Fortunato Depero, “La casa del mago”, 1928, dalla mostra “Futurismo 1909-2009” a Milano, Palazzo Reale (Olycom) 

da Marinetti ai rave party

Futurismo di lotta e di governo. Un'altra idea per il ministro Sangiuliano

Andrea Minuz

Il neoministro della Cultura pensa a una mostra “sulle radici antiche del futurismo”. Ma perché non ragionare sulle radici futuriste di cinema e arte contemporanea? Dai film arthouse agli algoritmi che scrivono poesie 

Ora si fa sul serio. Non ci sono più scuse. Ora che la destra italiana è chiamata a ribaltare, finalmente coi fatti, la famigerata “egemonia culturale”, tassello decisivo del vaste programme di Giorgia Meloni, bisogna lanciare un messaggio chiaro, netto, inequivocabile. In visita a Napoli, alla prima uscita pubblica da ministro della Cultura, sollecitato sulle complicate sorti dell’arte contemporanea in Italia, Gennaro Sangiuliano ha suggerito per esempio al direttore del Museo archeologico di immaginare una “qualche contaminazione”. Ci vorrebbe “una mostra dei futuristi, perché nel futurismo c’è un’idea di modernità che viene dall’antico, dal passato”. Ecco la solita destra, ha pensato subito qualcuno storcendo il naso. Quella che quando sente la parola “cultura” mette mano al futurismo. Quella che squaderna solo Marinetti, Tolkien, Mogol-Battisti e Harry Potter, e poi se la prende con l’egemonia. Un futurismo, insomma, buttato lì come uno dei tanti “troll” di queste prime settimane di governo (le declinazioni, i pronomi, il merito, i contanti, i rave), tanto per mandare in cortocircuito il Pd e immaginare nel frattempo qualche strategia.

Sospetta, poi, anche l’idea di un futurismo da “tradizione”. Un futurismo “che viene dall’antico”. Quindi non parentesi, strappo, provocazione, ma fonte, radice e matrice profonda di italianità, come la Magna Grecia o il Rinascimento (la seconda grande mostra che ha in mente Sangiuliano). Era invece l’occasione giusta per ricordare che proprio a Napoli, battendo il Figaro di una settimana, l’editore Bideri pubblicò la prima versione del celebre “Manifesto” del 1909. E poi Marinetti amava Napoli, i suoi café-chantant, il caos di Piedigrotta, le follie di Capri e il Golfo, “cassa armonica d’Italia” (“a Momsen e a Croce opponiamo lo scugnizzo”, diceva, sottraendolo insomma al “pittoresco” per infilarlo nel pantheon futurista, tra macchine, aeroplani, manichini, automi). Non si sa se Marinetti avrebbe apprezzato tutto questo radicamento nella tradizione e nell’antico. Però sarebbe piaciuta molto ai futuristi la dichiarazione di Borgonzoni che si vantava di non leggere un libro da tre anni (nauseante oggetto passatista e polveroso); sarebbe piaciuta la delega alla musica per Morgan, che trasformò Sanremo 2020 in un’autentica “serata futurista”; sarebbero piaciuti anche i rave party, con tutta quella musica industriale, assordante, cacofonica, come l’“intonarumori” del futurista Luigi Russolo.

Non si sa se Marinetti avrebbe apprezzato tutto questo radicamento nella tradizione. Però sarebbero piaciuti ai futuristi i rave party

Quella del futurismo e la cultura di destra è, com’è noto, una vecchia storia. Come i pregiudizi, i tic, gli imbarazzi da sinistra verso Marinetti e famiglia, che a lungo hanno condizionato studi e ricerche sulla prima grande avanguardia europea. Giulio Bollati, per esempio, non metteva il futurismo nel pantheon delle avanguardie ma in un italianissimo, sempiterno trasformismo di cui Marinetti era l’ennesima maschera: trombone come gli altri ma riciclato in salsa industriale (“la rivoluzione futurista sostituì ai vecchi oggetti poetici le bielle e le ruote dentate della nuova tecnologia, ma senza sostituire, anzi riconfermando l’antico individualismo romantico in una moltiplicata estasi letteraria che trovò il suo sbocco nella guerra e nel fascismo”). Poi sono venute fuori le “correnti”. I futuristi “di sinistra”, il futurismo marxiano, marcusiano, deleuziano, l’anarcofuturismo, quindi le donne futuriste e persino un futurismo incerto sulla bellezza della guerra (non si sa se i futuristi oggi starebbero con Putin, ma certo avrebbero inviato le armi agli ucraini se non altro per il gusto di vederli combattere). Crediamo insomma di aver metabolizzato e storicizzato il futurismo. Ma basta che a ricordarne la grandezza sia un ministro di destra e si ricomincia da capo.

Se c’è un aspetto però che ancora oggi resta più in ombra di altri questo è sicuramente l’apporto decisivo e stratosferico dei futuristi nel cinema. Non in fatto di film, attori, registi, ma come cumulo di idee che avrebbe ben presto trovato applicazione altrove, in un arco che va da Eisenstein a “Fast and Furious”. Al rapporto dei futuristi col cinema si dedicò tra i primi, Mario Verdone, papà di Carlo. Poi vennero le ricerche meticolose di Giovanni Lista, storico dell’arte esule in Francia e grande specialista del tema. Il suo lavoro sfocia in una grande mostra allestita al Mart di Rovereto, nel 2001. Dai pochi film di creazione futurista si passa “ai film rapportabili al futurismo in quanto parte della cultura d’avanguardia italiana, o ancora ai film di propaganda industriale o ai documentari storici sul futurismo”. La rete di influenze del cinema futurista trova una prima, corposa sistemazione. In pochi però se ne accorgono. I futuristi restano insomma quelli delle strombazzate di Marinetti, della guerra, del fascismo, di Boccioni. 

L’apporto decisivo dei futuristi nel cinema, come cumulo di idee che avrebbe trovato applicazione altrove, resta ancora in ombra

“Mi capita di ricevere a Parigi studenti che hanno bisogno di informazioni per le loro tesi sul cinema surrealista o dadaista”, raccontava qualche anno fa Giovanni Lista, “ma non mi è mai capitato, nemmeno una volta, di accogliere uno studente che stesse lavorando sulla nostra avanguardia, nonostante si tratti di un terreno ancora tanto fertile”. Del resto, a parte le celebri scenografie di Prampolini per il film di Anton Giulio Bragaglia, “Thaïs” (1917), il cinema futurista in senso stretto è una serie di atti mancati, di ipotesi, di esperimenti andati in gran parte perduti e ricostruiti sulla base di documenti d’archivio. E’ il caso di “Vita futurista” (1916), scritto da Marinetti e diretto da Arnaldo Ginna, film che coincide con l’elaborazione del “manifesto” di cui sono rimasti solo pochi fotogrammi. E’ il primo titolo che vanta l’etichetta ufficiale del movimento, con la partecipazione del gruppo di Firenze (Corra, Ginna, Settimelli e poi Papini, Soffici, Palazzeschi). Un film-performance che mette in scena la giornata tipo del futurista. Oggi sarebbe uno dei tanti documentari autocelebrativi di Netflix. Quindi spregiudicata operazione promozionale, più che film di ricerca. Nato soprattutto come replica polemica a un film di due anni prima, diretto da Aldo Molinari, giornalista, fotografo, impresario teatrale e simpatizzante futurista, che si era messo in testa di realizzare il primo film del movimento senza chiedere permesso a Marinetti. Ispirato a un testo di Palazzeschi (“Il controdolore”), che approvò l’operazione, “Mondo Baldoria” veniva presentato nelle sale come “il primo film futurista”, e la cosa, va da sé, mandava su tutte le furie Marinetti. Subito arrivò il volantino, “Gli sfruttatori del futurismo”, per respingere “l’ignobile contraffazione”. La pressione di Marinetti funziona. Molinari ritira il film dalle sale. Si tratta di un passaggio storico decisivo. Perché se con questo gesto Marinetti rivendica il copyright sul brand, dall’altro toglie ai futuristi l’appoggio del cinema come industria nascente. Diversamente da quel che accadrà in Francia, dove le sperimentazioni delle avanguardie artistiche nutrono anche la produzione industriale, l’accesso al cinema viene di fatto compromesso. 

Uno dei film preferiti da Marinetti è “Amore pedestre”, corteggiamento raccontato dai piedi di un uomo e una donna (cose da corto della Pixar)

Le idee futuriste però si diffondono ovunque. E i “manifesti” dedicati al cinema coprono un arco temporale che va dal 1914 al 1938 (in questo sì, il futurismo fu davvero italianissimo: nessun’altra avanguardia elabora in continuazione manifesti e contromanifesti come il futurismo, anche lui travolto dalla pulsione normativa, dalla nostra passione per regolamenti, codici, guide, ordini corporativi che ci spinge a legiferare su qualsiasi cosa). Nel 1926, quando Marinetti ripubblica “La cinematografia futurista”, rivendicherà infatti con tono polemico nei confronti dell’avanguardia francese la ricchezza delle idee futuriste sul cinema e la loro esplicita influenza. Non si può dargli torto. Gli effetti del futurismo sono ovunque. Anche il documentario del 1925 sulle architetture del Lingotto di Matté Trucco (per cui i futuristi vanno in estasi) viene salutato come un film futurista. In un’intervista del 1969, sul Secolo d’Italia, Arnaldo Ginna, rievocando le vicende di “Vita Futurista”, aggiunge però un tassello fondamentale per comprendere il mancato incontro tra il cinema e il futurismo, a fronte di così tanto dispendio di idee e suggestioni: “Nei teatri le serate futuriste potevano anche essere accompagnate dal lancio di verdure e altri vegetali ma senza arrecare troppi danni”, diceva Ginna, “ma nelle sale cinematografiche il lancio di simili proiettili vegetali avrebbe inevitabilmente deteriorato gli schermi, con grave danno per le strutture. Ragion per cui gli esercenti si rifiutarono di proiettare il film”. 

Del resto, Marinetti non è affascinato dai film che inseguono le forme d’arte più nobili (il teatro, la letteratura), ma dal cinema popolare. Dalle torte in faccia, dagli inseguimenti, dalle gag, dalle manipolazioni e dai trucchi coi capitomboli mandati all’indietro. Rapidità, vivacità, un certo piacere anarchico della distruzione, tipico delle prime comiche, sono un meraviglioso sberleffo all’arte. Il cinema popolare è una rivoluzione futurista che avanza senza ideologia e senza teoria. Uno dei film preferiti da Marinetti è “Amore pedestre”, prodotto dalla Ambrosio Film. Un corteggiamento raccontato dai piedi di un uomo e una donna (cose che oggi si vedono nei corti della Pixar), in cui riecheggia la “Serenata pedestre” di Petrolini, coi suoi versi immortali, “per i tuoi piedi d’amor mi consumo, per i tuoi piedi mi sento morir, il loro arcano, sublime profumo, m’inebria l’anima, mi fa svenir”. Le idee futuriste sul cinema – un movimento che è già cinematografico nei quadri di Balla (il “Dinamismo di un cane al guinzaglio”, come diceva Emilio Cecchi, non è un quadro, ma “il film di un bassotto che zampetta”) – alimentano gran parte delle sperimentazioni degli anni venti: le idee sul montaggio di Eisenstein, il genere delle “sinfonie urbane”, da Vertov a Ruttman, i tre schermi del “Napoleon” di Abel Gance, ispirati dai manifesti futuristi di Prampolini sullo “spazio scenico polifunzionale”, che Gance ha visto probabilmente all’Exposition International des Arts Décoratifs e Industriel Modernes di Parigi, nel 1925. E naturalmente “Metropolis” di Fritz Lang. Qui insieme al Bauhaus e alle architetture di vetro di Bruno Taut, risuonano la “Città nuova” di Sant’Elia, la “Città fantastica” di Virgilio Marchi, la “Città aerea” di Depero, che ritroviamo in tutte le distopie/utopie metropolitane, da “Blade Runner” a “Matrix”. Del resto, nel film di Lang circola anche il mito dell’automa femminile, il tema del robot, dell’incrocio tra l’uomo e la macchina e della loro simbiosi. Una mitologia cara ai futuristi, che compare in vari testi e in un film del 1924 di Luigi Maggi, “La bambola vivente”.

In “Metropolis” risuonano la “Città nuova” di Sant’Elia, la “Città aerea” di Depero, che ritroviamo in “Blade Runner” e “Matrix”

Oggi Marinetti avrebbe avuto grande sprezzo dello slow-cinema che si porta nei Festival, dei film contemplativi, del mito della campagna nelle opere di Alice Rohrwacher e Michelangelo Frammartino o del neodecadentismo di Sorrentino. Avrebbe invece accolto con grande euforia gli algoritmi che scrivono sceneggiature e salutato come opera “squisitamente futurista” “Titane”, il film di Julia Ducournau trionfatore a Cannes 2021, che tanto fece indignare Moretti. Qui l’amore per le automobili si prende molto alla lettera e la protagonista resta incinta di una Cadillac. Tra le tante possibili suggestioni futuriste, viene in mente “L’uomo moltiplicato e il regno della macchina”, un testo di Marinetti del 1910, dove si propone di rovesciare per sempre il legame romantico-letterario “donna-bellezza”, per cantare piuttosto il nuovo idolo dell’estetica moderna, la bellezza meccanica. Idea che non andrà contemplata ma messa in pratica, facendo fondere la macchina con l’uomo. Anziché esaltare le “antiche radici” del futurismo si potrebbero insomma raccontare le tante radici futuriste dell’arte contemporanea, dal post-umano ai film arthouse, agli algoritmi che compongono versi e serie televisive. In un soggetto scritto da Marinetti nel 1917 (e ritrovato da Giovanni Lista alla fine degli anni novanta) per un film intitolato “Velocità”, s’immagina come sarà “l’uomo politico tra cento anni”. Eccolo nella scrittura ansimante di Marinetti: “Ubiquità e vita centuplicata di un uomo politico. Gabinetto di lavoro in un treno lanciato a tutta velocità. Tastiera telegrafica e innumerevoli ricevitori telefonici. Il ricevitore si trasforma, sotto la sua bocca, a volta a volta in un interno d’officina, in una sala meeting, in un salotto elegante, in un osservatorio astronomico, in una sala della Borsa, in un arsenale, in una tenda di generalissimo”. Praticamente, Calenda su Twitter.