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IMMAGINAZIONI SUDAMERICANE

Vargas Llosa e Borges, un confronto lungo cinquant’anni

Alberto Mingardi

 

Due grandi della letteratura individualisti e cosmopoliti perché liberali. Affinità e divergenze, un mezzo secolo in un libro

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Non è vero che si ammirano “prima di tutti gli scrittori affini”, spiega Mario Vargas Llosa. “Pochi scrittori sono più lontani di Borges da quello che i miei demoni personali mi hanno spinto a essere come scrittore: un romanziere intossicato di realismo e affascinato dalla storia”. Il grande argentino rappresenta agli occhi di Vargas Llosa, “in maniera chimicamente pura, tutto quello che Sartre mi aveva insegnato a odiare: l’artista evaso dal suo mondo e dall’attualità in un universo intellettuale di erudizione e di fantasia; lo scrittore sprezzante della politica, della storia e anche della realtà, che esibiva senza pudore il suo scetticismo; l’intellettuale che non solo si permetteva di ironizzare sui dogmi e sulle utopie della sinistra, ma che portava la sua iconoclastia fino all’estremo di affiliarsi al Partito conservatore con l’insolente argomentazione che i signori scelgono di preferenza le cause perse”.

   
Eppure, col passar del tempo, quelli che considerava i suoi “modelli” di gioventù a Vargas Llosa “cadono dalle mani” quando prova a rileggerli (e tra questi c’è proprio Sartre). Invece, a Jorge Luis Borges, Vargas Llosa torna costantemente e con immutato piacere per i cinquant’anni che danno il titolo a questo libro (Mario Vargas Llosa, Mezzo secolo con Borges, a cura di Martha Canfield, Firenze, Le Lettere, 2022, pp. 136) e che vanno da un’intervista del 1964 a un articolo del 2014. Il colloquio che apre il volume si deve a un Vargas Llosa trentenne, che ha appena pubblicato La città e i cani. Il suo interlocutore è un Borges stupito della trionfale accoglienza che gli tributa la Francia: è arrivato a Parigi per partecipare a un convegno su Shakespeare organizzato dall’Unesco e “l’intervento di questo anziano precoce e semi invalido, che Roger Caillois presentò con retorica effervescenza, sorprese tutti”. A partire da quella visita, la Francia, paese che meglio di tutti sa “riconoscere il genio artistico straniero e appropriarsene intronizzandolo e diffondendolo”, “lo tirò fuori dalla catacomba dove languiva”.

  
Al giovane intervistatore non appare il Borges che recita se stesso, la personalità pubblica che diventerà per reagire alla fama e “difendersi dai suoi danni”, ma “un ingenuo e timido intellettuale bonaerense attaccato alla gonna di sua madre, sopraffatto dalla raffica di premi, elogi, studi, omaggi che gli piombavano addosso”.

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“Pensi che io sono un uomo di sessantacinque anni, e ho pubblicato molti libri, ma all’inizio questi libri furono scritti per me e un piccolo gruppo di amici. Ricordo la mia sorpresa e la mia gioia quando seppi, molti anni fa, che del mio libro Storia dell’eternità erano state vendute perfino trentasette copie”. Il sessantacinquesimo compleanno coglierà Vargas Llosa a due lustri dalla candidatura alla presidenza del suo Perù, candidatura finita male ma che segna i tempi. Vaclav Havel in Cechia, Vargas Llosa in Perù. Per un istante, il neoliberalismo ebbe il volto di due grandi scrittori.

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E’ forse la politica il campo nel quale tutte le differenze fra Borges e Vargas Llosa tradiscono altrettante segrete affinità. Borges “disprezzava” la politica, posizione che Vargas Llosa comprende come pienamente politica. Anche al Vargas Llosa trentenne Borges disse, come ha fatto in decine di interviste, di considerarsi “un anarchico spenceriano”, espressione che secondo lo scrittore peruviano non vuol dire granché e sicuramente può rivelarsi comoda, l’anarchia come posa civettuola. Difficile tracciare la mappa delle idee di Borges ma quelle due parole, anarchico e spenceriano, suggeriscono qualcosa. Le sue preferenze sono rivolte al passato, all’Inghilterra vittoriana, e specialmente agli individualisti dell’epoca (Spencer, appunto), che confidavano che quella fra l’individuo e lo stato non fosse una lotta dalla storia già scritta. Attenzione che per Borges il tempo non ha direzione.

  
Questo individualismo orgogliosamente prepolitico non sempre filtra nelle novelle di Borges, quando capita è trasfigurato dall’ironia e dal gusto del paradosso. E l’argentino nemmeno aveva il gusto d’intervenire sulla stampa o di prendere posizione sui temi del giorno. Borges in Italia è stato a lungo considerato uno scrittore “di destra”, sostanzialmente perché non era “di sinistra”. L’accusa si fondava sull’entusiasmo espresso per la sollevazione militare di Aramburu, che negli anni Cinquanta costrinse all’esilio Peron, e poi per la dittatura del generale Videla. “Una delle più spietate e sanguinarie che abbia sofferto l’America Latina, una dittatura che ha torturato, assassinato, censurato e represso con la più grande ferocia e mancanza di scrupolo” da cui Borges si dissociò tardivamente. In questo suo sbandare, Borges fu per una volta umanissimo. “Visse leggendo e lesse vivendo”, scrive Vargas Llosa nella poesia “Borges o la casa de los juguetes”, “non è la stessa cosa / perché tutto nella vita / reale / lo impauriva, / soprattutto / il sesso e / il peronismo”.
Ecco, il peronismo. “Il peronismo non ha idee e rappresenta solo un regime di profittatori”. Nel populismo di Juan Domingo Peron, Borges ritrovava il cinismo di chi vellica gli istinti peggiori della popolazione, per pura smania di potere. Di quel regime aveva conosciuto direttamente la brutalità, nel 1948, quando la madre e la sorella avevano partecipato a una manifestazione in cui si distribuivano, secondo le cronache dell’epoca, volantini con la sigla RUL, per “Resistenza, Unità e Libertà”. Resistenza a Peron, libertà dalla dittatura.
Le donne vennero arrestate. La sorella di Borges, Lenor, finì in prigione, la madre, all’epoca settantenne, ai domiciliari, assieme al figlio. 

 
Conoscendo bene quanto fosse importante, per l’economia della famiglia Borges, il suo modesto impiego di “terzo ausiliario nella biblioteca municipale del Barrio Sur”, nel 1946, all’insediamento del nuovo governo, il cieco Borges fu “promosso a ispettore dei mercati del pollame e dei conigli”. “Mi sono recato in Comune per chiedere il motivo della mia nomina. ‘Lei era un sostenitore degli Alleati durante la guerra. Dunque, che pretende?’. Questa affermazione era inconfutabile e il giorno dopo ho dato le dimissioni”. 
Nominato direttore della Biblioteca nazionale nel 1955, quando nel 1973 i peronismi tornarono al potere la vendetta arrivò puntuale: venne spedito in pensione.

 
Si tende a dimenticare, nota Vargas Llosa, come il peronismo fosse apertamente schierato con le potenze dell’asse mentre Borges “non smise di denunciare nei suoi testi la pedagogia dell’odio e il razzismo dei nazisti”. 

 
Vargas Llosa – che, ricorda Martha Canfield nella prefazione, sin dai suoi primi romanzi “ha svelato mondi e situazioni socio-politiche capaci di diventare paradigmi della condizione umana dei nostri tempi” – ha per la politica un interessante costante che diventa partecipazione diretta con le presidenziali del ’90 e il suo Movimento Libertad. La storia è nota. Quando il presidente peruviano Alan Garcia annuncia la nazionalizzazione di banche e assicurazioni, Vargas Llosa prende la posizione contraria, sottolineando l’importanza dei diritti di proprietà per lo sviluppo, specie in un paese che ha tanto bisogno di creare ricchezza. Comincia così un caso raro di partito liberale germinato spontaneamente, con la scommessa di parlare ai più umili, che sono quelli che più hanno bisogno di certezza del diritto e libertà economica per provare a migliorare la propria posizione. Nella prima tornata, Vargas Llosa stacca gli altri contendenti ma al secondo turno perde contro Alberto Fujimori, all’epoca un autentico sconosciuto, il quale dopo soli dieci mesi inscena un “auto-golpe”, sospendendo la democrazia parlamentare. Vargas Llosa lo critica aspramente, spendendosi con generosità prima e dopo le elezioni. Assieme a quella di romanziere, porta avanti una carriera parallela fatta di giornalismo, interventi politici e poi anche della guida della Fundacion Internacional Para la Libertad, che riunisce le voci liberali oggi sempre più accerchiate in America Latina.

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A Borges, Vargas Llosa rimprovera “una certa inumanità”, che riverbera nelle sue sbandate politiche, dettata in realtà soprattutto dal disincanto: nel suo intimo era convinto che la democrazia fosse “un dono di quei paesi antichi e lontani, che lui amava tanto, come l’Inghilterra e la Svizzera” ma impossibile in Argentina o in Cile o in Perù. Sta qui la differenza fra i due. Agli intellettuali occidentali, Vargas Llosa ha più volte rimproverato di fare dell’America Latina un continente da sogno: la lavagna sulla quale disegnare le proprie utopie, desiderosi di uno spazio da preservare dalle influenze perverse del progresso, della civiltà, dell’occidente. Borges, per Vargas Llosa, si carica sulle spalle la cultura occidentale, ne è un interprete più convinto di tanti francesi o italiani o tedeschi contemporanei, proprio perché alla fine è la cultura occidentale il suo sogno. In questo, c’è una simmetria fra Borges e Galileo Gall, l’irlandese socialista de La guerra della fine del mondo, il capolavoro del Vargas Llosa politico. Galileo Gall e con lui generazioni di intellettuali europei proiettano sull’America Latina la nostalgia di un mondo che non è mai esistito, pantografano il mito del buon selvaggio (ce lo ha spiegato Carlos Rangel nel suo Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario) su scala continentale. Borges invece coltivava la sua nostalgia per qualcosa che era esistita, l’Europa, o perlomeno per l’interpretazione che ne dava lui. L’uno si ritira dalla dimensione dello scontro politico, gli altri ci si immergono fino al collo, ma né l’uno né gli altri provano la difficile arte del migliorare il mondo che c’è, o perlomeno di impegnarsi affinché non peggiori. Arte che richiede un compromesso con tutte le sue contraddizioni e tutte le sue inevitabili sbavature.

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Borges e Vargas Llosa sono due individualisti e due liberali, entrambi hanno conosciuto la dittatura, entrambi hanno subito, in momenti diversi, il pan-politicismo del Novecento. Entrambi sono convinti che la letteratura serva a proteggersi dalla politica. Prendono però strade diverse, e strade diverse sia come scrittori (di racconti, di poesie, di saggi sempre rigorosamente brevi Borges, coi piedi saldamente piantati nella forma romanzo Vargas Llosa) che come uomini, forse anche perché diverse sono le loro inclinazioni profonde rispetto ai tempi. Per Vargas Llosa si possono cambiare, per Borges sono qualcosa da cui tentare di proteggersi.

 
Entrambi hanno rifiutato il nazionalismo. “Nel nazismo”, scrive Vargas Llosa, Borges vide “l’escrescenza di un male maggiore e più esteso: il nazionalismo”. Durante la guerra delle Falklands, Borges disse che era “la contesa di due calvi per un pettine”. Intervistato da Vargas Llosa nel 1981, quando Argentina e Cile bisticciavano per tre isole nel canale di Beagle, Borges si avvicina a “Bertrand Russell e Gandhi e Alberdi e Romain Rollan” e alle loro ragioni per opporsi alla guerra, spiegando che “se ammettiamo una guerra giusta, una soltanto, questo apre già la porta a qualsiasi guerra, e non mancheranno le ragioni per giustificarla, soprattutto se le inventano e imprigionano come traditori quelli che la pensano diversamente”. Alberdi è Juan Bautista Alberdi, il padre del liberalismo argentino, ispiratore della Costituzione del 1853 e autore de El crimen de la guerra.

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Borges, come Vargas Llosa, era cosmopolita perché liberale. Si pensi a una novella come Il Parlamento, dove un esperimento di parlamento del mondo fallisce ma la cosa non fa molta differenza, perché il vero “Parlamento del mondo” è dato dagli scambi, dai contatti, dalle decisioni, giorno dopo giorno, di tutti gli esseri umani che questo mondo lo abitano.
Il gioco delle differenze di superficie e affinità profonde fra Borges e Vargas Llosa non si limita alla politica. Il Vargas Llosa trentenne non può che chiedere a Borges di Flaubert, se preferisce il realista di Madame Bovary o l’architetto di grandi costruzioni storiche, come Salammbo. Ovviamente Borges preferisce quello di Bouvard e Pécuchet, “uno dei libri che ho più letto e riletto nella mia vita”. Se nei romanzi di Vargas Llosa l’erotismo non manca, Borges scopre l’amore solo negli ultimi anni, con Maria Kodama, che ha consentito allo scrittore ottuagenario di vivere “anni splendidi, godendo non soltanto dei libri, la poesia e le idee, ma anche della vicinanza di una donna giovane, bella e colta”. Lo spagnolo di Borges, scrive Vargas Llosa, è la sua grande eredità, perché ha fatto fare alla lingua di Cervantes cose per cui sembrava non programmata, l’ha resa essenziale, sul calco dell’inglese, e ha scritto pagine in cui “c’erano tante parole / quante idee”. Le idee Vargas Llosa le semina nei suoi personaggi, legge quelle alla luce di questi, gratta le ideologie e scova i “residui” che ci stanno dietro. “Credo che esistano solo gli individui: tutto il resto, le nazionalità e le classi sociali, non sono mercanzia intellettuale”. L’ha detto Borges, potrebbe averlo detto Vargas Llosa, l’uno e l’altro l’hanno preso come un principio cui tener fede, incastrando le loro parole così diverse e così preziose. 

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