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Una notte con Kafka fra bordelli mancati e avventure senza avventura

Marco Archetti

Questi eventi pittoreschi sono narrati in Un amico di Kafka, una raccolta del 1970 di Isaac B. Singer, dove debutta uno dei suoi più affascinanti personaggi: Jacques Kohn. Celebrità al tramonto che vide l’alba di Franz Kafka 

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Metti una notte al bordello con Kafka. Sì, proprio Franz Kafka. Al bordello del ghetto. “Non dimenticherò mai quel momento. Le puttane, i ruffiani, i clienti, la maîtresse… Kafka si mise a tremare, poi corse giù per le scale così velocemente che temetti si rompesse una gamba. Arrivato in strada si fermò e vomitò come uno studentello. La prima volta che lo vidi fu quando recitavamo a Praga nel 1911 e nessuno ne aveva mai sentito parlare. Venne dietro le quinte, innamorato di un’attrice da strapazzo. Appena lo vidi capii che mi trovavo in presenza di un genio. Ne sentivo l’odore, proprio come un gatto sente l’odore del topo. Così è cominciata la nostra amicizia”. Metti una notte immersi nel fumo denso di pipa e sigarette del circolo degli scrittori yiddish di Varsavia, bevendo tè coi biscotti e ascoltando questi e altri aneddoti variopinti mentre sgorgano dalla bocca – con dentiera di porcellana non perfettamente saldata – di Jacques Kohn, attore declinante del declinato teatro della capitale, uomo scalcagnato e finito, dandy degli straccioni dotato di monocolo, colletto alto all’antica e bombetta logora.
 

“Ci incontravamo tutte le sere” – lo descrive Isaac B. Singer – “la porta del circolo si apriva lentamente e lui faceva il suo ingresso, con l’aria di una celebrità europea che si degna di visitare un ghetto”.

  
Comincia così Un amico di Kafka (Adelphi, 340 pp., 22 euro), primo racconto di questa raccolta del 1970 di Isaac B. Singer, col debutto di uno dei suoi più affascinanti personaggi: Jacques (o meglio, Jankel) Kohn. Celebrità al tramonto che vide l’alba di Kafka, compagno di bordelli mancati e di avventure senza avventura – “Franz voleva vivere, ma non sapeva come fare” –, amico di una folta schiera di geni (da Django Reinhardt a Chagall, da Zweig a Rolland, da Erenburg a Buber), anima nuda e importantissimo Nessuno, fatuo e tragico seduttore impotente per eccesso (“capita sempre a chi ha gusti troppo raffinati”) e kantiano per difetto (“al buio il tempo non è più tempo e lo spazio non è più spazio, stringi qualcosa e all’improvviso non c’è più”). Gigantesco millantatore o sincero reticente non si capisce e non si capirà fino all’ultima riga, ma in qualsiasi caso grande, grandissimo personaggio singeriano strapazzato dalla vita e corteggiato dalle illusioni, Giobbe come tutti per gusto del gioco e del pugno al cielo, patetico e decadente eppure ancora debordante (di sostanza già debordata, certo), peccatore senza più peccati, demoniaco nella sua inafferrabilità e innocente a dispetto di sé, in balia della vita e del mistero torturante del sesso – eros come caos, sempre, scacco inevitabile di ogni aspirazione al memorabile.
  

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Un uomo è le sue storie, non una sola verità. Né una sola verità l’avrebbe raccontata Isaac B. Singer, personaggio del romanzo di se stesso, filosofo così e così e cattivo scrittore eccelso di racconti ora semplici e ferroviari (“Il figlio”, “Destino”, “La chiave”), ora crepuscolari e memorialistici (“Ospiti in una sera d’inverno”, “Racconti da dietro la stufa”, “La colonia”), ora scintillanti come “Shloimele” e “La tavola calda” o più che perfetti come “L’istruttore”, autentico capolavoro della raccolta. Ambientato in Israele nel 1955, è la storia del viaggio notturno che unirà lo scrittore e Freidl, neurologa snob. Dopo aver presenziato a un suo incontro pubblico, la donna si offrirà di accompagnarlo a casa con la propria auto, e così, tra loro, mentre percorrono le strade infuocate di Tel Aviv, sotto una luna rosso scuro e stelle che “tremolano come lampadine”, emergeranno tutto il passato e tutto il presente. E la storia del divorzio di Friedl, che ha una figlia da un fesso di nome Tobias. “Avrei voluto chiederle perché aveva lasciato Tobias, ma la domanda andava posta in altri termini: perché l’aveva sposato?”. E Friedl: “Non c’è sofferenza maggiore che essere amata da uno stupido: ti rende frigida”.

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La destinazione del viaggio arriverà solo all’alba e sarà il kibbutz in cui vive la figlia. La notte dello scrittore e di Friedl sarà una notte infinta, una notte di parole in cui nessun tema verrà eluso: l’ebreitudine deteriore e quella eroica, la delusione e la felicità, la forza misteriosa della stupidità e i campi di concentramento, l’al di là (se esistesse sarebbe la crudeltà più grande) e l’auspicabile estinzione dello spirito – postilla sui kibbutz: sono una miscela tremenda di socialismo e di capitalismo, o meglio, dei soli difetti di entrambi. Insomma, una vera festa per chi legge: anima spalancata a questo grande canto singeriano alla forza cieca di vivere e all’irriducibilità delle creature, alla fatalità e alle speranze, e alla comunione salvifica delle contraddizioni. A questo canto d’amore firmato da uno scrittore che i lettori amava appassionarli e non torturarli, e che credeva solo nell’esistenza di tre regole. La prima: avere una storia. La seconda: credersi l’unico capace di raccontarla. La terza: per i messaggi, rivolgersi ai Dieci comandamenti.

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