Una scena di "Chinatown" di Roman Polanski del 1974 (foto Olycom)

il foglio del weekend

Il cinema è risorto in un libro

Andrea Minuz

Sale in crisi, non le case editrici. E “La formula perfetta” di David Thomson è l’occasione per rivivere l’epica di Hollywood

Crisi, morte, scomparsa, crollo. Se poi di mezzo ci sono le sale: “Emorragia inarrestabile”. Son sempre queste le parole d’ordine che prima o poi saltano fuori quando si parla di cinema, soprattutto da noi. E il cinema, si capisce, viene a noia ancora prima di andarci. Se non altro lo streaming non si porta appresso questa lagna, e chissà perché il pubblico, spaventosamente, pare preferire il divano di casa alla “magia del grande schermo”. Basta però un “Top Gun” ogni tanto, fatto come si faceva una volta, sorriso di Tom Cruise incluso, per riprendere il discorso interrotto. La voglia di cinema c’è, sono i film belli che mancano. Se la sala muore, il cinema convive infatti benissimo con la sua scomparsa più o meno da sempre (i primi a dichiararlo morto, giusto poco dopo averlo inventato, furono com’è noto i Lumière). Stupisce allora fino a un certo punto questa riscossa inaspettata del libro di cinema, oggetto-feticcio del cinephile novecentesco, vecchio arnese della saggistica culturale, assai démodé nell’epoca di TikTok e in un paese dove di libri se ne leggono pochi e di saggi ancora meno. I cinefili degli anni Settanta ricorderanno gli austeri volumetti della collana “Castoro Cinema”, la copertina nera con la silhouette stilizzata dei registi sullo sfondo. Piccole monografie da battaglia su mostri sacri della storia del cinema curate da celebri critici (c’erano Farassino su Godard, Guido Fink su Lubitsch, Enrico Ghezzi su Stanley Kubrick). Iniziarono a scomparire verso la fine degli anni Novanta. Poi tutto fu inghiottito da internet. Che senso ha, del resto, un libro di cinema nell’epoca in cui le vite di registi e attori si sbirciano su Wikipedia, e i making-of e i backstage e le storie rocambolesche di come nascono certi film ce le racconta meglio di chiunque altro Netflix (vedi la serie “The Movies that Made Us”, arrivata alla terza stagione). Comprando qualche anno fa il docufilm di Kent Jones sull’intervista-fiume di Truffaut a Hitchcock, Netflix ha trasformato in streaming anche uno dei tre o quattro libri di cinema che vale la pena leggere nella vita. 

 La voglia di cinema c’è, sono i film belli che mancano. Se la sala muore, il cinema convive infatti benissimo con la sua scomparsa più o meno da sempre

Eppure, i saggi sul cinema sembrano tornati di moda. Feltrinelli, Einaudi, Adelphi, La nave di Teseo (che ha preso i diritti di “Cinema speculation”, il libro di Tarantino, e che ora festeggia i trent’anni del “Mereghetti”), hanno tirato fuori almeno un titolo soltanto nell’ultimo mese. I libri di cinema sembrano una valida alternativa ai film brutti in sala, all’ennesima serie che non finiremo mai e forse anche a questi mondiali in Qatar da vedere coi termosifoni accesi, senza diritti umani e senza nazionale. Non entreranno nella classifica dei saggi più venduti, come il catechismo queer di Murgia o “La luce delle stelle morte” di Recalcati, riflessione su “lutto e nostalgia” (con un titolo che sarebbe stato perfetto per un libro di cinema). Non arriveranno alle vette delle ricette di Benedetta Rossi, del Mussolini-gangster di Cazzullo, o di quello melonizzato di Vespa (l’unico che c’aveva visto giusto, in grande anticipo su tutti, infilando da tempo Mussolini qui e là nei suoi libri). Però raccontano pur sempre qualcosa. Facciamo fatica a immaginare un grande avvenire per il cinema, ma la sua epica evidentemente affascina ancora. La scorsa settimana, su “Dagospia”, Marco Giusti nella sua rubrica non consigliava un film o una serie, ma invitata a leggersi il libro di Tarantino (rigorosamente in inglese), oppure a immergersi tra le pagine di “Luchino”, formidabile saggio di Testori su Visconti. Un manoscritto riemerso dai primi anni Settanta, curato da Giovanni Agosti e appena pubblicato da Feltrinelli. Una biografia inedita, un ritratto intimo, un’analisi della poetica di Visconti con una struttura molto teatrale, come sempre in Testori. Ma anche un regolamento di conti tra due milanesi. Una critica di quel “fanatismo lombardo, milanese e navigliesco della fatica della costruzione a tutti i costi”, di cui Visconti era campione indiscusso, al cinema, a teatro, nella vita. Di gran lunga una delle cose migliori della già vasta letteratura critica viscontiana. 

 

In fatto di libri di cinema, seguiamo poche ma inflessibili regole: non si legge nulla che abbia “settima arte” o “decima musa” nel titolo, niente apologie dello slow cinema, niente contributi filosofici che s’impaludano nei meandri del “mistero delle immagini”.

 

Ci siamo però ritrovati tra le mani “Cinema, l’immortale”, di Daniele Vicari, uscito per Einaudi. Qui la riflessione si fa pensosa, vagamente apocalittica. Sui film, sul modo di fare, intendere e vedere il cinema nell’epoca delle piattaforme e del capitalismo globale (spoiler: omologazione del gusto). Quindi tutto un elogio dell’auteur-artista che è meglio dello showrunner-imprenditore, “prestato a un meccanismo industriale”, e un panegirico dei cineasti russi degli anni Venti, Eisenstein, naturalmente, e Dziga Vertov, con la sua “cinealfabetizzazione delle masse” e la collettivizzazione delle macchine da presa, preludio a una visione socialista dell’arte e a un cinema non più borghese, ma anche anticipazione di quello che potremmo fare, però non facciamo, con i nostri smartphone (anche loro tra i grandi lasciti della Rivoluzione d’ottobre e dell’economia sovietica). C’è il refrain sull’educazione all’immagine, sul cinema a scuola, e l’idea che “il gusto si può insegnare”, come dice Wim Wenders ripreso da Vicari. La convinzione insomma che, dai dai, a furia di film a scuola, le opere da festival scalzeranno i blockbuster della Marvel (come insegnano le classifiche dei libri più venduti, evidentemente dominate da un gusto formato a scuola). 

 

Ma l’oggetto imperdibile di questa nouvelle vague libresco-cinematografica è senza dubbio “La formula perfetta. Una storia di Hollywood”, di David Thomson, appena pubblicato da Adelphi. Qui bisogna aprire una parentesi sulla politica Adelphi in fatto di cinema. Pochi titoli ma sempre perfetti. Tutto inizia col gran colpo, alla fine degli anni Settanta, della traduzione italiana di “Hollywood Babylone”, di Kenneth Anger, satanista, occultista, adepto di Aleister Crowley e regista sperimentalissimo, già all’epoca artista di culto. Pubblicato in Francia, censurato per anni negli Stati Uniti, “Hollywood Babilonia” è una controstoria della “dream factory” vista attraverso la cronaca nera, quindi scandali, orge finite male, morti per droga, eccessi vari, sempre con un sottofondo esoterico, ideale per la linea editoriale dell’Adelphi che si affacciava negli anni Ottanta. Più di recente, ecco il “Bela Lugosi” di Edgardo Franzosini, le “Allucinazioni americane” di Calasso alle prese coi misteri di Hitchcock, la “Visita al Bates Motel” del fogliante Guido Vitiello e il pazzo zibaldone su Rodolfo Sonego, “Cervello di Alberto Sordi” e principe degli sceneggiatori italiani, curato da Tatti Sanguineti (uno dei più bei libri di sempre sul cinema italiano). Visto da lontano, con le sue seicento pagine, “La formula perfetta” di Thomson fa paura come “Vita e destino” di Grossman, “l’Adelphi” per definizione. Pubblicato nel 2004 dalla Knopf, “The Whole Equation: A History of Hollywood”, che il New York Times definì all’epoca “verboso fino allo stordimento del lettore”, è un’altra controstoria di Hollywood. Come quella di Anger, ma coi banchieri, i produttori, i dollari, l’economia, i contratti e i tanti fallimenti esistenziali e finanziari al posto degli scandali sessuali (ci sono anche quelli, ma sullo sfondo). E’ una lunga, iperbolica digressione intorno a “The Last Tycoon”, l’incompiuto romanzo su Hollywood di Fitzgerald, ma anche un’impetuosa saga immobiliare sulla costruzione di Los Angeles, che non a caso si apre con “Chinatown”, il film di Polanski ispirato alle “California Water Wars” e alle mastodontiche opere idriche volute da William Mulholland per trasformare un pezzo di deserto in oro. Immobiliare prima, cinematografico poi. Perché almeno un pezzo di questa introvabile “formula perfetta” che inseguivano i fabbricanti di pellicola, nuovi cercatori d’oro, si spiega già con l’esuberante luce della California, “un luogo che per almeno cinquant’anni sarebbe rimasto indenne da qualsiasi forma di dubbio interiore”, proprio come i film americani della Golden Age. Hollywood e il cinema insomma erano destinate fatalmente a incontrarsi. “Le regole di questo gioco”, scrive Thomson, “sono tutte già scritte qui, nel panorama e nel paese: l’assolata California”. Anche perché, come spiegava John Bailey, direttore della fotografia di “American Gigolo”, “la luce di Los Angeles è davvero la più forte che ci sia, basta leggere l’esposimetro”. 

 Il libro di Thomson è anche un’impetuosa saga immobiliare sulla costruzione di Los Angeles che non a caso si apre con “Chinatown”

Ma se il cinema “si innamorò dell’amore grazie alla luce della California”, la fuga all’ovest dei pionieri del cinema americano nasce come gesto piratesco. Tutte le grandi imprese nella storia dei media si sviluppano nell’illegalità, e la storia di Hollywood non fa eccezione. Bisognava andare via da New York, dove nei primi tempi si faceva il cinema. Via dalla Motion Picture Patent Company coi suoi lacci, norme, monopoli, licenze rigide che impedivano lo sviluppo e la crescita dell’industria su basi più libere e dinamiche (quando devo spiegare questo passaggio a lezione, nel corso di Storia del cinema, uso sempre l’esempio di Uber e i taxi in Italia, solo che da noi vincono i taxi). Il cinema, insomma, sarebbe rinato una seconda volta, in California, nel punto diametralmente opposto degli Stati Uniti, dove si poteva chiudere un occhio su qualche reato finanziario. E costruire dal nulla la più grande impresa americana del secolo. 

 

Quella di Thomson è una storia in cui i grandi registi non sono più importanti dei produttori. Al contrario, è su gente come Louis Mayer, Irving Thalberg, David Selznick, Adolph Zukor e gli altri ebrei arrivati in America dall’Europa dell’est, spesso senza un soldo e senza sapere una parola d’inglese, che si regge tutta l’epica di Hollywood. Gente che per nostra fortuna non aveva a che fare con l’arte, ma col commercio e la vendita al dettaglio. Che sapeva come conquistarsi una propria fetta di pubblico, in un periodo in cui la quantità di film, per rifornire continuamente le sale, era assai più importante della “qualità”. Louis Mayer, per esempio, “non amava il cinema, né era spinto da una particolare urgenza creativa, voleva solo i magazzini sempre pieni”. Le storie del cinema, si sa, sono piene di pagine dedicate ai rapporti della “settima arte” col teatro, la letteratura, la pittura, persino con la filosofia. Ma, come ricorda Thomson, la parentela più prossima col cinema la troviamo semmai nel gioco d’azzardo. L’abitudine al gioco, grande passione dei primi magnati di Hollywood, rivela qualcosa di più che un vezzo tipico di chi si ritrova ricchissimo all’improvviso. L’azzardo è “implicito nella creazione cinematografica, oltre a esserne spesso il contenuto. Fare un film non è un modo saggio ed equilibrato di usare il denaro. I mercati azionari sono pieni di titoli più sicuri. Ma se fai un film hai l’occasione, almeno teorica, di mettere a segno il colpo grosso”. Ecco perché qualcosa come “la formula perfetta” semplicemente non esiste (“nessuno sa niente”, è la celebre massima dello sceneggiatore William Goldman per spiegare il cuore dell’impresa hollywoodiana). E’ uno strano miscuglio di arte, commercio, impresa, gioco d’azzardo, il tutto sorvegliato dal caso e costruito in funzione di uno spettatore che non ha mai torto (“The Public is never wrong” s’intitolava l’autobiografia di Adolph Zukor, creatore della Paramount, una cosa inammissibile dalle nostre parti, dove il film che non funziona è sempre prova lampante di un pubblico non ancora pronto, che non capisce, non è all’altezza, non segue “il discorso”). E poi c’è l’Academy, i premi Oscar, c’è la legittimazione, il prestigio e tutte quegli stratagemmi congegnati negli anni da Hollywood per annacquare e imbrogliare la formula, “trasformando il successo e i soldi in arte”. Forse uno dei pochi punti fermi, una delle poche verità che la storia di Hollywood insegna, come dice Thomson, è che tranne rarissimi casi (Chaplin su tutti), “gli artisti sono spesso i peggiori amministratori del proprio talento”.

 

La storia del cinema italiano è stata magari “avventurosa” in un senso molto salgariano, ma certo epica mai. Mai costruita sulle forme del sogno, ma della cronaca, della storia, dell’inchiesta. Come dice Thomson, parlando dell’eccezione americana, il cinema italiano, e un po’ quello del resto del mondo, “ha, o ha avuto, una fede costante (e ben più triste) nel destino e nella realtà”. L’America no. “Nei film americani la cinepresa racconta una certa verità – registra l’apparenza – ma poi la manipola fino a farne una versione migliore di sé stessa: un ideale, spesso, ma a volte anche un incubo. Tutto tranne la realtà”.
André Bazin, il papà dei “Cahiers du Cinéma”, diceva che il western era “il cinema americano per eccellenza”, e che tutti i film americani sono in fondo sempre dei western. Anche quelli senza cavalli, senza praterie, canyon, indiani, cowboy. Anche “La formula perfetta” si snoda come un lunghissimo western, così come forse avrebbe potuto scriverlo Melville, maestro della digressione infinita. Un western dove arte e soldi si danno battaglia senza tregua. Col mito del successo al posto della “frontiera” e della wilderness, e la ricerca estenuante dell’“equazione” in grado di spiegare Hollywood (oggi diremmo dell’“algoritmo”) al posto di Moby Dick.

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