Abraham Yehoshua alla Milanesiana 2008 al Teatro Dal Verme (foto Vittorio Zunino Celotto/Getty Images) 

Yehoshua fu il “padre” del muro di separazione su cui sacrificò il suo umanesimo ebraico

Giulio Meotti

Il grande scrittore scomparso a 85 anni per cui essere israeliano era una pelle e non una giacca

Con Abraham Yehoshua, autore imponente fra i simboli della moderna letteratura israeliana, se ne va un pugnace umanista, un convinto sostenitore del sionismo come unica risposta alla condizione ebraica. La moglie Rivka, psicoanalista, lo aveva preceduto sei anni fa. “Davanti alle foreste”, uscito nel 1968, all’apice dell’euforia post Guerra dei sei giorni, è ancora oggi ampiamente considerato come l’esplorazione più avvincente della questione palestinese nella letteratura ebraica. Yehoshua aveva un rapporto complicato con Gerusalemme, poco da agiografia, tanto da spingerlo a vivere sempre a Haifa: “Un po’ città, un po’ rovine, con il suo dolore e nella sua distruzione permanente, a Gerusalemme per quanto ci costruiscano rimarrà sempre il ricordo della distruzione”. 

  
Dopo anni di sfrenata difesa della  soluzione “due stati per due popoli”, Yehoshua aveva rotto con la sua “tribù” nel 2016, dichiarando che il futuro sarebbe stato in una sorta di “impresa comune”, un solo stato per due popoli (un’impresa peraltro foriera altrove di disastri, come in Yugoslavia). Due anni prima, aveva definito il famoso processo di pace un “ostacolo alla pace”. 

  
Lo scrittore ruppe con le comunità ebraiche della diaspora quando disse che tutti gli ebrei che vivevano al di fuori dello stato di Israele erano “ebrei parziali” e che anche coloro che trascorrevano la veglia studiando i testi e osservando i comandamenti erano meno ebrei dei loro fratelli in Israele. Scrisse della necessità di trarre insegnamenti dall’Olocausto, che vedeva come un avvertimento per la società israeliana e come un incentivo al recupero degli ebrei da quella che considerava come “l’anormalità” della vita in esilio, attraverso l’istituzione di un società ebraica indipendente in Israele. In un’intervista a Israel Hayom, un anno fa, disse che “la differenza tra un ebreo e un israeliano è che un ebreo è una cosa parziale e un israeliano è una cosa completa”.

 

“Essere israeliano è la mia pelle; non è la mia giacca”, ripeté Yehoshua a un simposio dell’American Jewish Committee. E le sue osservazioni  suscitarono una feroce reazione da parte di molti  ebrei americani. Nel 1963 si era trasferito a Parigi, per frequentare i corsi alla Sorbona di un master in Letteratura francese. Ma quando fu chiamato come riservista durante la guerra del 1967 non ci pensò due volte e si rimise la divisa marrone di Tsahal.

  
Noto agli israeliani come “Buli”, Yehoshua era figlio di un gerosolimitano di quarta generazione e di una ebrea di Essaouira, in Marocco. Faceva sì parte della cultura israeliana che aveva “perso” la scommessa con la storia – la pace con i palestinesi – ma non era un pacifista all’europea. “La maggior parte di noi coinvolti in ‘Pace adesso’ è stata sul campo di battaglia e se il peggio dovesse accadere e ci ritrovassimo di nuovo con le spalle al muro, potremmo combattere ancora”, diceva Amos Oz, con cui Yehoshua condivise molte battaglie per la pace.

 

L’autore del “Signor Mani” è stato anche il “padre” del muro israeliano. “Occorre la rapida costruzione di una barriera che separi gli israeliani dai palestinesi”, esclamò nel 1997, davanti a una folla di scettici giornalisti e amici. Se l’occidente è quello della “Forgetfulness”, dal titolo del libro di Francis O’Gorman, del disprezzo  per il passato e della dimenticanza della storia, i problemi di Israele diceva Yehoshua derivano da un eccesso di memoria.

 

“Siamo un popolo con un senso d’identità così forte che possiamo essere ovunque, ma ora è tempo di ripararci dietro a una frontiera”. Su quel muro, il “geder ha’hafrada” che Ariel Sharon avrebbe costruito  sei anni dopo, Yehoshua sacrificò un po’ del suo pugnace idealismo come il pegno affinché Israele, senza perdere l’anima risolvendo il problema dei palestinesi come avrebbero fatto i suoi vicini, potesse continuare a esistere.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.