Il poeta Charles Simic durante una conferenza nel 2008 (Getty Images)

Inherent Vice

Charles Simic viaggia nel culto dell'esperienza con "No Land in Sight"

Alberto Fraccacreta

Il poeta americano pubblica una nuova opera all'età di 84 anni. È la ventottesima raccolta, ma è nata come tutte le precedenti: "senza alcuna premeditazione, scarabocchiando qualcosa ogni giorno. E molte persone non si accorgono della sofferenza da cui sono circondate"

Le trame sgranate e dure delle poesie di Charles Simic assomigliano ai sentieri serpeggianti delle foreste di latifoglie che circondano Strafford nel New Hampshire. Non è un caso che nell’ultima silloge, No Land in Sight, in uscita a fine luglio per Knopf (pp. 96, $ 28.00), la presenza del mondo vegetale sia alquanto cospicua. Benevolo, se non squisito come sempre, il poeta classe ’38 dalla sua azzurra dimora ci ha concesso in anteprima un’indiscreta sfogliata dei settantuno testi divisi in quattro sezioni, preceduti dalla consueta, romanticissima dedica: “For Helen”

 

Cosa vediamo annidarsi e crescere negli aceri scarlatti di No Land in Sight? Iniziamo dal titolo. “Proviene dalla lirica finale del libro – confessa l’autore dal suo rovente smartphone – che consta di soli quattro versi. Non ricordo a cosa stessi pensando quando l’ho composta, ma sicuramente aveva a che fare con il mio essere un vecchietto sull’ottantina che cerca di immaginare il suo futuro”. Nessuna terra in vista, dunque: la spinta del “vento”, agente fondamentale in quest’opera assieme alla “pioggia” e alla “notte” (che registra quindici presenze), sembra esaurire la sua forza propulsiva. Eppure, il lavorio interiore di Simic appare più agguerrito che mai. “No Land in Sight è la mia ventottesima raccolta – prosegue – ed è nata come tutte le precedenti, senza alcuna premeditazione. Scarabocchio qualcosa quasi ogni giorno e dopo un paio di anni mi rendo conto che potrei avere una silloge tra le mie carte”.

 

La poetic diction di Simic, ellittica e sardonica, è saldamente centrata sul “culto dell’esperienza” della letteratura americana, da Emerson a Whitman: il vero è ravvisabile a partire dal proprio itinerario psichico e la natura esterna assume il carattere di un antropomorfismo percettivo; gli oggetti parlano, gesticolano, dichiarano la loro patibolare partecipazione alla nostra esistenza, ne sono una protesi inquietante. Basta leggere poesie come Left Out of the Bible, I Watched the Wind o Windy Day: “Due paia di mutande. / Una bianca e l’altra rosa / ondeggiavano su e giù / sul filo del bucato / informando il mondo intero / di essere pazzamente innamorate”. L’aspro surrealismo delle scene quotidiane rimanda a una sorta di duello con la trascendenza, in bilico tra incredulità e apertura. “Se c’è un’inquietudine metafisica nel libro? In parte. Insonne per tutta la vita, provo spesso a immaginare che tipo di pensieri saltano nella testa degli insonni. Quanto a Dio, che ho incluso in Dear Lord, è lì di passaggio. I miei antenati per secoli sono stati sacerdoti ortodossi in una cittadina della Serbia...”.

 


Questa è l’undicesima puntata della rubrica Inherent Vice. Come prescrive il diritto marittimo, il “vizio intrinseco” è tutto ciò che non è possibile evitare. Potrebbe essere anche una visione specifica, una chiave di accesso della letteratura americana, a cui questa rubrica è dedicata. 


 

Il risvolto di copertina di No Land in Sight, disponibile nel sito di Penguin Random House, offre un’interessante dittologia ossimorica: “Umorismo nero e tenerezza”. Del dark humor siamo a conoscenza sin dai tempi de Il mondo non finisce (Donzelli, 2001) e Club Midnight (Adelphi, 2008), è un po’ il mantra della scrittura di Simic. Ma in cosa consiste esattamente la tenderheartedness? “Non capisco le persone – commenta ancora il poeta – che non si accorgono mai della sofferenza da cui sono circondate, a cominciare dalle migliaia di senzatetto che vagano per le nostre città e dai loro cani malaticci, fedeli compagni nella povertà. Anche un verme morente o una formica che qualcuno ha calpestato merita la nostra pietà”. 

 

Fra i vari riconoscimenti ricevuti per la sua opera – una delle più fulgide nella vasta costellazione americana – figura la Frost Medal alla carriera nel 2011. Pungolato sull’argomento Robert Frost, di cui recentemente Adelphi ha dato alle stampe una nuova traduzione, Simic ha rivelato: “Non ho mai scritto di lui, anche se per anni ho insegnato la sua poesia nelle mie classi. Un grande autore che non viene più letto nelle nostre scuole e non facile da tradurre, immagino. In gioventù, prima di trasferirsi nel Vermont, ha vissuto con la sua famiglia due ore a nord da noi, a Franconia in New Hampshire, in una casa che è tuttora molto isolata e dove ho dormito una notte parecchi anni fa”. Forse in quella notte memoranda qualche cagnolino sperso ha guaito di lontano, mentre languiva il focolare e infuriava la bufera... 

   

Assorto in una tessitura lessicale da modernismo middlebrow, imprigionato nell’affiorare di immagini a favore dello steineriano “ritrarsi della parola”, Simic ci dà ancora una volta testimonianza della sua suprema capacità di straniare una situazione a prima vista ordinaria: soggettivista e oggettivista insieme, ci ricorda con insuperata icasticità che ogni cosa, nella sua illusione pareidolitica, indica la presenza dell’autocoscienza e del cogito umano, persino “una sveglia / senza lancette / che ticchetta sonoramente / nella discarica cittadina”.