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La recensione

Le tessiture di sogno di Sebald

Luigi Azzariti-Fumaroli

Tradotti da Adelphi i saggi più metafisici di Sebald. Il vagabondare lungo la Corsica e le sue note su Kakfka, Nabokov, in un libro dove "il passato è ridotto ad una serie di ricordi nei quali i morti, i vivi e i non ancora nati si ritrovano insieme sullo stesso piano"

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Quanto più la produzione saggistica di Winfried Georg Sebald guadagna il proprio posto accanto a quella narrativa, e tanto più risulta evidente com’essa pratichi una forma di «post-memoria», legata, come tale, non già ad una conservazione filologica, ma ad «un investimento immaginativo e ad una ricreazione», grazie ai quali il discorso critico, per mezzo di cesure, cadenze, divagazioni e sortite in campi adiacenti, si rende spesso autonomo dal suo oggetto. Non diversamente da quanto accada con gli scrittori russi per Ripellino o con Proust per Debenedetti, Sebald si rivolge alle figure prime della letteratura occidentale, con la convinzione che il proprio esercizio critico sia essenzialmente un alibi che gli permette di dissimulare una parte di sé e di truccare almeno in parte gli autori sui quali s’appunta.

 

Se di questa vocazione al “travesti” del discorso critico Soggiorno in una casa di campagna, più ancora che Storia naturale della distruzione, sembra recare esemplare testimonianza, in Tessiture di sogno appena stampato da Adelphi nella smagliante traduzione di Ada Vigliani, quest’alibi assume un significato – forse anche a motivo del valore testamentario che connota molti dei testi qui raccolti, i postremi di Sebald – più schiettamente metafisico, inducendo a considerare l’“altrove” al quale ripetutamente si fa segno non come l’infrasottile dimensione che si pone fra l’osservazione e l’immaginazione, ma come il termine di un movimento nel corso del quale sia dato misurare la contraddizione che fa essere la vita assente, benché noi si sia al mondo.

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A questo proposito il vagabondare per le aspre e soleggiate lande della Corsica, al centro di un racconto già noto al lettore italiano col titolo Le Alpi nel mare, fa incontrare Sebald con un sentire arcano e necromantico che si fonda su una «stranissima superstizione», per la quale si ha credenza «in un regno di ombre che dilaga fin nel pieno giorno», e di cui una traccia si troverebbe in quei «cacciatori onirici», in quegli «acciatori» che, secondo la tradizione popolare, avrebbero avuto l’abitudine di uscire di casa nottetempo, lasciando il proprio corpo. Un nottambulismo dissociativo il loro – fa osservare Sebald, invitando il lettore a farsi avvincere da echi ed analogie della memoria culturale – che richiamerebbe alla mente lo sguardo del narratore nabokoviano: il suo levitare a mezz’aria, come se appartenesse a certi esseri effimeri, diafani, in bilico fra il mondo dell’aldilà e la vita, e che trascorrono un’esistenza postuma, extra-territoriale, simili al cacciatore Gracco tratteggiato da Kafka e ricordato da Sebald in Vertigini, e ai quali possono paragonarsi certe figure che, perduta ogni nitidezza, baluginano fuori da una «fragile striscia di celluloide», confuse ai margini e picchiettate di chiazze nere.

 

Viene alla memoria una pagina di Austerlitz, dei romanzi di Sebald forse il più riuscito, in cui questo mondo di sonnambuli impresso su pellicola permette al protagonista, a forza di riavvolgere e far scorrere la bobbina, di scorgere, nel bel mezzo dei fotogrammi, un’immagine, quella della madre deportata a Theresienstadt, estranea e familiare come tutto ciò che può definirsi “fantomatico”. È proprio del fantasma infatti girare attorno a coloro che non sono ancora trapassati, dissolvendosi davanti agli occhi in immagini senza peso. Lo testimonia – ricorda Sebald in uno dei saggi ora pubblicati – una singolare esperienza capitata a Kafka: assistendo, nel 1913, alla proiezione di “Der Andere”, un film di Max Mack con Albert Bassermann, egli era rimasto a tal punto suggestionato da cadere vittima della perdita d’ogni senso di realtà, in un delirio quasi paranoico che l’aveva condotto a sentirsi ossessionato da quello che gli sembrava essere il suo sosia. «E poiché la riproduzione continuava a esistere anche quando l’oggetto riprodotto era già scomparso da un pezzo, ecco affacciarsi lo sgradevole sospetto ch’egli godesse di un grado di autenticità decisamente inferiore rispetto a quello posseduto dalla copia».

 

La perdita di qualsiasi logica rassicurante, di cui Kafka ha denunciato per primo la gravità sul piano esistenziale, sebbene egli già ne presentisse i riverberi anche sul piano storico, si troverebbe, per Sebald, ad essere conclamata da quelle esperienze maturate negli anni del delirio nazista, nelle quali, come comproverebbe la figura di Jean Améry, si sarebbe prodotta una dislocazione dell’uomo anche sul piano temporale, con la conseguenza che gli unici punti fissi sarebbero diventate le scene traumatiche che sotto forma di immagine o di ricordo sarebbero tornate di volta in volta a presentarsi sotto la foggia di un genere letterario, quello del saggio, in grado di conciliare «sia le emozioni mutilate di un soggetto in punto di morte sia la sovranità di un intelletto votato alla libertà di pensiero».

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In questa definizione sembra compendiarsi il senso dell’economia di scrittura nella quale Sebald più perspicuamente si riflette. Egli tuttavia anche per ragioni anagrafiche non tematizza mai dall’interno le “sentenze di morte” emesse dalla Storia come ebbero invece a fare scrittori da lui studiati e commentati come Primo Levi, Paul Celan e lo stesso Jean Améry. Il suo saggismo, come una volta ancora mostrano i testi ricompresi in Tessiture di sogno, preferisce librarsi fino a raggiungere «una grande altezza», e rendersi così conto «di quanto poco sappiamo della nostra specie, del nostro scopo e della nostra fine».

 

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Simile all’aeronauta Giannozzo narrato dall’amato Jean Paul, Sebald suole girare il suo sguardo all’impazzata, come a voler secondare le correnti di un vortice dalle quali il passato è ridotto ad una serie di ricordi nei quali i morti, i vivi e i non ancora nati si ritrovano insieme sullo stesso piano, mentre tutt’intorno si compie l’«arcano illanguidirsi d’un mondo / in cui la sera, che calava spettrale, / si riversò in pieno giorno come un deliquio».

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