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la riflessione

Sbaglia chi identifica il conservatorismo solo con l'antiliberalismo

Sergio Belardinelli

All'origine di un discredito che impera da mezzo secolo. Ma gli ideali conservatori sono “qualcosa di più alto e più profondo del meschino desiderio di perdere ciò che si ha il più lentamente possibile”

Conservare è la naturalissima reazione degli uomini rispetto alla caducità delle cose. Queste ultime tendono inesorabilmente a decadere, così un uomo o una donna che riassettano la casa o il giardino, che trattano con cura gli oggetti che li circondano, che mettono i loro gioielli in una cassetta di sicurezza o raccomandano ai loro figli di non frequentare certi luoghi si comportano appunto come persone che cercano di conservare. In questo senso siamo tutti un po’ conservatori. Anche in politica. Lo stato, non a caso, è per sua definizione l’istituzione che tutela, che conserva. E quello dispotico costituisce un’eccezione, proprio perché, come diceva Montesquieu, “nel regime dispotico il principe conserva solo se stesso”. Ma allora perché tanto discredito sul cosiddetto conservatorismo?

 

Non credo che tale discredito dipenda dal fatto che la naturale (e ragionevolissima!) disposizione degli uomini a conservare ciò che hanno a cuore li spinga in molti casi all’eccesso, poniamo a conservare anziché moltiplicare, come accade nella famosa parabola evangelica dell’uomo che sotterra il suo talento. Le cause sono piuttosto di natura politico-culturale e hanno a che fare certamente con il fatto che storicamente il conservatorismo è nato in contrapposizione rispetto alle spinte libertarie della rivoluzione francese, ma forse più ancora con il successo che in questi ultimi cinquant’anni ha avuto l’identificazione del conservatorismo con l’antidemocrazia, l’antiliberalismo e l’antimodernità. Habermas e Steinfels, tanto per fare due nomi importanti, ne sanno qualcosa. Eppure tale identificazione è tutt’altro che scontata.

 

Premesso che il conservatorismo politico fin dal suo inizio è sempre stato caratterizzato da notevole polimorfismo: Burke non è certamente Novalis, e Adam Müller non è certamente de Bonald o de Maistre; premesso altresì che nel XX secolo abbiamo la “rivoluzione conservatrice” di Hugo von Hoffmannstahl e nel contempo conservatori che difficilmente si distinguono dai liberali, penso a Oakeshott e a Nisbet; altri che sono conservatori tecnocrati, penso a Gehlen e a Schelsky; altri ancora che, sulla scia della scuola di Joachim Ritter, sono conservatori ecologisti; altri infine, vedi Wolfgang Böckenförde, che sono conservatori e cristiani; premessa tutta questa varietà di posizioni, diventa invero difficile giustificare la suddetta identificazione del conservatorismo con l’antidemocrazia, l’antiliberalismo e l’antimodernità. Ma tant’è.

 

L’identificazione ha avuto successo e il discredito nei confronti del conservatorismo è più vivo e operante che mai.  Non voglio dire ovviamente che in diverse correnti del pensiero conservatore non sia presente una forte vena antidemocratica, antiliberale e antimoderna, ma certamente questo non vale per autori come Burke, Oakeshott, Nisbet, Böckenförde o lo stesso Ritter, i quali potrebbero costituire invece un riferimento importante per un conservatorismo di stampo liberale del quale ci sarebbe estremo bisogno. Si tratta in fondo di preservare quelle condizioni della libertà moderna che la libertà, da sola, non è in grado di preservare. Questo è il conservatorismo che potrebbero insegnarci i suddetti autori. Un conservatorismo che, alla fine, si riduce a poche, anzi pochissime convinzioni: l’inviolabile dignità della persona umana, ma anche la sua caducità; il primato della libertà in una politica il cui scopo non è il conseguimento della perfezione, bensì la minimizzazione del male possibile; un ethos ereditato dalla tradizione premoderna capace di impedire che la libertà si riduca alla semplice rivendicazione di ciò che io, e io soltanto, considero un mio diritto; l’importanza della religione come forma di alleggerimento e di protezione della politica da qualsiasi tentazione sacralizzante; la consapevolezza che è sì possibile una società del tutto priva di libertà e uguaglianza, mentre è impossibile una società nella quale regnino contemporaneamente la più totale libertà e la più perfetta uguaglianza. 

 

Tenuti fermi questi punti, potremmo dire che tutto il resto è affidato alla saggezza e alla fantasia degli uomini. Conservatorismo dunque che in senso strettamente filosofico si gioca soprattutto sul tema della umana libertà e dei suoi limiti, e che in senso politico significa soprattutto realismo, da non confondere con il cinismo. Una forma di conservatorismo che si concepisce non tanto come netta opposizione agli ideali della rivoluzione francese, quanto come una sorta di comprensione di quegli ideali nel solco della tradizione politica classica, a conferma del fatto, che, come ebbe a osservare Hermann Wagener, consigliere politico di Bismarck, il conservatorismo può essere anche “qualcosa di più alto e più profondo del meschino desiderio di perdere ciò che si ha il più lentamente possibile”.

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