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Stefan Zweig e la sua lotta per preservare il proprio potere creativo

Elisa Veronica Zucchi

Per lo scrittore sussiste un confine invalicabile, che discerne ciò che è umano da ciò che è anti umano. Più che su una cartina geografica, va cercato altrove: nello spirito

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In una lettera a Rainer Maria Rilke dell’11 marzo 1907 (in “La parte d’ombra delle cose”, L’orma, 2022) lo scrittore e drammaturgo di origini ebraiche, austriaco e cosmopolita Stefan Zweig ricorda al poeta e amico la necessità, per un uomo di genio, di essere altruista, dunque il dovere di pubblicare e di affinare il talento fino al massimo grado di perfezione. Non è forse vero che tanto più si sale la scala della forma lirica quanto più ci si spoglia della vanità individuale, e questa stessa, invece, diventa pudica, universale, e come un mantello da illusionista avvolge l’esistente, lo protegge dalla desolazione e lo sottrae alla diaspora dei nomi? La vanità, nelle sue numerose manifestazioni, è il cuore pulsante della riflessione di Zweig, un tema ricorrente dello scrittore de “La lotta col demone”, appassionato psicologo e amico di Freud. Sarebbe una condanna lottare per vanità individuali, per la difesa dei nostri confini, nazionalismi o egocentrismi, o non è, piuttosto, codesta battaglia una forma di fanatismo?

   

Scrive il mite e pacifista Zweig al teologo Martin Buber (24 gennaio 1917): “In quest’epoca di follia nazionalista il giudaismo mi fa sentire libero come non mai; da lei e dai suoi mi separa solo la convinzione che l’ebraismo non debba tornare a essere una nazione […] Amo la diaspora perché essa è il significato ideale dell’ebraismo, la sua vocazione cosmopolita e valida per ogni essere umano”. Per lo scrittore europeista sussiste un confine invalicabile, che discerne ciò che è umano da ciò che è anti umano. Più che su una cartina geografica, va cercato altrove: nello spirito. “La Novella degli scacchi” (Garzanti, 2014), ispirata ai giorni precedenti il suicidio di Zweig a Petrópolis (Brasile), in fuga dal nazismo e davanti a una scacchiera, sottolinea come l’esercizio costante del gioco alleni le capacità di difesa contro false minacce e sotterfugi. In fondo, quale inganno ci attanaglia che non sia frutto dei nostri complessi di persecuzione e sentimenti di colpa indisciplinati?

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Metafora del meccanismo che teatralizza il rapporto vittima/carnefice sono, ad esempio, il racconto “La paura” (Sperling & Kupfer, 1945) e “Storia di una caduta” (Adelphi, 2010). Nel primo una donna adultera prova vergogna e accusa un grave perturbamento nervoso quando viene ricattata da quella che crede essere (è un’attrice assoldata dal marito) la consorte legittima dell’amante. Nell’altro, Madame de Prie, caduta in disgrazia e invecchiata, decide di farla finita, per poter essere ricordata, financo amata, ma il suo gesto si rivela inutile. Il fine ultimo delle nostre azioni, l’oggetto imperscrutabile delle nostre intuizioni non è che vanità, la stessa che il nazismo annienta poiché ne intuisce il potere creativo, coesivo e la forza centrifuga?

   

Ne “Il mondo di ieri”, autobiografia del 1941, Zweig afferma che l’unico vero possesso, di cui è debitore al padre spirituale Goethe, è “il senso della libertà interiore”. Ma qual è il rapporto fra libertà e vanità pudica, che pacifica, pur momentaneamente, la lotta col demone? Cosa accomuna libertà e follia, se non una fuga dal centro, una forma di decontestualizzazione? Numerosi folli dicono di essere Napoleone. Che tipo di rocchetto avvoltola il filo che unisce alle estremità storia e follia, come eterne promesse spose? Scardanelli, l’alter ego di Hölderlin nella “Torre di Tubinga”, è o non è un personaggio storico, benché  inventato? La comunanza fra il folle che dice di essere Napoleone e Hölderlin che si firma Scardanelli è il desiderio di superamento, di trasbordare la vanità nella storia o nell’altrove.
 

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