Una delle mappe del mondo disegnata da Gerard van Schagen, incisore e cartografo, nel 1689 (Wikipedia) 

La fine della geopolitica

Massimo Morello

Dall’ammiraglio Zheng He alla filosofia di Kant, mappe e confini hanno sempre determinato la potenza di un paese. Ancora oggi, non è la tecnologia a disegnare il mondo, ma  l’uomo e la sua ambizione

"Il cartografo serve a questo. A disegnare quello che c’è sotto, quello che i satelliti non riescono a vedere", disse il vecchio cartografo che si era ritirato in un’isola al largo della costa cambogiana dopo anni trascorsi a mappare le vie himalayane.


Per lui questo era il senso più profondo della humint, la human intelligence che da secoli tesse la trama del Grande Gioco, della geopolitica. La sua era una versione topografica dell’illusione di Maya, qualcosa che sta tra realtà e sogno, percezione e sensazione. 
   
Viene in mente l’aforisma di Alfred Korzybski, padre della semantica generale: “La mappa non è il territorio”. In realtà più famoso come battuta di Robert De Niro nel film “Ronin”. Secondo Gregory Bateson, maestro dell’ecologia della mente, “la distinzione tra la mappa e il territorio è tracciata in realtà solo dall’emisfero dominante del cervello. L’emisfero simbolico o affettivo, di solito quello destro, è probabilmente incapace di distinguerle. Certo esso non si occupa di questo genere di distinzioni”. L’aveva intuito per pura illuminazione un vecchio aborigeno Warlpiri incrociato nel Grande Centro Rosso australiano. “La terra è una mappa. Non c’è geografia senza significato e senza storia”, aveva detto, indicando con un ghirigoro sulla sabbia il percorso che bisognava seguire per evitare i luoghi “sacri e segreti”.

   

Stanno emergendo tutte le  contraddizioni, le dicotomie i paradossi tra mappa e territorio, tra storia e geografia

 

Nel Dna di quell’aborigeno era inserito il gene della geopolitica. Sapeva per istinto ciò che Immanuel Kant aveva elaborato nella Ragione: “La geografia è alla base della storia”. Il filosofo, che insegnò questa scienza per oltre quarant’anni all’università di Königsberg, credeva che la geografia e l’antropologia componessero la conoscenza del mondo e che questa fosse indispensabile per lo sviluppo di una popolazione cosmopolita e informata. “Un gran numero di persone è del tutto indifferente alle informazioni diffuse dai giornali. Il che dipende dal fatto che sono incapaci di localizzare queste informazioni e non hanno alcuna nozione della Terra né del mare né della totalità della superficie terrestre”.

 
In un mondo dominato dall’informazione online, popolato da individui incapaci di geolocalizzare se stessi, il pensiero di Kant appare ancor più attuale: si materializzano le contraddizioni, le dicotomie i paradossi tra mappa e territorio, tra storia e geografia. Oggi, tutto ciò è reso più complesso da un fenomeno di sazietà semantica, un fenomeno psicologico in cui la ripetizione fa sì che una parola o una frase perda di significato. Come accade per il termine “geopolitica”. 


Coniato dal politologo e geografo svedese Rudolf Kjellén (1864-1922) il termine indica quel complesso di problemi politici che traggono origine da fatti d’ordine territoriale. Secondo il geostratega George Friedman, “la geopolitica ci consente di collocare un evento o un’azione in una struttura più ampia in modo da determinare il suo potenziale significato e identificare le connessioni tra tendenze apparentemente diverse”. 


Ma colui cui si deve l’affermazione della geopolitica come tendenza dell’informazione è Robert Kaplan, autore di numerosi bestseller sul tema (e non solo). “Siamo testimoni della rivincita della geografia: nel confronto est-ovest per il controllo dello stato cuscinetto dell’Ucraina, nello scenario del dopo primavera araba che vede il disintegrarsi del medio oriente in feudi etnici e settari, in una corsa agli armamenti senza precedenti nell’Asia orientale” è una di quelle affermazioni che lo hanno canonizzato come una sorta di Nostradamus. Kaplan, come Friedman, è uno degli “apprendisti stregoni” di Stratfor, società privata d’intelligence definita l’ombra della Cia. L’inglese Tim Marshall, autore di “Prisoners of Geography”, uno dei saggi di riferimento per i cultori della geopolitica, invece, fa parte di un altro network, come dimostra l’introduzione al suo libro firmata da un ex direttore del MI6, l’agenzia di intelligence estera del Regno Unito.

 
Il mondo è piatto sosteneva Thomas Friedman nel saggio del 2005 con quel titolo che apparve come una metafora della globalizzazione e segnava la fine della geopolitica. Era la versione geografica della fine della storia annunciata da Francis Fukuyama. Da allora, con accelerazione esponenziale, il mondo si è reterritorializzato. “Il mondo non è piatto, la geografia non è morta, il territorio e i legami di sangue che vi scorrono sono al centro di ciò che ci rende umani”, scrive Kaplan nel saggio “The Revenge of Geography”. Si è compiuto quanto diceva il drammaturgo Joseph Brodsky: “La geografia combinata col tempo equivale al destino”. Un concetto elaborato nel XIV secolo dal berbero Ibn Khaldun e oggi ripreso dall’archeologo britannico Ian Morris nel suo “Geography is Destiny”.

 

“La geografia combinata col tempo equivale al destino”. Ma l’intervento umano può cambiare le cose

 
“Ma siamo davvero prigionieri della geografia?”. Su questo interrogativo il Guardian ha recentemente sviluppato un lunghissimo articolo, che trae spunto dall’idea che la geopolitica sia ormai divenuta una gnoseologia, una visione del mondo. L’autore, lo storico Daniel Immerwahr, rifiuta questa “tirannia” deterministica secondo cui se la geografia è il destino, allora disegna un mondo in cui il forte è destinato a restare forte e il debole, debole. Mentre è proprio l’intervento umano che è destinato a modificare l’ambiente fisico. La legge, la cultura e l’economia creano il paesaggio tanto quanto le placche tettoniche. 


E’ un’idea di geografia che dà l’imprinting alla sua rappresentazione. Secondo il professor Cordell D. K. Yee, studioso di Storia della cartografia, “le mappe sono strumenti di sfruttamento. Ciò che stimola lo sviluppo della cartografia sono i vantaggi politici ed economici che i miglioramenti possono portare”. Per disegnare il mondo così è fondamentale quella che gli analisti chiamano humint. “I rilievi aerei avevano ridotto la mappe a due dimensioni”, scrive Kaplan. “Le mappe tridimensionali sono state ridisegnate nelle montagne dell’Afghanistan e nei vicoli dell’Iraq”. Più poeticamente il professor Yee, si riferisce all’accumulo di osservazioni e racconti di una schiera di viaggiatori ed esploratori. Lo definisce la “Cartografia dell’introspezione”. 


Non ha senso calcolare le distanze su carte che indicano villaggi ormai scomparsi o trasferiti. Devi ritrovarli tra sentieri coperti dalla foresta che si possono percorrere solo a colpi di machete, come quello lungo il fiume Suribao, nell’interno dell’isola filippina di Samar. “Guarda: Pinanag-an si è spostato da sud-ovest a nord-est” disse l’uomo che faceva da guida, osservando la mia carta macchiata con compatimento. 


Non puoi capire le dinamiche tra gli stati se non hai attraversato confini come quelli che separano Cina e Laos o Thailandia e Cambogia, dove casinò e bordelli definiscono i differenti tassi di sviluppo, dove le commodity, a valore decrescente, sono droghe, legname, esseri umani.


Non puoi comprendere il senso degli umani per la globalizzazione se non ti aggiri sui fronti del porto di Bangkok o Jakarta, tra equipaggi abbandonati e navi ombra, se non incontri marinai come i due birmani a bordo del battello che fa servizio tra il delta dell’Ayeyarwady e Yangon. In una lunga, caldissima notte, raccontano i loro viaggi e vantano il prossimo imbarco su un mercantile cinese con destinazione Genova e Marsiglia chiedendo informazioni sui bar di quei porti. 


Molto spesso, poi, questa cartografia dell’introspezione diventa vera e propria geopolitica. “Se fai un giro in moto lungo le coste di Taiwan ti rendi conto perché è così importante per la Cina. A est è separata dal continente da un canale di acque basse, a ovest si affaccia sugli alti fondali dell’Oceano Pacifico. E’ come un’immensa portaerei. O una base per sommergibili nucleari”, aveva spiegato un giornalista di base a Taipei. In un futuro molto prossimo quei sottomarini potrebbero essere armati con missili balistici JL-3. Con un raggio d’azione di oltre 10.000 chilometri, possono raggiungere obiettivi nel territorio continentale degli Stati Uniti. Anche lanciati da sottomarini che navigano ben più a sud di Taiwan, nel mar cinese meridionale. 


Da quelle acque, come seguendo le rotte tracciate da Zheng He, ammiraglio della dinastia Ming che condusse un’enorme flotta sino alle coste africane, i sottomarini della Plan, la marina dell’Esercito popolare di liberazione cinese, procedono sino all’Oceano Indiano attraverso gli stretti di Malacca o della Sonda. Secondo il “China’s Military Power Report 2022” realizzato dal Pentagono, la Plan, che numericamente è già la più grande marina al mondo, sta potenziando la sua presenza nell’Oceano Indiano sia con sottomarini e droni subacquei sia con navi di ricerca idrografica e da ricognizione (comunemente utilizzate a supporto delle forze subacquee) allo scopo di “proiettare e sostenere il potere militare a maggior distanza”, ossia il dispiegamento di sottomarini nucleari d’attacco (Ssn) e sottomarini nucleari armati con missili balistici (Ssbn).

 

“La Cina si muove in un raggio d’azione disegnato dalla geografia”. La militarizzazione degli oceani e i trasporti globali

  
“La Cina si muove in un raggio d’azione disegnato dalla geografia” disse al Foglio il professor Zha Daojiong, della scuola di studi internazionali di Pechino, in una conversazione informale. Si discuteva dell’espansionismo cinese nei mari della Cina. All’obiezione che rivendicare isole a un migliaio di chilometri dalle coste cinesi poteva apparire una forzatura geografica, rispose con un ineffabile sorriso: “Voi italiani avete perduto memoria del concetto di Mare Nostrum”. Per lui, la mappa del Mar della Cina è stata disegnata da Zheng He. Quello del professor Zha, in realtà, è un modo per delineare in puro stile mandarino uno scenario storico e culturale che giustifichi l’espansionismo economico nel teatro dell’Indo–Pacifico. 


Storia, cultura ed economia trovano in quello spazio oceanico che va dallo Yemen a Yokohama una perfetta sintesi geopolitica. Così lo racconta un altro dei nuovi narratori della geopolitica, Eric Tagliacozzo professore di Storia del sud-est asiatico. Il suo “In Asian Waters: Oceanic Worlds from Yemen to Yokohama” aiuta a comprendere come il mondo moderno sia stato ridisegnato dalle rotte marittime che hanno collegato i diversi “mondi” che erano separati dagli oceani. 


L’importanza dei traffici marittimi è apparsa ancor più evidente nel periodo post pandemico e durante la guerra in Ucraina, che li hanno inevitabilmente limitati. Eppure, nonostante tutte le restrizioni, secondo l’ultimo rapporto della United Nations Conference on Trade and Development (Unctad) sul trasporto marittimo, l’80 per cento del commercio mondiale si è svolto via mare. E nel 2021 l’Asia è rimasta il principale centro mondiale di movimentazione delle merci marittime, con il 42 per cento delle esportazioni e il 64 per cento delle importazioni.


Ecco che questo scenario diviene un paradigma della “globalizzazione 2.0 con caratteristiche cinesi”. Una globalizzazione che, per gli accademici della Repubblica popolare, si svilupperà lungo le vie della seta terresti e marittime della Belt and Road  (Bri). E questa, a sua volta, è la versione prossima ventura della “Via della Seta” aperta nel secondo secolo prima dell’Era comune dall’imperatore Wudi della dinastia Han. In questo modo, secondo Zhang Yunling, dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali, non solo si svilupparono i commerci tra Asia e Africa ma si posero le basi del concetto di internazionalizzazione. 


Nel tempo che il ministro degli esteri cinesi Wang Yi ha definito “il momento dell’Asia”, momento che secondo Wang è destinato a durare per almeno un secolo, la globalizzazione prende a modello una pianta simbolo dell’Asia: il bambù. Usata per ogni tipo d’impiego, dalle decorazioni alle impalcature, è flessibile e dura, tenace e duratura. E’ perfetto strumento per il soft power teorizzato da Pechino, che si manifesta con quella che è stata definita la “bamboo diplomacy”. Una diplomazia così duttile sembra essersi rivelata vincente soprattutto nei confronti dei paesi dell’Asean: nel 2012 il commercio con le dieci nazioni del sud-est asiatico ha raggiunto gli 878 miliardi di dollari, quasi cento volte tanto del 1991. E la cifra sembra destinata ad aumentare grazie alla Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), il mega accordo commerciale sotto l’ombrello cinese cui hanno aderito tutti i paesi dell’Indo Pacifico dopo che il presidente Trump non ha ratificato la Trans-Pacific Partnership (Tpp) a guida statunitense.

  

L’esempio del Vietnam: è il principale partner economico di Pechino ma è anche il suo avversario territoriale

  
La diplomazia  bambù è stata presa a modello anche dal governo vietnamita diventando così una vera e propria metafora della geopolitica. Il Vietnam, infatti, come ha scritto il professor Carlyle Thayer, specialista di politica del sud-est asiatico, è una vittima predestinata della “Tirannide della Geografia”. Per la sua posizione, sovrastata dal più grande (29 volte di più) e potente vicino, è stata dominata dalla Cina per circa mille anni (dal 11 prima dell’Era comune al 938 dell’Era comune). Un dominio che ne ha profondamente influenzato la cultura, il modo di vivere e di pensare, ma che ha anche determinato una profonda avversione dei vietnamiti nei confronti dei cinesi. Si è così stabilito un rapporto di odio-amore alimentato dagli imperativi dell’economia e dalla tirannia della geografia. La Cina, infatti, è il principale partner economico del Vietnam ma è anche il suo avversario territoriale. Gli scontri al confine nord del Vietnam nel 1979 sono sfociati con l’invasione cinese in seguito all’invasione vietnamita della Cambogia dei khmer rossi sostenuti da Pechino e Washington (altra vicenda paradigmatica degli intrecci della geopolitica nel periodo della Guerra Fredda). Negli ultimi anni, infine, lo scontro si è spostato nel mar della Cina meridionale (che per i vietnamiti è il Bien Dong, il mare dell’Est), in cui Cina e Vietnam si contendono isole, isolotti e miglia di acque territoriali nell’arcipelago delle Spratly (Nansha Qundao per i cinesi, Quan Dao Truong Sa per i vietnamiti) costruendo isole artificiali o allargando quelle naturali per trasformarle in basi militari e per lo sfruttamento delle risorse ittiche e minerarie. Solo che per il momento il Vietnam ha reclamato al mare 2,2 chilometri quadrati di terra, la Cina oltre 13). Nell’impossibilità di competere militarmente e commercialmente, quindi, il segretario generale del Partito comunista vietnamita, Nguyen Phu Trong, ha deciso di adottare la diplomazia di bambù, oscillando, secondo i casi, tra Cina e Stati Uniti e cercando nel frattempo nuove alleanze tra i paesi dell’Asean e dell’area Pacifica, in particolare Australia e Nuova Zelanda. E’ l’ultimo orizzonte della geopolitica.