Courtesy of Curran Hatleberg 

Le foto di Curran Hatleberg, scatti di un sogno americano

Luca Fiore

"Rivers' Dream" è il libro che raccoglie i lavori dell'artista: il frutto di un intero decennio di peregrinazioni nel sud degli Stati Uniti, tra Florida, Texas, Louisiana e Mississipi. Un'America sempre più divisa, ma le fotografie illuminano una speranza inaspettata

Serpenti, alligatori, cani, api. E poi boschi, auto demolite, specchi d’acqua, partite a domino, angurie. Quello di Curran Hatleberg è un rosario di oggetti, prospettive e situazioni in cui il mondo animale e quello vegetale si mescolano spesso senza soluzione di continuità, come se a guadagnare loro uno scatto – e dunque l’attenzione del fotografo – fosse unicamente il caso. River’s Dream (TBW Books, 2022), il volume firmato dall’appena quarantenne artista statunitense e finito tra i finalisti degli Paris Photo–Aperture PhotoBook Awards, il più importante premio delle pubblicazioni di fotografia, è frutto di un intero decennio di peregrinazioni nel sud degli Stati Uniti, tra Florida, Texas, Louisiana e Mississipi.

Presentato nel 2019 alla Whitney Biennial di New York, è concepito come un capitolo di un unico progetto sull’America contemporanea: il tentativo di tastare il polso del paese in questi anni di turbolenta transizione. Nella puntata precedente, Lost Coast (TBW, 2016), Hatleberg si era immerso nell’atmosfera della città di Eureka, nel nord della California, dove la maestosa bellezza delle sequoie del parco nazionale di Redwood convivono con il disagio sociale dell’America profonda. 

“In River’s Dream provo ad accostarmi a questi luoghi da una prospettiva particolare, che è quella dei singoli individui, delle famiglie, della comunità”, spiega Hatleberg al Foglio. “Desideravo andare in Florida in cerca dei sentieri meno battuti. Non mi interessava la Florida delle spiagge di Miami o di Disney World, quella che finisce sui giornali. Di quello stato non conoscevo nulla e mi incuriosiva capire che cosa capita nei luoghi normali e nella vita quotidiana. E volevo farlo in piena estate, quando l’umidità è insopportabile, per immergermi meglio nell’atmosfera di quei luoghi”.

La Florida dei sentieri meno battuti in piena estate, “quando l’umidità è insopportabile, per immergermi meglio nell’atmosfera”

Hatleberg ha frequentato la Florida per un paio d’anni, tornando a visitare le stesse famiglie incontrate casualmente per trascorrere il tempo con loro. “Con alcune di queste ho vissuto anche per diversi mesi e sono diventato parte della loro routine quotidiana. Sono persone incontrate mentre fotografavo: loro erano interessante a me quanto io a loro. Ed è scattata una scintilla. Si è trattato di una sorta di magnetismo, una connessione non dichiarata”. Questo rapporto di prossimità ha permesso a Hatleberg di entrare nel mondo di queste persone, di accedere ai loro momenti di intimità e di vulnerabilità. Una relazione profonda cresciuta a partire da una completa estraneità. “Mi sono affidato a loro, come collaboratori, soggetti e guide”, spiega. Una relazione per descrivere la quale Hatleberg non ha paura di usare la parola “amicizia”. Il volume si apre con una pagina bianca con scritto: “This book is dedicated to the Huggers”. Spiega l’artista: “Gli huggers sono ‘coloro che abbracciano’, ma sono anche la famiglia Hugger, una di quelle a cui mi sono più affezionato”.

Un libro sull’amicizia, dunque, ma anche sull’estate: “Il caldo costringe le persone a stare all’aperto. E le possibilità di scattare foto sono infinite. La gente esce per strada solo per camminare, lasciandosi andare al mondo senza alcun pensiero programmato. A quelle temperature, ci si toglie le magliette, la pelle è messa a nudo. La criminalità aumenta. Onde di umidità si riversano sul paesaggio, facendo uscire le erbacce fuori dal cemento”. Dopo l’esperienza in Florida, il fotografo ottiene una residenza d’artista a Galveston, città costiera del Texas orientale, che gli permette puntate anche in Louisiana e Mississipi. “Anche lì il clima era incredibile: per tutto il giorno avevi addosso vestiti umidi. E’ la palude dove vivono serpenti e alligatori, le cui immagini ricorrono nel libro, così come quelle delle famiglie che mi hanno ospitato”.

Luoghi, stagioni, persone. Hatleberg registra e documenta. Ma nel libro non esistono né didascalie e né note che permettano di associare le immagini alle circostanze nelle quali sono state scattate. Non è una dimenticanza, ma una scelta consapevole. “Quando, mostrando una fotografia, si risponde a troppe domande su chi, che cosa, dove e perché si chiudono molte delle interpretazioni possibili. Se subito dopo aver guardato un’immagine si legge la didascalia e si pensa ‘oh, è la Florida’, la partita è già chiusa, l’immaginario è già circoscritto. Mentre in questo modo lo spettatore ha la possibilità di sognare. E le ipotesi di lettura non sono né confermate né smentite. E’ un tipo di ambiguità che mi piace molto”.

In “River’s Dream” non ci sono didascalie. “Lo spettatore ha la possibilità di sognare. E le sue ipotesi non sono né confermate né smentite”

Non è un caso che la fotografia di Hatleberg sia stata scelta da Paul Graham per la collettiva “But Still, It Turns”, presentata all’International Centre of Photography di New York e ai Rencontres d’Arles, nella quale il fotografo britannico propone una nuova generazione di artisti che ha ridato vitalità alla tradizione della fotografia realizzata a partire dalla vita “così com’è”. Si tratta, nelle diverse sfumature a seconda dell’autore, di un documentario lirico, in cui la realtà è rappresentata senza distorsioni tecniche, ma senza illudersi né pretendere di essere oggettivi, anzi, strizzando l’occhio al racconto di fiction.

River’s Dream inizia con l’immagine di una casa diroccata, la cui porta bianca è costellata da macchie di spray rosse, nere e gialle. La foto successiva è punteggiata, invece, da uno sciame di api attorno a due fette di anguria. In quella dopo, altre due fette di anguria sono appoggiate a un davanzale di legno dipinto di giallo e, sullo sfondo, c’è un’insegna che recita “Pure Honey”. Voltiamo pagina e troviamo un uomo con una t-shirt gialla che, con uno sguardo di sfida, esibisce una barba di api attorno al mento. La fotografia che segue mostra, sul ciglio di una strada, una famiglia attorno a un tavolo che mangia fette di anguria. Lo sfoglio continua con tre uomini attorno a un tavolino che giocano a domino. Nello scatto successivo, l’inquadratura è ravvicinata e si scorgono le tessere del gioco posizionate a mo’ di serpente. Si volta pagina e c’è la fotografia di una bambina, seduta in mezzo a cumuli di macerie, che tiene in mano un serpente. Spiega Hatleberg: “E’ una concatenazione di immagini che procede secondo la logica del sogno. Più avanti nella sequenza, appaiono altre immagini di serpenti. Uno in una vasca, l’altro in una piscina gonfiabile. Se ci si pensa, anche il fiume che dà il titolo al libro procede per anse e assomiglia a un serpente”. Non si tratta di metafore o simboli, anche se è difficile separare un animale come il serpente da una connotazione simbolica, ma di temi ricorrenti, come fossero linee melodiche in un brano musicale. Una partitura costruita per contrappunto, in cui le immagini ricorrenti si intrecciano in un flusso visuale che ha poco o nulla di narrativo, ma molto di poeticamente atmosferico.

“Voglio realizzare un’immagine che viva dell’attrito tra gli estremi. Quando il quotidiano flirta con il sublime, la vita diventa emozionante”

Quella di Hatleberg è un’opera sull’umidità, sull’acqua, sul fiume, sulla vita che si anima in queste regioni sconosciute a chi è nato e cresciuto nelle grandi città della East Coast. “Sono luoghi trascurati dall’attenzione non solo mediatica. Sono posti di cui non sentirai mai parlare, se non per il fatto che, per un motivo o per l’altro, ci sei costretto ad andare. L’America è un paese davvero grande, ma probabilmente per il 70 per cento è più simile a questi luoghi che non alle grandi città come New York, Miami o Los Angeles. Se esiste uno standard, va cercato qui, anche se è la parte degli Stati Uniti che si conosce di meno”. Hatleberg spiega che, soprattutto in questo momento, in un paese così polarizzato, in cui domina la divisione, la fotografia è un’ottima scusa per far incontrare persone che appartengono a mondi diversi e dar loro l’opportunità di condividere qualcosa. “Mentre lavoravo a questo libro – racconta il fotografo – mi è capitato che qualcuno mi dicesse: ‘Non ho mai conosciuto in vita mia un artista o qualcuno di sinistra. Ma tu sei simpatico, sei a posto’. Alla fine, a vedere le cose come stanno, è più ciò che abbiamo in comune che ciò che ci distingue. Penso che le persone siano buone per natura. Al fondo di un lavoro come questo, probabilmente c’è la convinzione che sia possibile capire il significato della famiglia e della comunità. Forse può suonare banale, ma probabilmente non è così scontato: le persone possono stare insieme anche se sono diverse. E questo io sono riuscito a vederlo grazie al mio lavoro di fotografo”.

Courtesy of Curran Hatleberg 

E’ come se l’approccio documentale di Hatleberg lo avvicinasse a una materia e a un tema preciso. In questo caso il sud, sconosciuto ed estraneo per un uomo nato a Washington DC e laureatosi a Yale. Ma è la logica del sogno che porta avanti l’argomentazione lirica del discorso. Eppure, ogni scatto è un’immagine che regge di per sé, capace di comunicare anche isolata dalla sequenza finale. Molte di queste fotografie trasmettono un fascino misterioso, difficile da decifrare. Una bellezza sghemba, fuori asse. Lester Bangs l’avrebbe definita “grungy”. “Sì, io desidero mostrare cose belle. E’ lì che voglio arrivare. Ma ciò che preferisco è realizzare un’immagine che viva dell’attrito tra gli estremi: felicità e tristezza. Speranza e disperazione. Capita che ti trovi in situazioni davvero dure, dal punto di vista sociale o personale, ma dentro l’inquadratura appare qualcosa che apre a una possibilità”. Il fotografo suggerisce di guardare al finale del suo libro: c’è una sequenza di immagini che mostra una donna di mezza età dai capelli rossi. E’ seduta a un tavolo in riva a un fiume. Davanti a lei ci sono bottiglie vuote. Alcune d’acqua, alcune di birra. Lei guarda il braccio di una persona fuori dall’inquadratura, sul quale si è appoggiata una mantide religiosa. “Era una giornata qualunque, in una situazione comune. Sembrava stesse per piovere. Poi questo insetto bellissimo spunta fuori dal nulla, come un piccolo miracolo. E’ in occasioni così, quando il quotidiano flirta con il sublime, che la vita diventa emozionante”.

“Mi è capitato che qualcuno dicesse: ‘Non ho mai conosciuto in vita mia un artista o qualcuno di sinistra. Ma tu sei simpatico, sei a posto’”

A proposito di piccoli miracoli. Nel 2020, poco dopo aver scattato l’ultima foto di questo libro, nasce il primo figlio di Hatleberg. All’anagrafe viene registrato come River. Non è una chiave di lettura per River’s Dream, ma qualcosa a cui l’artista tiene molto. “Per tutto il tempo a cui ho lavorato a questo libro, lui non esisteva ancora. Mio figlio non era ancora nato. Ora, ripensandoci, però, è come avessi attraversato queste esperienze vivide, intense e bellissime come in sogno. I dialoghi avuti nei posti in cui sono finito, l’eccitazione di non sapere dove la fotografia mi avrebbe portato a fine giornata, e il tentativo di trovare il modo visivamente più adeguato per comunicare tutto questo. E oggi penso che, in un certo senso, la prima persona con cui avrei voluto condividere ciò che ho visto e vissuto era lui, mio figlio. Anche se non lo conoscevo ancora. E oggi lo immagino come se avesse partecipato a questo dialogo impossibile. E ciò che ora vedete nel libro, in fondo, è anche il suo sogno di ciò che mi stava capitando”.