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Dalla cucina di casa a una guerra lontana. Il nuovo viaggio di Beppe Sebaste

Sandra Petrignani

“Una vita dolce”: il fascino di questo libro è una sotterranea coerenza che si traduce in un modo originale di narrare, è lo scavo di solchi profondi dove passa la scoperta parallela di qualcosa di sé

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Quando si entra in un libro di Beppe Sebaste, si deve sapere che si parte per un viaggio. E non un viaggio in una trama, semmai in più d’una trama, ma più precisamente in vari mondi. Uno non gli basta. Perché magari stai – all’inizio – nella sua cucina, come capita in questo recente, bellissimo, Una vita dolce (Neri Pozza, 215 pp., 18 euro) dove prima lui brucia una caffettiera e poi solo il caffè, perché intanto stava scrivendo due poesie. Ma questo piccolo incendio domestico non lo sconvolge, anzi gli è grato perché porta il ricordo di ben altri fuochi, quelli di una guerra già lontana: “Una guerra improvvisa e feroce massacrava civili a Sarajevo, fino a poco prima città multietnica e pacifica”.

 

E non si creda che ne sapremo molto di più del suo essere andato a Sarajevo fra gli spari dei cecchini, perché un ricordo porta una citazione (di quel senza casa di Kafka per esempio, o di altre sue passioni come Samuel Beckett, come Philip Dick…). E poi, mentre Beppe scrive – forse proprio questo libro che ora stiamo leggendo, si avvicina la sua compagna, S., che dice e fa cose strane, poi sapremo perché.  E non crediate di restare in occidente fino alla fine. Questo proprio no, c’è più oriente che occidente nei confini esteriori, ma soprattutto interiori, del parmigiano Sebaste. Così capita di meditare a gambe incrociate come di incontrare enigmatici Maestri, e Dante passa la mano a Krishna come una nenia indiana a Bob Dylan.

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Ma adesso mi viene la preoccupazione di aver dato l’idea di un guazzabuglio. E invece non è per niente così. Il fascino di questo libro è una sotterranea coerenza che si traduce in un modo originale di narrare, è lo scavo di solchi profondi dove passa fra scrittore e lettore una segreta conoscenza, che non è indottrinamento, ma scoperta parallela di qualcosa che prima non si ignorava di se stessi. Scrivere come ricerca, ecco, forse è questa la descrizione migliore. Ricerca di un senso della vita, in definitiva. Come diceva un’altra grande anima spirituale della letteratura, Christopher Isherwood, in L’albero dei desideri: “Ogni istante della mia vita cosciente aveva racchiuso in sé questo enigma: ‘A che serve la vita?’ e la sua risposta: ‘A imparare quale sia il significato della vita’”. Anche se a volte sembra proprio non averne nessuno: come di fronte alla malattia progressiva di una persona cara, che di giorno in giorno perde i gesti e le parole. Sono le pagine più toccanti e delicate del libro: il racconto di una coppia alla deriva perché lei comincia ad abitare mondi davvero irraggiungibili: “Se lei scompare, sono io che non vedo. Se divento invisibile sono ancora io a essere cieco. Se lei diventa cieca, sono sempre io che non vedo”.

 

Ecco cosa tiene davvero insieme questo peregrinare dal teatro, popolato di personaggi ciechi, vecchi e sbandati, del grandissimo Tadeusz Kantor alla Bhagavgita, testo sacro dell’induismo: la ricerca non solo di un senso, la ricerca del proprio posto di fronte al destino, soprattutto quando questo destino sembra colorarsi di buio, sembra pesare tonnellate che un individuo da solo non può sostenere, e sospinge ai margini (“da tempo mi sembrava di vivere solo negli intervalli”). Ma poi c’è una risata che si fa ancora insieme, poi c’è il comportamento buffo del proprio cane, poi c’è un film che si deve vedere, una passeggiata, una preghiera. E la vita diventa dolce. “Ho chiesto a S. a bruciapelo se riesce a essere felice. Senza esitare lei mi ha detto di sì”. 

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