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Il Foglio Weekend

Col caso von Bülow nasceva il processo con rito glamour

Michele Masneri

Quarant'anni prima di Heard contro Depp, il processo che diventò un film da oscar

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Era il 1982, l’Italia segnava, in Russia moriva Breznev, alle Falkland la Thatcher giocava alla guerra, Amber Heard non era ancora nata, Johnny Depp aveva diciannove anni, e a Newport, Rhode Island, andava in scena quello che sarebbe diventato il primo processo-glamour della storia contemporanea. Sì, c’erano stati i grandi processi di guerra, il caso Rosenberg, e poi negli anni Settanta il processo a Charles Manson e quello all’ereditiera svalvolata Patty Hearst, ma adesso si aprivano gli Ottanta, in tv andavano “Dallas” e “Dynasty”, e l’America aveva il suo primo grande processo-spettacolo che spalancava la visuale sulle classi abbienti: il caso von Bülow

 

La faccenda era perfetta per i nuovi tempi: un (finto) conte tedesco era accusato di aver assassinato, o almeno mandato in coma, la vera e celebre milionaria moglie americana Sunny, titillandole dell’insulina, per appropriarsi dell’eredità. Un caso che per chi oggi ha quarant’anni risuona assai, dato che la storia del “mistero von Bülow” finì dritta dritta nel celebre film che fruttò un Oscar a Jeremy Irons per l’interpretazione di quel signore algido. Il processo, nella realtà, fu uno di quei colossal che mandò in estasi i giornali quando ancora i giornali tiravano e vinceva chi aveva gli avvocati migliori e non i meme più virali. 

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L’avvocato in questione fu Alan Dershowitz, che fino ad allora era stato soprattutto un esimio cattedratico-prodige, nato povero a Brooklyn, poi scuola talmudica, poi Yale, dove diventa il primo del suo corso, professore associato a 25 anni, ordinario a 28. Ma dal caso von Bülow diventerà invece l’avvocato delle star, o “del diavolo”, facendo uscire e/o assistendo in seguito O. J. Simpson, Mike Tyson, Julian Assange, Harvey Weinstein. 

 

Ma il protagonista era lui, Claus von Bülow, nato Claus Cecil Borberg l’11 agosto 1926 a Copenhagen da Jonna e Svend Borberg. L’esperienza più significativa della sua infanzia era stata fare da paggetto al matrimonio di Hermann Göring, essendo suo padre un fervente nazista, che dopo la guerra fu processato e condannato. Il piccolo Borberg pensò bene allora di prendere il cognome della madre, Bülow, che lo ricollegava anche a un vecchio ministro della giustizia danese. Il “von” se lo attaccò poi in seguito, ma qui non è il caso di guardare al dettaglio. Va poi a Cambridge dove si laurea in legge, ma il suo vero lavoro è conquistarsi una posizione nel jet set internazionale. Con sua madre comprano una enorme casa a Chelsea, a Londra, famosa per “ospitare fino a duecento persone per mangiare e a fatica tre per dormire”. La casa viene usata anche come bisca clandestina, e a Londra il piccolo Bülow fa una specie di apprendistato immorale: amico di un certo lord Lucan, che assassinò la nanny dei suoi figli pensando che fosse sua moglie; ebbe una breve storia con Ann Woodward, una delle protagonisti di “Preghiere esaudite”, quella della magnifica storia di lei che uccide a fucilate il marito ma che viene assolta data la potenza della famiglia (Capote mette la storia pari pari nel libro, cambiando solo il nome, e lei, la vera lei, si suicida).

 

Poi incontra J. P. Getty riuscendo ad affascinarlo talmente da diventare suo assistente; siccome Getty notoriamente odiava viaggiare l’aveva nominato una specie di ambasciatore (ma qualcuno sostiene che il suo vero ruolo fosse di trovargli delle ragazze). Ma nel ’63 incontra Martha “Sunny” Crawford, anche lei principessa un po’ finta e personaggio in cerca d’autore. Aveva infatti sposato in prime nozze un Alfie von Auersperg, principe austriaco completamente impoverito, che lavorava come maestro di tennis a Sankt Moritz, e con lui aveva prodotto due figli, Anne-Laurie (Ama) e Alexander. Poi, non potendone più di cacce grosse in Africa e di balli in lederhosen a Monaco dove avevano preso la residenza, l’aveva liquidato ed era tornata nella magione al 960 di Fifth Avenue, dove la sua vita consisteva in una routine di shopping-pasticche-shopping-dieta-sigarette-shopping come si vide poi nella magistrale interpretazione di Glenn Close, con una pettinatura molto Marella Agnelli.

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Martha “Sunny” Crawford, così vezzeggiata per il carattere solare, non era solare per niente nonostante la fortuna ereditata dal padre: era nata nel 1932 sul treno personale di papà, che si dirigeva a tutta velocità dalla Virginia a New York (infatti il primo soprannome fu “choo-choo”). Era figlia unica di George Washington Crawford, magnate del gas, e della terribile Annie Laurie Warmack, figlia di un tycoon delle scarpe (si sposarono quando lui aveva 66 anni e lei 27). Fu trovata senza sensi il 21 dicembre del 1980 nel suo bagno di Clarendon House, la colossale tenuta di famiglia a Newport; ma era solo il terzo ricovero; già era finita a terra nel Natale 1979 e poi nell’aprile 1980, per un misto di alcol e pasticche. Da quell’ultima volta però non si riprese più, e lì i figli coadiuvati dalla micidiale tata tedesca Maria Schrallhammer già a servizio dai Krupp assoldarono un investigatore privato, e denunciarono Bülow. Perché nel frattempo si parlava di divorzio: lui aveva diverse amanti, cosa che naturalmente era ammessa nel loro matrimonio, anche se questa volta la faccenda era più grave, perché invece che sollazzarsi con donnine, lui si era invaghito di una del loro ambiente, Alexandra Isles, figlia di un nobile danese e sposata a un erede Lehman. Soprattutto, la cosa intollerabile era che lui si volesse rimettere a lavorare, fatto che gettò la moglie in uno stato di panico. Figli e tata accusarono il marito di aver procurato il muliebre coma tramite una iniezione di insulina – fu trovata la pistola anzi l’iniezione fumante, e in primo grado la corte del Rhode Island condannò l’altero Bülow a trent’anni. 

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Del resto lui era l’assassino perfetto: sprezzante, straniero, snob; uscì su cauzione – di un milione di dollari – e non ebbe mai parole di grande dispiacere per l’incresciosa situazione.  Diceva cose come “l’aristocrazia non vale più niente in questo paese. Ormai bisogna essere degli assassini per contare qualcosa; solo da quando mi hanno condannato finalmente mi danno i tavoli migliori al ristorante”.  A Andy Warhol: “Grazie per essere stato gentile con me anche quando non ero ancora una star”. Alexandra Isles, la sua amante, pensò bene di testimoniare contro di lui al processo. Nacquero leggende: che lui da ragazzo avesse assassinato anche sua madre, nascondendone il cadavere per mesi. Che fosse necrofilo (“ma questa è una storia che si inventarono Gianni Agnelli e Dado Ruspoli a Capri nel ’48”, dirà lui).

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Fece appello, e si rivolse a Dershowitz, allora stella in ascesa alle prese con cause difficili e umanitarie – al momento stava difendendo i fratelli Johnson, due ragazzini di colore condannati a morte poiché avevano aiutato il loro padre a evadere da un carcere federale uccidendo una guardia. “Un uomo ricco alla sbarra è molto diverso da un uomo povero alla sbarra”, scrisse Dominick Dunne in un leggendario reportage sul Vanity Fair americano, con foto di Helmut Newton – che tempi – che ritraevano il conte assassino in  chiodo di pelle nera. La citazione era ovvia, era Fitzgerald, che dopotutto aveva ambientato il suo “Gatsby” lì vicino. Dunne scrisse che il rapporto tra difesa e accusa nel caso von Bülow sembrava un match tra i New York Jets e la piccola squadra locale dei Providence High. I costi della difesa ammontarono a un milione di dollari (di quarant’anni fa). Dershowitz era affiancato da altri tre legali. E Bülow assunse anche uno stenografo personale, perché sosteneva che quello del tribunale non andava abbastanza veloce.

 

Non si sapeva chi pagasse tutto quel denaro, poiché l’imputato “valeva” solo 120 mila dollari l’anno, che era la sua paghetta da parte della moglie. Forse  Andrea Reynolds, l’appariscente socialite che gli scrisse una lettera da ammiratrice (“credo che lei sia innocente!”) e divenne la sua nuova amante (nel film, la meravigliosa Christine Baranski);  era già stata sposata tre volte ma probabilmente puntava alle nozze col conte-assassino per una consacrazione mediatica-sociale finale. 

 

La Cnn  – che negli articoli del tempo viene chiamata “Cable News Network” perché è appena nata – mandò in onda 70 ore di diretta, una cosa mai avvenuta prima. Sfilarono personaggi dell’alta società come C. Z. Guest e Joanna Carson nel piccolo tribunale di Newport.  Hotel e motel locali  tutti presi d’assalto da reporter e testimoni.  Lo scrittore William Wright che poi scriverà il libro “L’affare von Bülow”, e che metteva in discussione l’originalità di quel “von”, viene improvvisamente convocato una mattina alle nove dall’imputato: per dimostrare la propria innocenza? No, era finalmente riuscito a farsi spedire a Newport i gialli volumi del Gotha, da dove si poteva capire oltre ogni ragionevole dubbio che dei von Bülow erano in circolazione in Europa dal sedicesimo secolo…

 

Wright, nel suo libro, descrive Sunny von Bülow come terrorizzata dalla mondanità, per cui monta inviti, poi disdice, poi ne accetta altri, poi va in panico, per cui giù altre pasticche. Due manie sopra le altre: nessuno deve in nessun caso leggere i suoi libri (che spesso sono di esoterismo, o ginnastica) e nessuno in nessun caso deve entrare nel suo bagno; da qui anche l’accusa al marito di non intervenire prontamente ogni volta che lei finisce riversa dopo le scorpacciate di farmaci. Lei fuma una sigaretta dietro l’altra e non mangia mai niente, a casa avevano uno chef che era stato quello di De Gaulle all’Eliseo, ma lei preferisce svaligiare il frigorifero di notte, quindi lui si stufò e se ne andò.

 

Come il processo Depp/Heard oggi, anche quello von Bülow mostra soprattutto il ménage di due soggetti che avrebbero bisogno d’aiuto entrambi.  Una delle testimonianze che contribuì a scagionare Bülow fu quella di Truman Capote: lo scrittore di “A sangue freddo” e “Colazione da Tiffany” smontò  l’immagine che si aveva della  Bülow come di moglie annoiata e impasticcata, portandola a livello invece di tossicona grave, che si faceva iniezioni di qualunque cosa, disse Capote. Raccontò dei loro lunch in cui bevevano sei Manhattan a testa e soprattutto di quando lei gli insegnò a farsi le iniezioni di qualunque cosa (“puoi fartele nell’anca, Truman, oppure nel braccio, ecco, sì, bravo, così”). Lei prediligeva quelle con l’antidolorifico Demerol mixato con anfetamina, che producevano “la più piacevole, rilassante esperienza che si possa mai avere”. Te credo.

 

L’appello, secondo le leggi del Rhode Island, poteva riguardare solo questioni procedurali: la polizia non aveva il mandato per analizzare le sostanze trovate a casa von Bülow; e l’investigatore privato della famiglia aveva condotto tutta una sua indagine senza dare le carte alla difesa. Ma la verità processuale che ne venne fuori è che la povera Sunny era troppo tossica e troppo infelice per andare avanti, e l’amante di lui Alexandra Isles si era premurata di restituirgli tutte le lettere d’amore,  in busta aperta, in modo che la moglie le leggesse, cosa che lei fece, il giorno dell’ultimo coma. E forse lui avendola già salvata un paio di volte nei suoi overdose natalizi o primaverili quella volta lasciò correre. 

 

Nel suo libro Wright racconta che per placare le dame della buona società di Newport e New York, Sunny desse il numero minimo di party necessari, impasticcata e dolente. E si era imparata anche una specie di sceneggiatura con cui guidava gli ospiti nel giro della casa, con i quadri da sottolineare e le battute da dire. Klaus però sfavillante guidava un altro gruppo di invitati e quando i due gruppi si incontravano, lui le rubava anche il suo, lasciandola balbettante in un angolo, e cominciando a dire: ah, questo quadro glie l’ho regalato io per Natale, questo mobile due anni fa, eccetera. Non era quasi mai vero. 

 

A un certo punto il marito non si sa se per gentilezza o per sublime crudeltà aveva messo in giro la notizia che lei voleva solo dei conversatori brillanti e intelligenti seduti accanto, per cui tra New York e Newport fu tutto un ricercare le menti più brillanti da sederle accanto, da sir Kenneth Clark, storico dell’arte, al conversatore mondano Barclay Douglas che si vantava di saper sostenere qualsiasi conversazione, “dalla poesia elisabettiana al sesso contemporaneo”, ma non ci fu verso, si arrese anche lui. 

 
Dershowitz nel suo libro “Reversal of Fortune: Inside the Von Bülow Case”, da cui poi fu tratto il film diretto da Barbet Schroeder, racconta invece come dopo l’assoluzione Bülow tenne una specie di party dove era presente anche Norman Mailer che, sentito il discorso sull’innocenza di Bülow, proclamato dal suo difensore, disse alla moglie: “Andiamocene di qui. Il tizio è davvero innocente. Pensavo di andare a una cena con un vero assassino. Tutto ciò è troppo noioso”.  Poi la famiglia fece una causa civile a Bülow ma si accordarono:  lui rinunciò a tutto, abbandonò per sempre l’America e non parlò mai più di questa storia; in cambio  la figlia Cosima, l’unica in comune con Sunny, riebbe la sua quota ereditaria.

 

Sunny von Bülow continuò a vegetare per altri venticinque anni nel suo letto d’ospedale del costo di 725 dollari al giorno fino alla morte nel 2008 (in realtà meno vegetale di come sembra nel film), protetta da guardie del corpo.  La figlia Ala oggi ha sessant’anni e ha una linea di abbigliamento e una figlia che ha chiamato Sunny; insieme al fratello Alex hanno fondato un’associazione per le vittime di omicidio.  Claus von Bülow è morto a Londra nel 2019 a novantadue anni. Cosima ha sposato un italiano, e vivono a Londra.

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