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FACCE DISPARI

Simone Volpato, il ghostbuster di Giacomo Casanova (e non solo)

Francesco Palmieri

"Le “Memorie” mi intrigano perché sono uno stress test per il concetto stesso di informazione", ci dice il bibliografo padovano nel duecentesimo compleanno editoriale del libro 

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Due eccellenti modi per perdere di vista l’identità di chiunque sono dimenticarlo o ricordarlo troppo. Nella seconda fattispecie è incappato Giacomo Casanova, che dopo duecent’anni è un po’ com’era il comunismo fino a qualche centinaio di mesi fa: ciascuno ne rivendica la sua interpretazione. Ma per un paradosso dell’ipermnesia nessuno s’è rammentato che nel 2022 ricorre il duecentesimo compleanno editoriale delle Memorie del veneziano – nessuno tranne un gruppo di casanoviani chiamati a raccolta dal nord-est (dove altro sennò) presso il padovano cinquantenne Simone Volpato, bibliografo e libraio antiquario a Trieste con importanti scoperte alle spalle (le biblioteche perdute di Italo Svevo e Carlo Michelstaedter, l’archivio di Anita Pittoni, i carteggi di Bobi Bazlen).

Giampiero Mughini, in un articolo sul Foglio giusto due anni fa su Umberto Saba, definì Volpato l’uomo che afferra “significati nascosti” e “verità ulteriori” del capoluogo giuliano. Parliamo ora di lui come lo stampatore della rivista “Casanoviana”, su cui i patiti mondiali del leggendario Giacomo scoprono ogni anno novità, e parliamo con lui per il libro “Le Memorie di Casanova” essenzialmente a causa del sottotitolo: “200 anni di intrighi, censure, misteri”, curato da Volpato con gli specialisti Gianluca Simeoni e Antonio Trampus per Ronzani Editore, che è uscito a ottobre scorso.

 

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Si celebrano continui anniversari eppure lei segnala un’amnesia.

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Sì, siamo gli unici che hanno pensato a un’iniziativa per ricordare la prima edizione delle “Memorie” nel 1822, quando il celebre Brockhaus di Lipsia ne intraprese la pubblicazione integrale traducendole in tedesco dal francese, la lingua in cui le scrisse Casanova. Nacque allora, molti anni dopo la morte dell’autore, il suo mito con tutte le elaborazioni che ne conosciamo, dall’arte al cinema al teatro.

 

Come furono interpretate le “Memorie”?

Tutti si sentirono liberi di agire con l’autore come lui aveva agito in vita, copiando altri testi e mettendoli nei propri, usando il pettegolezzo per notizia, ingigantendo verità fino a falsificarle. È un’opera leggibile su diversi piani, in cui lui cercò di immettere il capolavoro della propria vita.

 

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Il pubblico è ammaliato da Casanova per le avventure, le conquiste femminili, la fuga dai Piombi, lo spionaggio per Venezia. E lei? Un bibliografo di formazione accademica?

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Le “Memorie” mi intrigano perché sono uno stress test per il concetto stesso di informazione. Fino a che punto è vero quanto si racconta? Quali vicende editoriali si accompagnano a un testo che è stato piratato, censurato, rimaneggiato? Dai documenti sparsi nelle biblioteche ma soprattutto nelle collezioni private emergono sempre risposte.

 

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Casanova conosciutissimo mistero?

Se applichiamo il rigore scientifico, lui e il suo contesto sono più ricchi e misteriosi di quanto immaginiamo. La vita reale è più affascinante del mito.

 

Personaggio replicabile nel Duemila?

Forse uno Steve Jobs ha avuto comparabile carisma demiurgico, la capacità di far sognare con un marchio di successo quindi soggetto a plagi e imitazioni.

 

Casanova è un brand?

Ed è anche l’aristocrazia del Settecento, un sismografo del secolo e della sua fine, non è solo vitalismo ma miseria umana, fragilità, come intuì Fellini sotto il trucco pesante di Sutherland. È a tratti assai vicino al Don Giovanni del suo amico Da Ponte, che fa una fine tragica.

 

La sua non fu così tragica: si consumò in un periferico maniero boemo.

Fu una misera fine, sfottuto dalla servitù del castello di Dux dopo avere conosciuto le luci abbaglianti dell’Europa che contava. Per riviverle e sfogarsi si mise a scrivere le “Memorie”.

 

Oggi la sua biografia si chiuderebbe più felicemente?

Si muoverebbe con disinvoltura nel sistema dell’informazione, come uno che sa crearla e manipolarla mescolando vero e falso. Ma non sarebbe un pifferaio di Hamelin. Non c’era dolo nelle sue bugie. Non fu un cattivo maestro.

 

Sarebbe un leader politico?

No, piuttosto un ottimo ambasciatore. Gli mancherebbe la costanza per guidare un partito. L’irruenza di idee che gli venivano impedirebbe la perseveranza.

 

Parlava di Sutherland, ma quale fu il vero volto di Casanova?

La stranezza è che di un personaggio così vanesio e associato alla seduzione abbiamo solo qualche sparuta incisione, forse neanche veritiera. Ed è strano che chi lo abbia incontrato non ne descriva la fisionomia precisa, come se il fascino fosse giocato più sul carattere che sull’aspetto. O quasi che creando tanti volti di se stesso si sia smarrito l’originale.

 

Sarebbe audace, a Trieste, un paragone letterario con Bobi Bazlen?

Due figure totalmente differenti. Casanova non vive se non scrive, Bazlen vive per non scrivere salvo le schede editoriali che chiamava “referti clinici”. Ma per il volto sì, sono simili: di Bobi sono rimaste poche foto sfocate, e come Casanova amava muoversi sotto il pelo dell’acqua, non tuffarsi nei fondali. Su entrambi si sono moltiplicate le interpretazioni. Al di là del timbro di Calasso, chi capì su Bazlen più di tutti fu Daniele Del Giudice, ricercando testimonianze veraci. La scommessa è sempre quella: vedere il vero volto di Casanova, o di Bazlen, oltre le proiezioni che riuscirono a creare. Ritrovare ciò che s’è perduto, capire quanto è stato perduto e come arginare la perdita. Sono domande filosofiche, ma hanno impatto emotivo. E l’emozione guida la ricerca.

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