facce dispari

Maria Giulia Castagnone: “L'editoria è un'avventura che imparai da Jack London”

Francesco Palmieri

"Viviamo in un mondo globale e va benissimo adottare una parola straniera se è capita da tutti. Non è il caso di essere nazionalisti" nel linguaggio. L'intervista alla traduttrice e dirigente editoriale.

Giunta al quinto anno di pianoforte, quando da un’altra stanza Riccardo le gridava “è un si bemolle!”, cogliendo col suo orecchio iperacuto una croma sbagliata, Maria Giulia Castagnone realizzava che due musicisti in una stessa casa certe volte sono troppi. Specialmente se il primo è tuo padre ed è tra i più famosi concertisti italiani. Sicché, appassionata lettrice come la mamma e infatuata più dell’America di Jack London che di quella di ‘Piccole donne’, pensò quanto sarebbe stato bello leggersi ‘Martin Eden’ in inglese e vedere da vicino tutti i posti immaginati da una cameretta milanese. Ebbe inizio così l’avventura intellettuale di Maria Giulia, che presto sarebbe stata anche un lavoro e che l’avrebbe fatta diventare, nell’esatto stereotipo con cui generalmente adesso la menzionano, “una signora di lungo corso dell’editoria italiana”.

 

Traduttrice prima, attività che non ha mai abbandonato, poi dirigente editoriale, Maria Giulia Castagnone ha conservato da qualche parte le possibilità di una pianista e certe attitudini del padre.

 

Per esempio?

Mio padre tenne la cattedra di lettura della partitura nel conservatorio napoletano di San Pietro a Majella. Quando si confronta con un testo, un traduttore fa un’operazione simile: deve comprendere la partitura e interpretarla in ogni sfumatura per trasferire le parole nella propria lingua, che non dice le cose nello stesso modo, ma non deve tradirle.

  

Con quali autori, da traduttrice, si è divertita di più?

Con Bukowski, ma anche con Jonathan Coe. Però la lista è lunga: da Doris Lessing a John Fante a Fred Uhlman e molti altri. Tuttavia non mi ritengo una gran lavoratrice perché non ho vissuto mai le traduzioni come una fatica, anche se prediligo la lentezza: devo arrivare a una soluzione soddisfacente prima di procedere.

 

    

Ai traduttori viene sempre da chiedere: non ha mai pensato di scrivere?

No, perché a differenza del tradurre considero lo scrivere una terribile fatica. Nella traduzione devi scervellarti su problemi linguistici, ma lavori su qualcosa che esiste. Nella scrittura devi inventare tu. Sarà pigrizia? Chissà.

 

Come passò dalla traduzione al lavoro editoriale?

Per caso: un’amica mi portò dal grande agente Erich Linder, il quale aveva bisogno di un nuovo collaboratore. Da lui imparai tantissimo. Non era tipo che impartiva lezioncine, ma magari veniva in pausa pranzo a chiacchierare di autori, editori e di libri. Imparando così, capivo tutto.

 

Come se lo figura Linder nel ricordo?

In piedi in una stanza dell’ufficio, appoggiato a uno stipite della porta mentre sta raccontando o forse divagando. Sono seduta alla mia scrivania e all’altra c’è Antonella Antonelli.

 

Quindi lei andò in Feltrinelli, poi alla Sperling, a Marsilio, dal ’98 al 2017 direttore editoriale di Piemme e infine alla Sem. Un lungo corso pieno di porti. Per irrequietezza?

In più fondai anche la casa editrice Anabasi con Sandro D’Alessandro. Avevamo cinquanta soci che facevano mestieri diversi. Troppi, e ciascuno voleva dire la sua. Quando si trattò di ricapitalizzare, preferirono chi comprarsi una barca a vela, chi un appartamento a Londra. Allora andai in Marsilio, però Venezia, per viverci, non mi piaceva. Un giorno mi chiamò Pietro Marietti e mi disse che Piemme voleva aprire alla narrativa e alla saggistica: fui felice di tornare a Milano. Però conservo un ottimo ricordo di tutte le persone con cui ho lavorato. Bellissimo quello di Cesare De Michelis e Emanuela Bassetti, di Inge Feltrinelli, Tiziano Barbieri. Perché tanti cambiamenti? Mi piacciono le avventure. Le cose nuove. Forse perché ho letto tutto London da ragazza. Colpa sua.

 

Quando vide l’America per la prima volta le parve bella come l’immaginava?

Un amore selvaggio già guardando New York dall’aereo.

 

L’anno?

Secoli fa.

 

Quanto ha pesato la letteratura americana sugli scrittori italiani?

C’è stata un’influenza forte, per esempio sui giallisti. Se però ci riferiamo a un cambiamento dello stile direi di no. Quella italiana di una volta era una prosa più letteraria, oggi è quella che è perché la prosa cambia con il mondo. Il mondo ha acquistato più velocità e il nostro modo di parlare corrisponde al modo di pensare. Meno formale e meno ampolloso.

 

L’uso crescente del lessico inglese non impoverisce l’italiano?

Non sono le singole parole che danno la misura dell’indipendenza di una lingua. Viviamo in un mondo globale e va benissimo adottare una parola straniera se è capita da tutti. Non è il caso di essere nazionalisti.

 

I social influiscono sulla letteratura?

Non ancora. In futuro si vedrà. Piuttosto viviamo in un mondo molto più insicuro rispetto agli anni Ottanta e Novanta. Non è più triste, ma più apprensivo. Cosa produce la letteratura in momenti del genere è presto per dirlo. Bisogna aspettare.

 

Una certezza resta: gli italiani continuano a leggere poco.

Però la nostra editoria, sempre vista sull’orlo dell’abisso, continua ad andare avanti e il digitale non ha sgominato la carta stampata. Che gli italiani non leggano molto forse dipende dalla Bibbia, come dice una mia amica: gli inglesi la leggevano da soli, a noi la recitava il prete, perciò ci siamo alfabetizzati meno e dopo. Chissà se è vero, ma è una ipotesi accattivante.

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