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Il Foglio del weekend

In “Tasmania” di Paolo Giordano ci sono le crisi del pianeta e quelle dell’uomo

Annalena Benini

Il nuovo libro dell'autore torinese tiene in sé il romanzo, il saggio, l’autofiction. Un presente così vivo da far paura: se Apocalisse dev’essere, questa è la corrente da cui farci trasportare

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Dopo due anni vissuti cacciando via il mondo dalla mia vita, due anni di Covid con la porta chiusa, due anni con gli altri a distanza, dentro i telefoni o da nessuna parte, non sapevo proprio più che farmene, degli altri. Anche a loro doveva essere successo qualcosa, come a me del resto, ma ero così presa dal mio piccolo nucleo, dai miei piccoli giorni, che non ne sapevo più niente. Niente di profondo, niente di vero. Delle loro paure, vanità, inadeguatezze.

Del fallire che non si ferma mai. Dello stare dentro una storia più grande che ci sfiora in molti modi diversi: insomma, di un presente così vivo da far paura. Una sera tardi mi sono messa a letto, ma con la schiena dritta sui cuscini, e ho preso in mano un fascio di fogli con sopra il titolo Tasmania, ho iniziato a leggere e dopo poche pagine ho sentito che gli altri stavano tornando. Che io sono ancora qui insieme a loro e di loro voglio sapere tutto: e che un libro che si lascia invadere dal mondo è capace di riportarci tra le mani il mondo. Tasmania (appena uscito per Einaudi) è scritto in prima persona singolare, la voce narrante di uno scrittore con la formazione da fisico che scrive anche sul Corriere della Sera, un io vero e fittizio insieme, un uomo di quarant’anni, borghese, mite, sposato, in crisi, che si chiama Paolo.

Un uomo moderno che nel presente, poco prima e poco dopo la pandemia, attraversa gli anni che abbiamo attraversato proprio noi che leggiamo, prende l’auto, si trova in mezzo a una manifestazione, prende l’aereo, dorme da un amico, va a una festa, tiene una lezione, studia gli effetti della bomba atomica per un saggio, si trova a cena con amici quando arrivano le prime notizie del Bataclan a Parigi, accompagna un teenager a un concerto, vive una crisi con la moglie mentre tutti gli altri intorno a lui vivono altre crisi, le loro. Mentre il mondo intero scoppia di crisi, di video online di decapitazioni e di convegni di scienziati, ma anche di nuovi modi di stare dentro il femminismo e di essere uomini e donne. Paolo Giordano ci fa entrare con lui nelle case, nelle aule universitarie, nell’appartamento di un padre separato, nella chiesa di un parroco interessato alla vita di coppia, nel silenzio che c’è tra due persone quando uno dei due non riesce a vedere nessun futuro, o anche quando ci si accetta l’un l’altro così profondamente da non dover continuamente parlare di futuro. Ma il futuro, ecco, come sarà il futuro in un romanzo (romanzo per semplificare, ma ci torniamo dopo) che interroga umilmente e appassionatamente, attraverso l’umano e attraverso la scienza, il presente? Il futuro di un uomo di quarant’anni che non riuscendo più a capire  se stesso si lascia invadere dal mondo, dagli incontri, dalle serate solitarie in una stanza d’albergo a combattere con gli interruttori delle luci. Un uomo che è un maschio alle prese anche con la modernissima lotta del suo essere maschio, in mezzo ad altri uomini e ad altre donne, proprio quando si sta ridisegnando un modo diverso di stare insieme e di fuggirsi.

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Quest’uomo è un io non ingombrante che sento famigliare per gli interruttori delle luci nelle stanze d’albergo ma soprattutto per questa scrittura fluida e viva che non solo ci accompagna nei posti dove decide di portarci, ma fa crescere l’enorme desiderio di sapere, di continuare, di girare pagina: voglio seguirlo dappertutto, sento di stare in auto come lui e la moglie nel traffico, o a piedi a Roma in via Nazionale, o su un balcone di Parigi a scroccare una sigaretta. Capisco che la sua confusione è la mia. A differenza di Carrère, Giordano non fa un patto di verità con il lettore, non lo agguanta con gli occhi lucidi per un braccio urlandogli: ti dirò tutto, dovrai credere a ogni parola, ma sembra mantenere ancora di più questa non promessa senza proclami, sottraendosi alla spacconeria e alla superbia. 
Parlando di radiazioni, in senso scientifico, racconta le radiazioni del mondo sulle nostre vite, esponendo la sua, offrendo in pegno la sua. Parlando di terrorismo, Giordano ci porta nel territorio della convivenza con il male. “C’era una contiguità mai sperimentata tra le nostre vite e una nuova forma di male assoluto – l’espressione è trita, ma non saprei come altro definirlo –, un male che sbocciava qua e là nel continente come un fiore marcio. Eppure Lorenza e io continuavamo a fare tutto ciò che avevamo sempre fatto, comprese le feste di compleanno”. 

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E’ un libro esposto e denudato, che non tralascia mai le connessioni tra l’attualità di un attentato terroristico a Londra e il gesto di chiudersi in bagno a chiave a Roma per chattare con una giornalista smaniosa condividendo l’urgenza del momento, ma facendo bene attenzione a cancellare uno a uno i messaggi prima di uscire dal bagno. Le cose grandi e le cose piccole, la scienza e la vita quotidiana, la purezza e la contaminazione, la ricerca di una salvezza e le foto dentro il cellulare: Paolo Giordano tiene tutto insieme come succede nella vita e nella testa, nei continui legami tra il dentro e il fuori, tra quello che accade e quello che si ha voglia di raccontare o di tacere alla moglie quando si torna a casa. Se siamo vicini all’Apocalisse, forse è meglio travestirsi da medusa e lasciarsi trasportare dalla corrente. Se il pianeta è in crisi, siamo in crisi anche noi nei nostri letti e con i nostri figli, se la fede nella scienza viene turbata dalla vanità dell’uomo, allora forse anche gli scienziati sono inadeguati, proprio come me e te.  

Tasmania non è solo un romanzo perché è troppo moderno per essere un romanzo classico. Usa il romanzo, cioè quello che ha imparato dal romanzo, come chiave di accesso, ma questo è un libro che contiene in sé altre forme, il giornalismo, il reportage, il saggio, l’autofiction, la riflessione su un’epoca. Senza che il lettore ne esca mai frastornato, ma anzi con l’effetto di tenerlo incollato, bisognoso di continuare perché felice di sentirsi vicino e compreso: felice di essere portato con leggerezza nella profondità dei suoi abissi. “Dopo tanti anni, Lorenza e io non eravamo solo una storia d’amore in crisi, eravamo anche un’infinità di altri aspetti inestricabili: un sistema di abitudini consolidate, una rete di relazioni sociali, un apparato burocratico. Dovevamo continuare a funzionare. E continuare a funzionare ci costava pochissimo”. Lui che passa molto tempo negli alberghi con la motivazione di doversi documentare per il saggio sulla bomba atomica, lei che una notte gli ha comunicato di non avere più intenzioni di sottoporsi ad altre procedure in vitro per avere un figlio. Intorno, i vecchi amici e i nuovi amici che vanno frantumandosi per le loro strade. E gli abbagli: capire male le persone, anche quelle vicine, restarne delusi, ma ricominciare da capo con un messaggino goffo. 

Paolo Giordano, dopo il suo esordio dirompente, La solitudine dei numeri primi (Premio Campiello, Premio Strega), ha sempre cercato nuove strade, anche stilistiche, non si è accomodato nella corsia del successo e della ripetizione. E a quarant’anni è arrivato a Tasmania. La Tasmania è un’isola con buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico, non è troppo piccola ma è facile da difendere, non ospita predatori per l’uomo. In caso di Apocalisse, lo scienziato che sta per commettere un’inammissibile gaffe nel mondo delle pari opportunità, fuggirebbe lì. “Se fossi costretto a salvarmi”, dice Novelli, lo scienziato, poco prima di mettere a rischio la sua carriera per rabbia e vanità. Perché anche questo è importante: fino a che punto vogliamo davvero salvarci? Fino a che punto questo io narrante maschile così poco sbruffone è in grado di trasformare in realtà il sogno di andarsene di casa e di lasciarsi tutti alle spalle, gettarsi nel “fuori” dopo anni di vita coniugale? Forse basta sognare, per non andarsene.. 

Ci sono molti impulsi dentro questo libro, una grande densità di scene e figure umane sempre in movimento, sempre alla ricerca, che non finiscono mai dove sono iniziate: il mondo, che abbiamo lasciato sospeso per un po’, allora può ricominciare. Con dentro tutti noi, più ammaccati, più stanchi, meno fiduciosi. La mia fiducia di lettrice va soprattutto a Lorenza, la moglie, e a suo figlio Eugenio. Alla loro capacità di accogliere, aspettare, offrire aiuto fingendo di chiederlo. Lorenza che è contraria all’infelicità, che tiene lui per mano anche quando lui pensa che sia lontanissima, Lorenza che gli chiede di punto in bianco: secondo te io sono troppo poco femminista? Lorenza che infila in valigia un avocado e un mango presi dal buffet della colazione prima di tornare a Roma, e lui che le dice che forse trasportare frutta sui voli intercontinentali è illegale. Lorenza che nemmeno gli risponde e che se si innervosisce scende dall’auto e lo lascia proseguire da solo. Ma non lo abbandona.
Poiché la domanda è: dove andresti, se fossi costretto a salvarti? E poiché non conosco la geografia e non so dove ci sia abbastanza acqua dolce, dopo aver letto questo libro penso che non mi voglio salvare. Mi va bene restare qui, fino all’Apocalisse, fino alla bomba atomica, a sentirmi parte di una grande crisi, a fraintendere le persone, a infilare un avocado in valigia e a fare colazione a San Lorenzo la mattina di Capodanno. Paolo Giordano ha costruito, anche grazie a questa scienza vivificata che arriva fino al Giappone per riportare indietro il senso della sopravvivenza e della memoria, un mondo così presente e vivo che provoca nostalgia. E desiderio di esporsi alle radiazioni dell’umano. Stare nel presente, in fondo, non significa altro che questo.

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