo’”. Questo da un uomo che ha scioccato la sua generazione con il sensazionale Lucky Jim.


“Sai che cosa cosa disse Somerset Maugham di Lucky Jim quando gli assegnò il Somerset Maugham Award? Elogiò il libro e disse: ‘Amis ha immortalato con esattezza questa nuova generazione di giovani uomini che vanno contro le convenzioni. Il suo orecchio è così esatto, il suo occhio così sicuro’. La frase successiva che disse fu: ‘Sono la feccia’”. 


Espira un filo di fumo, ridendo. “Mio padre non ha mai pensato a Lucky Jim come alla feccia. Io non penso a John Self come alla feccia”. Fa una pausa. “Non penso che sia una brava persona come Lucky Jim”.


Allora dai, Martin, raccontaci com’è essere il giovane scrittore più in voga in due continenti. Cosa si prova? “Non si prova granché. Uno dei vantaggi di avere un padre scrittore è che scrivere non sembra affatto un modo strano di vivere. Se è vero che qualsiasi tipo di fama ti prende alla testa – dove altro dovrebbe prenderti, ai piedi? alle gambe? – penso di essere straordinariamente libero dal solito kit degli scrittori fatto di invidia e di paranoia, soprattutto di paranoia”. Per quanto riguarda l’essere un fenomeno letterario, “non mi sembra che sia così. In America forse sì. A Londra, voglio dire, l’idea che qualcuno sia come J.D. Salinger e che debba chiudersi dietro il suo fossato infestato dai piranha – non è così. Non vedo alcun vantaggio nella fama, ho guardato molto da vicino la fama e mi sono chiesto quale sia il suo scopo, e non riesco a vederlo. Non c’è nulla di vantaggioso per chi è famoso. Non riesco a capire cosa ci guadagno. Non mi interessa che tavolo mi viene dato al ristorante purché non sia nel bagno degli uomini”.


Martin Amis è nato a Oxford, in Inghilterra, e ha studiato in tredici scuole diverse in Inghilterra, Spagna e Stati Uniti. “Scrivendo questo libro, sono stato molto contento dell’anno trascorso in America, anche se avevo soltanto dieci anni. Ho sentito di aver imparato molte cose. Soprattutto, so come parlano gli americani. E’ molto rischioso attraversare l’Atlantico con l’orecchio”. Nel tempo libero leggeva fumetti e fu “licenziato” da scuola a 13 anni. “Non ci sono andato più fino ai 17 anni, e poi ho fatto tutto abbastanza in fretta”. Ha frequentato l’Exeter College di Oxford, dove ha conseguito i First Class Honors in inglese. Dopo la laurea ha iniziato a lavorare al Times Literary Supplement e ha scritto il suo primo romanzo. Avere Kingsley Amis come padre non ha guastato. “Significava che il mio primo romanzo sarebbe stato pubblicato più o meno a prescindere da come fosse”.


E’ stato al magazine New Statesman per cinque anni, poi all’Observer, per il quale scrive ancora ogni tanto (l’anno scorso lo scrittore Graham Greene ha concesso ad Amis una rara intervista e gli ha detto che avrebbe preferito vivere i suoi ultimi giorni nei Gulag piuttosto che in California. Amis dice che sceglierebbe la California in qualsiasi momento).


Dice di aver scritto tre bozze di Money e recentemente si è sentito insultato quando un intervistatore londinese, scambiando il suo flusso di coscienza per un dettato, ha avuto la sfacciataggine di chiedere se il libro fosse stato registrato. “E’ una prosa molto elaborata”, dice Amis sulla difensiva.
Forse per assicurarsi che i lettori non confondessero l’autore con il protagonista, ha inserito nel libro un giovane scrittore. Il suo nome è Martin Amis. Ma lui dice di averlo fatto perché è quello che più ha manipolato Self. “Sono io che l’ho incastrato, davvero. Ho pensato di dover andare avanti e chiarire a John Self le mie intenzioni”.


E’ altrettanto chiaro che Amis ha un debole per questo grande cafone.


 “Mi è sempre piaciuto, fin dall’inizio. Anche se mentre lo scrivevo pensavo: oh, Cristo, lo farà qualcun altro? E’ un personaggio universale. E’ la figura che noi tutti siamo quando ci chiudiamo la porta del bagno alle spalle. Quando pensiamo di non essere osservati. Lui pensa di non essere osservato eppure sospetta di esserlo. E lo è. E’ in un romanzo. Durante gli episodi più vergognosi e privati, tutti ridono di lui”. In realtà non è un tipo così cattivo, dice Amis: “Ha delle cattive abitudini”. Alla fine, Self rimane senza niente. Un mendicante per strada. “Gli farà bene non avere soldi. Almeno non potrà permettersi i suoi vizi. E’ stata Dorothy Parker, o forse era Bernard Shaw, a dire: ‘Alla fine ti rimane solo la tua virtù, perché i vizi sono così banali e ridicoli’”. 
Il cameriere arriva con il conto. Amis non si muove. Non porta con sé il portafoglio.
 

Stephanie Mansfield, Copyright Washington Post, 1985

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