dalla dacia all'ucraina
La Colonna Traiana, capolavoro di propaganda
Il monumento che Traiano volle costruire per celebrare la sua vittoria in Dacia è per molti versi ancora un rebus. Ma anche una formidabile lezione per i potenti di tutti i tempi: la guerra si racconta così. A partire dal non mostrare le proprie perdite. Legionari romani uccisi non ne troverete
Prima regola: non si parla mai delle perdite subite dal proprio esercito, ma solo di quelle subite dal nemico. Secondo: quel che si guadagna con la guerra fa passare in secondo piano, anzi eclissa il costo, le perdite, gli svantaggi. Terzo: la fermezza, la severità della punizione inflitta all’avversario crea più consenso della moderazione, la quale potrebbe essere intesa come debolezza: la ferocia paga molto più della clemenza. Quarto: la leadership si misura nella capacità di farsi valere, di organizzare la vittoria e il dopo vittoria, di affermare la propria superiorità tecnologica, ed economica, piuttosto che solo in una sfilza di successi militari. Agli occhi dell’opinione pubblica interna conta il rapporto costo/benefici. E’ fondamentale che il leader riesca a dimostrare che saranno gli altri a pagare, non i contribuenti. Sono i princìpi che ispirano uno dei più splendidi capolavori di propaganda di guerra di tutti i tempi: la Colonna traiana, nel cuore di Roma. Illustra le due spedizioni, quattro campagne militari, con cui, dal 101 al 106, il Princeps optimus conquistò la Dacia, tra Pannonia e Mar Nero, giusto accanto all’Ucraina. Sono gli stessi princìpi, mutatis mutandis, che ispirano, quasi un paio di millenni dopo, la propaganda del Cremlino (e a ben vedere pure quella della parte opposta).
C’è chi ha definito la Colonna come la prima rivista illustrata accessibile al largo pubblico, anche quello che non fosse in grado di leggere. Come il primo fotoromanzo, il primo rotocalco, anzi “Rotocalco di pietra” (per riprendere il titolo di un bel saggio di Lino Rossi). Qualcuno l’ha descritto come il primo fumetto a strisce. Altri lo vedono piuttosto come un film, la prima realizzazione di un piano-sequenza, della tecnica filmica che consiste nell’accompagnare l’azione dal principio alla fine, senza interruzioni. Un kolossal di propaganda all’altezza dei film di Hollywood durante la Seconda guerra mondiale, che ebbero un ruolo decisivo nel motivare e vincere la guerra. Era in technicolor: è accertato che il monumento non era in marmo più o meno biancastro, in bianco e nero slavato come ci appare oggi, ma dipinto in colori vivacissimi. Dalle tracce si è risaliti ai pigmenti utilizzati. Già negli anni 70 Ranuccio Bianchi Bandinelli aveva fatto ricostruire da un pittore, nel corso di una trasmissione tv, i probabili colori originali. A rinforzare gli effetti speciali le figure dei bassorilievi in marmo impugnavano luccicanti lance e spade di bronzo, ormai scomparse.
Tra le oltre 2.500 figure della rappresentazione delle guerre daciche di Traiano, che si srotola come fosse un gigantesco rotolo di pergamena, a spirale, dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra, quasi non figurano caduti che indossino la lorica segmentata, la classica uniforme a strisce dei legionari romani. Sono solo un paio i soldati romani feriti, che vengono assistiti e medicati per lo stato di shock o le ferite riportate. E’ una rappresentazione dell’efficienza del soccorso medico sul campo. Esattamente come le televisioni di Mosca, sin dall’inizio dell’operazione speciale in Ucraina, hanno preferito non dare notizia delle perdite russe. Del resto pure le libere televisioni americane, che non si facevano intimidire dalla censura, non mostravano quasi mai il ritorno delle salme dei caduti in Vietnam o in Iraq.
L’eroico soldato romano non può essere sconfitto. Quindi non muore. Nemmeno in battaglia. A cadere semmai è qualche “ausiliario”, distinguibile dagli scudi rotondi, diversi da quelli rettangolari dei legionari, qualche recluta indigena, o qualche selvaggio alleato germanico, che combatte a torso nudo, chiome al vento, magari con una gigantesca clava anziché col gladio di ordinanza. I mucchi di cadaveri, quasi manichini disarticolati, sono sempre quelli dei nemici, dei daci o dei loro alleati. Sono sempre, immancabilmente, i daci a venir trafitti, decapitati, calpestati dagli zoccoli dei cavalli, sbalzati dalle mura o cascati dai dirupi. Sono sempre i daci, e non i romani a cadere e cercare di rialzarsi in mezzo ai loro commilitoni.
Ci sono anche spoglie di donne, di vecchi e bambini, di civili massacrati. Gli studiosi non sono concordi su chi siano, e da quale delle due parti siano stati uccisi. Potrebbe trattarsi di rappresaglie dei daci sulle popolazioni che collaborano con i Romani. Ma anche, indifferentemente, di vittime delle violenze e dei saccheggi perpetrati dagli invasori romani, o, appena un po’ meno imbarazzante, dai loro alleati, meno “civili” per definizione. Almeno un’immagine, CXIX- CXX, si ritiene rappresenti il suicidio collettivo, col veleno, dei daci che non vogliono cadere in mano ai conquistatori (ma, secondo altre interpretazioni, potrebbe trattarsi di un rito religioso, o di celebrazioni per la “liberazione” da parte dei Romani).
Una parte e l’altra aveva i propri alleati e i propri mercenari. Traiano, il primo imperatore “straniero” (era nato in Spagna), era coadiuvato, nella spedizione dacia, dalla cavalleria maura, dalle lunghe trecce e montata senza sella, da frombolieri delle Baleari, da giganteschi germani reclutati in Svevia, da tagliagole siriani, da arcieri e altri tipi orientali o caucasici. Sono tutti ritratti nella Colonna, con accurata descrizione della loro foggia di abbigliamento, della loro capigliatura e dei loro copricapi, delle loro armi. Così come sono ritratti i daci, divisi per classi: i comati, a capo nudo e barba incolta, popolo minuto, soldati semplici e contadini che non vedono l’ora di tornare alle proprie occupazioni pacifiche, e i pileati, dal caratteristico copricapo di feltro, i nobili che si parlottano all’orecchio e cospirano la sollevazione contro i romani. E così come si distinguono gli alleati dei daci, in particolare i cavalieri roxolani, provenienti dalle steppe di quella che è oggi l’Ucraina, coperti dalla testa ai piedi, loro e i loro cavalli, da pesanti armature a squame.
C’è chi ha notato che, in un’opera che vorrebbe celebrare un fatto di guerra, le scene di combattimento non sono affatto prevalenti. Il maggiore spazio viene dato alla diplomazia, ai pourpalers con delegazioni di daci che trattano, supplicano, si sottomettono, o vengono convinti ad affiancare i romani contro i loro connazionali. Ancora più spazio è dedicato alle opere di ingegneria – i ponti su cui le legioni attraversano il Danubio, alle opere viarie, alla logistica, ai lavori di disboscamento e di costruzione di strade, vennero scavati canali, si intagliò nella roccia viva delle Porte di ferro un sentiero che probabilmente serviva a trainare sul Danubio i barconi carichi di approvvigionamenti per l’esercito. Come molti altri imperatori, a cominciare da Ottaviano Augusto, Traiano vuole passare ai posteri come costruttore, prima che come guerriero.
In almeno un caso sono i romani, non i loro più sfrenati alleati, che trascinano via donne dacie fatte prigioniere. Particolarmente atroce è la figura di un bambino ucciso e mutilato, riverso a pancia in giù sulla ruota di un carro. Una mamma, con un altro infante in braccio, cerca di proteggerlo da un soldato che si sta arrampicando sul carro. Il carro potrebbe indicare che si tratta di profughi civili, presi in mezzo. Sarebbe però anacronistico considerarlo come denuncia degli orrori della guerra. Il pubblico dell’antica Roma, a cui l’opera era destinata, non si commuove affatto, non ha état d’âme riguardo le atrocità.
Gli preme di più che il tutto venga pagato con il bottino, non a danno delle tasse. C’è tra gli storici chi fa notare che le guerre daciche nascono dalla fame di oro di cui si riteneva la Dacia fosse ricca. Traiano avrebbe garantito che le grandi opere a Roma, Colonna compresa, erano finanziate esclusivamente con le risorse rapinate in Dacia, non costavano un denarius ai cittadini.
Nella lastra XXIX dei cavalieri appiccano il fuoco a un villaggio. Gli uomini validi vengono uccisi, vecchi e bambini cercano scampo nella fuga, il bestiame giace massacrato a mucchi. Le donne coi loro figli vengono imbarcate per essere deportate verso l’altra riva del Danubio. Qui compare Traiano in persona, che fa un gesto con la mano tesa, forse un saluto, forse un ordine ad una donna dacia, con un bimbo piccolo in braccio. Nessuno la tocca. C’è chi ha ipotizzato che si tratti della sorella del re Decebalo, divenuta ostaggio. In altre scene, i prigionieri vengono immobilizzati e trascinati davanti al Principe, visibilmente adirato, in modo violento (CXLV). In una delle ultime scene (CXLVI), quando il nemico di Traiano, il re dei daci Decebalo, è stato definitivamente sconfitto, e si è tagliato la gola per non cadere prigioniero, fra i daci catturati o uccisi passano due fanciulli, forse principi reali, trascinati dagli ausiliari, forse alla loro morte. Clemenza prima e violenza dopo che i daci si sono sollevati per la seconda volta?
Molte e discordanti sono le interpretazione della scena (lastra XLVI) in cui un gruppo di donne tortura con fiaccole infiammate e punte acuminate due prigionieri nudi, con le mani legate dietro la schiena. Secondo alcuni si tratterebbe di prigionieri romani, sottoposti a sevizie da donne dacie, per ottenere informazioni o per vendicare l’uccisione di propri cari. Se si vuole escludere che, in un’opera destinata alla propaganda di parte romana, il senso dell’onore di un soldato romano possa avergli fatto commettere atrocità, potrebbe trattarsi di vendetta nei confronti di due ausiliari. Secondo un’altra interpretazione, potrebbe trattarsi di daci linciati da donne di alleati dei Romani, per vendicarsi delle atrocità subite dalla loro gente. Altri ancora hanno individuato una simmetria tra questa immagine e la vignetta XLII in cui si vedono prigionieri daci stipati dentro un recinto murato, guardato da una sentinella romana ritratta di spalle. E’ sì un campo di concentramento. Ma non è Abu Ghraib. I prigionieri vengono trattati dignitosamente. Contrariamente al linciaggio, per giunta per mano di donne, quindi particolarmente disonorevole, cui altri prigionieri non identificati vengono sottoposti nella vignetta quasi simmetrica. E’ il tipo di vendetta di popolo cui qualcuno avrebbe voluto sottoporre i superstiti del battaglione Azov arresisi a Mariupol?
Abbondano nel racconto le teste mozze. Non sono teste di romani. Sono teste di daci. Vengono presentate da ausiliari a Traiano, in attesa probabilmente di un premio. In una scena un ausiliario stringe addirittura tra i denti, per i capelli, la testa mozza di un nemico e continua a lanciarsi all’assalto. In un’altra un soldato continua a tenere in mano la testa mozzata a uno dei difensori, mentre continua a scalare le mura di una città dacia assediata. Evidentemente non vuole rinunciare al premio. Altre teste, scarnificate, sono issate su picche sugli spalti di un’altra città dacia. Queste potrebbero essere di romani fatti prigionieri in precedenza. Ma anche trofei innalzati dai conquistatori. Se a chi si arrendeva veniva risparmiata la vita era uso tagliargli mani o piedi per dare l’esempio. L’aveva fatto anche Giulio Cesare, ai galli difensori di Uxellodunum, già superstiti della disfatta ad Alesia, per punirli della resistenza a oltranza. Lasciandoli poi liberi a “meglio testimoniare la pena dei reprobi”. Irzio, che racconta l’episodio, sostiene che la mitezza di Cesare era troppo notoria perché avesse da temere di essere accusato di crudeltà. A Traiano probabilmente di poter essere accusato di crudeltà importava meno ancora. La sua constituency a Roma gli chiedeva ben altro. Certo non avrebbe obiettato, anzi avrebbe applaudito al supplizio dei prigionieri daci nel grande anfiteatro Flavio, che più comunemente chiamiamo Colosseo.
La Colonna è per molti versi ancora un rebus. L’unica certezza è che niente è affidato al caso, o alla sola fantasia del maestro esecutore. La propaganda di guerra veniva meticolosamente indirizzata con direttive dell’imperatore. Raccontava quel che gli faceva comodo, e poteva servirgli per giustificare le sue scelte politiche, vantare i successi militari, consolidare il consenso interno. Il personaggio principale è l’imperatore stesso, figura centrale in oltre una cinquantina di scene, rappresentato mentre pianifica la spedizione con i suoi luogotenenti, conciona le truppe, guida gli assalti, sopravvede ai lavori, riceve ambasciatori e supplicanti, dispone dei prigionieri. Cesare Traiano è il capo assoluto, comanda da solo. Come tutti i Cesari, Kaiser, Zar.
Si tratta di un monumento ad personam, che faceva parte di un immenso complesso, il Foro di Traiano, del quale sono rimasti i Mercati, le fondamenta, e poco altro. La colonna era, si ritiene, nel cortile di un grande edificio, con due biblioteche, da una parte e dall’altra. Le si ricostruisse, forse non basterebbero ad ospitare tutto quello che si è scritto sulla Colonna. Innumerevoli anche le immagini, dai calchi che fece fare Napoleone III alla ricognizione compiuta quando, all’inizio della Seconda guerra mondiale, il monumento fu coperto per metterlo in sicurezza, al recentissimo Atlante fotografico della Colonna traiana pubblicato da Gangemi. Chi scrive non è riuscito a visionarlo, queste righe fanno riferimento alla splendida edizione Einaudi del 1988, con le sue foto a colori, magistralmente commentate da Salvatore Settis e Adriano La Regina. Mi sono sempre chiesto come facesse il pubblico a guardare le scene scolpite. Dal basso non si vede quasi niente. Un’ipotesi è che potesse guardarle dai piani alti delle biblioteche. Non temessi il linciaggio, proporrei di ripristinare una struttura, magari trasparente, che consenta la visione originaria. In queste biblioteche veniva conservato il testo delle Guerre daciche che Traiano aveva scritto alla maniera del De bello gallico di Giulio Cesare. E’ andato perduto, a eccezione di pochissimi frammenti. E’ come se dell’Iliade ci fossero rimaste le illustrazioni e basta.
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