eterni ritorni

La parabola del “Vecchio figlio”: detestare il padre per poi diventare come lui

Marco Lodoli

Un libro di Luciano Allamprese racconta questo rapporto circolare. Il genitore si ama, poi si odia e si disprezza, ma alla fine gli si tornerà sempre accanto

Anche l’arte ormai è così, gratta e vinci, mordi e fuggi, scrivi e pubblica, perché bisogna stare sempre sulla scena, occupare l’attenzione, evitare in ogni modo il rischio di essere messi da parte, dimenticati. Ma per fortuna ci sono anche altri percorsi, gestazioni lente, lentissime, scrittori che impiegano decenni a partorire il testo definitivo, e correggono, cancellano, aggiungono, limano, buttano, riprendono, e quel cantiere può rimanere aperto per un tempo quasi infinito, perché l’insoddisfazione non permette ancora di concludere l’opera e di gettarla in pasto al mondo. Luciano Allamprese ha scritto e riscritto per quasi trent’anni questo libro, “Il vecchio figlio”. Certo, ci sono stati lunghi periodi in cui il romanzo è stato messo da parte, ma quelle pagine inesorabilmente si sono riaperte, hanno preteso di arrivare alla versione definitiva, hanno chiesto imperiosamente all’autore di rimetterci ancora mano, di dare loro la forma che oggi finalmente hanno.

 

“Il vecchio figlio”, pubblicato da Atlantide, piccola e raffinata casa editrice romana, è un bel romanzo che non ha nulla a che spartire con le mode letterarie di questi ultimi anni: non c’è alcun desiderio di raccontare l’orrore del mondo, di rappresentare in modo realista brutture e nefandezze sociali o minimi spaesamenti privati. E’ un libro che punta dritto al nodo archetipico del rapporto tra il padre e il figlio, quel groviglio doloroso e misterioso che può stringere e soffocare una vita intera. E’ un meccanismo che conosciamo tutti, ma che ancora non era stato raccontato in un modo così preciso e feroce: il bambino ama il padre, lo prende come modello assoluto, imita quei gesti, ripete quelle opinioni senza mai avanzare un dubbio o una perplessità. Poi cresce e le cose cambiano: l’adolescente odia il padre, ne vede tutti i limiti, i difetti, le meschinità, e prova ad allontanarsi quanto più possibile da quel totem sbilenco e opprimente. Fa la sua vita, si innamora, si perde, si ritrova, cerca di definire meglio che può la sua personalità, il suo carattere. Passano ancora altri anni, tanti, il padre ormai è un povero vecchio, debole, malato, confuso, e inesorabilmente il figlio gli torna accanto, non solo fisicamente, come sostegno, ma soprattutto psicologicamente: e così il figlio comincia ad assomigliare sempre più al padre, fino quasi a rimpiazzarlo sulla scena del mondo. Abbiamo detestato i padri, e poi siamo diventati uguali a loro.

 

Allamprese racconta questo percorso di amore, negazione e sostituzione con una scrittura meticolosa, tagliente, crudele. E’ un libro spietato che fa pensare a Svevo e anche all’uomo del sottosuolo di Dostoevskij: il protagonista non ha nessuna clemenza verso se stesso, non si perdona nulla, racconta passo passo il fallimento della propria esistenza di uomo in fuga, e poi di animale catturato nuovamente dal proprio passato. Il padre è un ufficiale spaventosamente mediocre eppure capace di imporre un ordine familiare che stronca ogni speranza di libertà. I figli sono sottomessi a quel potere ottuso e implacabile, fino quasi ad ammirarlo. C’è un tentativo di conquistare un’indipendenza, tramite il disprezzo e poi tramite un amore impossibile per una donna capricciosa, instabile, attraente e respingente al tempo stesso. Ma quando quell’amore tragicamente finisce, il figlio torna al padre, gli sta accanto e lo accudisce: assorbe ancora quei gesti, quelle idiosincrasie, quelle piccole miserie, finché sono completamente suoi, un patrimonio genetico e morale da prolungare in quello che resta della vita. “Il vecchio figlio” è un libro da leggere: fa soffrire, ma ci rivela tante cose decisive che forse già sapevamo, ma che non volevamo sapere, non volevamo confessarci.

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