Matilde Serao con Eleonora Duse, Francesco Paolo e Tristan Bernard (Wikipedia)

La madre dei giornali

Leggere Matilde Serao e ritrovarsi nell'Italia di fine Ottocento

Annamaria Guadagni

Le inchieste, i romanzi, il Nobel mancato a causa dell’antifascismo: un ritratto di Donna Matilde, che quando cominciava a parlare "si imponeva a tutti" senza aver bisogno di "profetare e predominare". Sottovalutata in patria, Henry James dedicò un saggio alla "grande scrittrice romantica"

Prima della Grande guerra Edith Wharton, elegante e snobbissima americana ormai di casa a Parigi, incontrò Matilde Serao nel salotto di Madame Fitz-James. L’autrice de “L’età dell’innocenza”, romanzo che le valse il Pulitzer nel 1921, ne riferì in un suo memoir pubblicato nel 1934. In una pagina di rara perfidia e specchiata onestà intellettuale, Matilde Serao vi appare come la personalità “di gran lunga più notevole” tra le donne incontrate in quel salotto. Ma, insieme, è il pittoresco personaggio che la padrona di casa esibisce come “un numero impareggiabile per i suoi trattenimenti”. A quel tempo, donna Matilde andava ogni anno a Parigi per promuovere la traduzione dei suoi romanzi. E lì aveva diversi amici, tra i quali il conte Gégé Primoli, parente di Napoleone, e gli scrittori Paul Bourget e Anatole France. Fu durante uno di questi suoi viaggi che Edith Wharton la vide e la descrisse come “una tozza e grassa donna, rossa in faccia e sul collo, che affondava tra spalle rotonde a cuscinetto”. I suoi capelli neri, annotò, erano “acconciati laboriosamente come quelli di una contadina napoletana e sembravano una parrucca. Era di età indefinibile, sebbene il fatto di essere accompagnata da una figlioletta in sottane corte la facesse supporre sotto i cinquanta. La sua bizzarra figura mezzo spagnola era simile a las Meninas di Velasquez”. Sempre in vesti scollate, ne portava una “di seta scarlatta, adorna di merletti neri, su cui le sue braccia corte e le sue mani paffute posavano come quelle di un cherubino su una nuvola al tramonto. Con quegli abiti e quei colori offensivi, appariva una figura incongrua, in quel salotto dove tutto era in penombra e in semitoni”. Ma ecco la sgraziata e malvestita menina, addobbata con colori offensivi, trasformarsi sotto gli occhi increduli di Wharton. Perché quando Serao cominciava a parlare “si imponeva a tutti”. E non aveva bisogno di “profetare” e “predominare”, ciò che le interessava era “comunicare con persone intelligenti”. La sua professione di giornalista “le aveva fornito una rude e pronta conoscenza della vita e un’esperienza delle cose pubbliche totalmente mancanti alle Corinne da salotto che essa superava in spirito ed eloquenza”. Donna Matilde si distingueva per il “senso virile del fair play” e quando la si invitava a parlare “allora i suoi monologhi raggiungevano punte che non ho mai rilevato nel discorso di nessun’altra donna”. In lei, conclude Wharton, “cultura ed esperienza erano fuse nello splendore di un forte intelletto”. 

 

Nella galleria delle antenate del giornalismo, attive nell’Italia dell’Ottocento, non può mancare Matilde Serao, che certamente fu la più importante. Ci piaccia o no, ha scritto Miriam Mafai, Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio sono il padre e la madre del giornalismo italiano. A lei dobbiamo “la ricchezza della scrittura e, nei casi migliori, la capacità di guardare con occhio attento la realtà del paese, nelle sue brutture e nelle sue frivolezze”. Da lui “abbiamo ereditato il gusto della polemica, della sfida, del duello (non solo metaforico) ma anche una buona dose di spregiudicatezza e di avventurismo”. Insieme fondarono ben tre quotidiani cui ne seguì un quarto tutto della Signora, come la chiamavano i napoletani. Provate a rileggerli adesso. Troverete Scarfoglio incapsulato nel suo tempo, Serao invece no: al netto dei patetismi e delle ridondanze, lei è ancora qui, tra noi. Anche se è poco letta, se le nuove edizioni dei suoi libri sono appannaggio di piccoli editori e se manca un Meridiano che raccolga almeno una selezione delle sue opere. Per capire che Matilde è ancora qui basta riprendere l’incipit del suo libro più famoso, un capolavoro di retorica scritto dopo l’epidemia di colera del 1884 contro l’intenzione del governo Depretis di risanare il centro di Napoli sventrandolo. Uscito a puntate sul Capitan Fracassa e successivamente raccolto in volume da Treves, “Il ventre di Napoli” è un manifesto contro i dilettanti del colore meridionale. E descrive “la miseria caotica” che le drastiche improvvisate misure avrebbero lasciata intatta se non peggiorata. A differenza del governo, la Signora sapeva tutto di Napoli. Aveva visto “tutti i quartieri fatiscenti e luridi dove si annida e brulica la povera gente che mai potrebbe pagare l’affitto di alloggi decenti, qualora se ne costruissero”. Se quello era il Ventre di Napoli e se il governo non lo conosceva, allora che governo era, e come poteva dirsi “intelligenza suprema del paese”? 

 

La Serao del sentire comune è questa: potente e irrimediabilmente confinata a una dimensione “locale”. Invece proprio non fu così. Donna Matilde, che morì settantenne al suo tavolo da lavoro, fu – nella sua anfibia natura di giornalista e scrittrice – una personalità di rilievo europeo. Nel 1901 Henry James scrisse su di lei un saggio pubblicato da The North American Review. James ce l’aveva con “il tipico romanzo inglese”, inchiodato a un rigido canone e stucchevolmente osservante delle convenzioni di ciò che si può o non si può narrare. Il suo bisogno di dissacrazione aveva individuato negli anni ottanta dell’Ottocento “la grande scrittrice romantica Matilde Serao”, “che ha il raro merito e la forza di far sì che, agli occhi del lettore, la fine dei suoi romanzi non coincida con la fine delle storie che raccontano”. Per Henry James, Serao aveva avuto la fortuna di crescere e di maturare in un ambiente in cui la convenzione l’aveva influenzata molto poco e pertanto in lei si può trovare “un prezioso esempio delle potenzialità insite nella libera pratica della scrittura”. Per lei, osservava James, non esistono limiti tra ciò che è appropriato e ciò che non lo è e si disinteressa a tal punto delle prescrizioni formali “da rasentare l’impertinenza”. Serao non è un’ingenua, una naive; al contrario è “senza dubbio consapevole di infrangere una norma letteraria”. La verità è che se ne infischiava. E qui sembra di sentire in sottofondo la risata tonante di donna Matilde, considerata una “verista minore” e così lucidamente consapevole di scrivere in modo fluviale e quasi sciatto per soddisfare i palati più fini, avendo in cuor suo il desiderio di arrivare in modo semplice e diretto al lettore comune. Quello che le dava da vivere.

 

Henry James aveva letto molti libri di Serao e aveva colto “una sensitiva straordinaria spontaneità”. La trovava “fragorosa, loquace, copiosa, felice, con lussuriose e insistite descrizioni di ciò che è bello, costoso e carnale”. In lei vedeva la capacità di riflettere “la bellezza, la miseria, la storia, la luce, il rumore e la polvere, il prolungato paganesimo e le rinnovate reazioni ad esso, la grandiosità del passato e la meschinità del presente”. Provocatoriamente, James osò scrivere che il mestiere di giornalista, ciò che per quasi tutti rappresenta il suo limite maggiore – l’eccessiva pratica di un registro sbrigliato, capace di piegare la scrittura a tutto – abbia al contrario donato a Matilde Serao “rara energia” e “una immensa disinvoltura”. Insomma un capovolgimento, se si pensa che Anna Banti riteneva al contrario che il mostruoso talento di Serao, cui pure riconosceva un paio di “capolavori” (“Il ventre di Napoli e “Le virtù di Cecchina”), fosse stato rovinato dalla necessità di scrivere a un ritmo assurdo. Si dice producesse novemila parole al giorno e, secondo un conto approssimativo, ha lasciato 18 romanzi, 26 tra racconti lunghi e antologie di novelle, 2 drammi teatrali, 20 raccolte di scritti fra inchieste, reportage, testi di conferenze. Chi voglia sapere com’erano Napoli e Roma a fine Ottocento e avere l’impressione di vederle andando per vicoli e botteghe, salotti e caffè, redazioni di giornali, camere d’affitto e osterie deve leggere Matilde Serao.  

 

La Signora fu una donna in carriera determinata e sgomitatrice. Anche questo, al tempo del suo trasferimento a Roma, quando cercava di entrare nel mondo dei giornali, della politica e dei salotti, se lo diceva da sé: “… Sono in un periodo di produzione febbrile da far paura: scrivo dappertutto e di tutto con audacia unica, conquisto il mio posto a forza di urti, di gomitate col fitto e ardente desiderio di arrivare, senza avere nessuno che mi aiuti o quasi nessuno. Ma tu sai che io non do ascolto alle debolezze del mio sesso e tiro avanti come un giovinotto”. Conosceva i propri arrembanti desideri e le finzioni necessarie: “Queste damine eleganti non sanno che io le conosco da cima a fondo, che le possiedo nella mia mente, che le metterò nelle mie opere; esse non hanno coscienza del mio valore…”. Era “il complesso della donna non ricca, non bella, non elegante, che ingigantisce la consapevolezza della propria superiorità intellettuale per resistere e difendersi”, chiosa crudele Anna Banti, una sua importante biografa (“Matilde Serao”, Utet 1965). Probabilmente sì, ma di lì veniva l’energia della guagliona di Patrasso, come dicevano i vecchi cronisti del Mattino. Serao era infatti nata in Grecia nel 1856, da padre giornalista esule antiborbonico e madre diafana nobildonna greca in disgrazia, colta e poliglotta. Semi-analfabeta fino a 8-9 anni – era una bambina troppo vivace e desiderosa di gridare e di correre per piegarsi su un quaderno – la giovane Matilde si diplomò in una scuola per fanciulle per poi impiegarsi ai telegrafi e mantenere la famiglia. Ne “La conquista di Roma” e in “Vita e avventure di Riccardo Joanna”, che Croce definì “il romanzo del giornalismo”, raccontò con spietata verosimiglianza la capitale corrotta di fine Ottocento e l’ascesa di un giornalista di provincia, come lei cresciuto fin da bambino nelle stanze polverose delle redazioni napoletane.

 

“La conquista di Roma” fu scritto a Francavilla, dove villeggiavano i “barbari abruzzesi” Gabriele D’Annunzio ed Edoardo Scarfoglio, che sarebbe diventato l’uomo della sua vita. Serao si era fatta prestare i soldi per raggiungerli in vacanza. Polemista aggressivo, ragazzo insolente, di famiglia agiata e con buoni studi, Scarfoglio amava il lusso e le donne ed era un acceso sostenitore dell’avventura coloniale italiana. Aveva stroncato “Fantasia”, il romanzo con cui Matilde allora ventisettenne aveva iniziato ad affermarsi, ma lei lo volle comunque e fortissimamente, sopportando tutte le umiliazioni che ne sarebbero derivate. Il matrimonio con la sposa “vestita di un elegantissimo abito grigio-sorcio” fu recensito da D’Annunzio. E tutto rimanda alla famosa lettera in cui Edoardo spiega a Olga Ossani la forza del suo legame con Matilde: “Questa donna tanto convenzionale e pettegola e falsa fra la gente, e tanto semplice, tanto affettuosa, tanto schietta nell’intimità, tanto vanitosa con gli altri e tanto umile meco, tanto brutta nella vita comune e tanto bella nei momenti dell’amore (…), mi piace troppo troppo troppo”. Finché durò fu la premessa di un patto d’acciaio. Ne nacquero il Corriere di Roma, il Corriere di Napoli, il Mattino e quattro figli maschi. Per soddisfare le loro ambizioni Serao e Scarfoglio avevano bisogno l’uno dell’altra. Il direttore era lui, lei la factotum: teneva il timone del giornale durante le continue assenze del marito, ideava geniali strategie di marketing, supplementi culturali, gadget e matinée per gli abbonati, firmava la sua rubrica di cronache mondane con il maschile Gibus. Stabilizzarono il Mattino a 25 mila copie in una città dove solo 120 mila persone sapevano leggere (la biografia di Serao giornalista l’ha ricostruita Donatella Trotta in “La via della penna e dell’ago”, Liguori 2008).

 

Quando la chanteuse Gabrielle Bessard andò a uccidersi sulla porta di Matilde Serao come in romanzo d’appendice, lei accolse in casa la figlia nata dalla relazione di suo marito con quella infelice amante e volle dare alla bambina il nome di sua madre, Paolina. Ma certo arrivò il tempo di non poterne più. A complicare le cose fu l’inchiesta Saredo, in cui Serao fu coinvolta per fatti corruttivi: piccoli prestiti in cambio di raccomandazioni. Scarfoglio la difese ma poi le dette il benservito. Nel 1904 donna Matilde, scagionata, ebbe la forza di fondare un quotidiano tutto suo: si chiamò il Giorno – da non confondere con l’omonima testata milanese – e lo portò al successo in concorrenza con quello del marito. A differenza del Mattino, il suo giornale non simpatizzò col fascismo nascente. Serao firmò il manifesto degli intellettuali antifascisti lanciato da Benedetto Croce. E pare che a questo si debba un intervento del governo italiano che nel 1926 le costò il Nobel, assegnato a Grazia Deledda. E poiché i suoi rischi la Signora li correva in coppia, l’impresa del Giorno la sostenne con un giovane cronista di giudiziaria, l’avvocato Giuseppe Natale, al quale offrì la direzione e che divenne il padre della sua ultima figlia, Eleonora in onore della Duse. Come molte donne alfa Matilde Serao fu ostentatamente antifemminista. Contro il femminismo del tempo che si batteva per il voto, da lei rifiutato come un orpello. Mantenne per tutta la vita un contraddittorio doppio registro: scriveva contro il divorzio ma si separava dal marito, conosceva la miserabilità della condizione femminile e la complessità dell’anima delle donne che raccontava nei romanzi, ma le voleva un passo indietro per non sfasciare la famiglia. Come aveva fatto lei, che assunse formalmente la direzione del Giorno solo alla morte del suo secondo marito.

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