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anticonformismo d'autore

Quello strambo Werner Herzog, contro le profondità fasulle di questi tempi

Mariarosa Mancuso

Meno Walt Disney, più Emily Dickinson, meno James Joyce, più Thomas Bernhard. Ritratto sui generis del regista tedesco che non volle incontrare l'imperatore giapponese

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Attorno alle stranezze del regista Werner Herzog si sono accumulati tanti aneddoti da farlo diventare una leggenda (vivente, se eravate già sul punto di consultare Google per scoprirlo). Per scommessa si mangiò una scarpa, dopo averla bollita cinque ore con aglio e cipolla. Per “Nosferatu - Il principe della notte” – ovvero Dracula, ma non voleva pagare il diritti alla vedova di Bram Stoker che scrisse il romanzo – fece dipingere di grigio migliaia di topi bianchi (poi il colore fu lavato via e le bestiole asciugate con il phon).

 

Siamo ancora ai “classici”, con l’operatore di “Fitzcarraldo” legato a una roccia –  “l’inquadratura giusta è una soltanto” – e dimenticato lì per parecchie ore, il resto della troupe era già a cena. Tra gli ultimi entrati in repertorio, la gaffe giapponese. Herzog aveva messo in scena a Tokyo l’opera “Chushingura”, gli dissero che l’imperatore sarebbe stato lieto di riceverlo in udienza privata. Disse: “No grazie, non ho idea di cosa potremmo parlare, sarebbe solo uno scambio di formalità”. Nel gelo che seguì, qualcuno chiese: “E allora, chi vorrebbe incontrare in Giappone?”. Risposta pronta: “Onoda. Hiroo Onoda”.

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Onoda è l’ultimo giapponese nella giungla. Non per modo di dire: è il soldato che per 29 anni, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, difese un’isoletta delle Filippine. Si incontrarono, ne è uscito il volumetto “Il crepuscolo del mondo” (Feltrinelli). Ora pubblicato negli Usa e occasione dell’intervista uscita sul New Yorker con il magnifico titolo: “Werner Herzog Has Never Liked Introspection”. Non che avessimo dubbi: nei film del regista la superficie è sempre più interessante della profondità. Sentirlo ripetere è in grandiosa controtendenza con le profondità fasulle che di questi tempi – troviamo un modo di dirlo con garbo – ammorbano cinema e libri.

 

Werner Herzog insiste sul camminare a piedi. Per migliaia di chilometri, non la passeggiatina fin dal gelataio. Era uno dei prerequisiti per farsi ammettere alla sua scuola di cinema itinerante (quella per registi che come lui giovanotto rubavano le cineprese: niente a che vedere con le Masterclass a 90 dollari vendute online alle masse). Il perché non ha più voglia di ripeterlo, ripete invece volentieri il suo fastidio per la natura romantica di Walt Disney: ultimo esempio pervenuto (Herzog non deve averlo visto sennò di sarebbe mangiato il televisore, altro che scarpa) “Polar Bear”. Orso bianco e cucciolo d’orso su isolotto di ghiaccio, mentre il nostro filmava i grizzly – e il povero Timothy Treadwell che per studiarli troppo da vicino venne divorato. La natura è matrigna, ma neanche Giacomo Leopardi-il-prediletto-dagli-adolescenti si legge più a scuola?

 

Capitolo social network, Herzog si astiene. Esistono però falsi spassosi, sui più vari argomenti, che qualche imitatore legge nel suo inglese con forte accento tedesco. Anni fa un sito satirico aveva pubblicato le sue maniacali istruzioni (apocrife) per la donna delle pulizie. Pensa – per davvero, questo è sul New Yorker  – che la gara dei miliardari per andare nello spazio sia una faccenda tra maschi (libera traduzione nostra, lui parla di testosterone). Marketing per vendere macchine: “La prossima me la compro dal visionario”.

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Parlando di letteratura, non ha una gran simpatia per James Joyce, preferisce l’austriaco Thomas Bernhard, e le poesie di Emily Dickinson: “Bastano poche righe per capire che è un genio” (altre superfici, oh, yes). Quando guarda dalla finestra non lavora: ospite a casa di Francis Ford Coppola, con vista sul Golden Gate, Herzog girò la sedia verso un angolo di muro spoglio.

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