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Tutto il male della tolleranza. Il libro del giovane teologo Adrien Candiard

Uno dei prezzi da pagare per la tolleranza è la riduzione e la dissezione della ragione, con la rottura che Kant ha sigillato tra sapere e credere: l'oggettività risultante dal metodo scientifico, e il credere relegato all'ambito soggettivo. “Ci siamo abituati ormai da trecento anni, a usare una ragione rattrappita”

Ubaldo Casotto

Candiard, francese da dieci anni al Cairo, è persona certa di quello che vive e pensa e per questo ha una mente aperta. “Noi europei contemporanei viviamo davanti a uno specchio, e invece di incontrare l’altro come effettivamente ‘altro’ cerchiamo in lui conferma di ciò che già pensiamo”

La vera posta in gioco della tolleranza non è constatare che tutti gli uomini si assomigliano, sarà invece accettare di rispettare anche quelli che non si assomigliano affatto”. Adrien Candiard, giovane frate domenicano parigino con un passato di ghostwriter per Dominique Strauss-Kahn, studi in scienze politiche e un saggio sull’Anomalia Berlusconi, scrive queste cose dal Cairo, dove vive studia e insegna (in arabo) da dieci anni.  Con il suo saio bianco fa anche l’autostop, e quando a dargli un passaggio fu un giovane maghrebino che gli chiese in cosa differisse il cristianesimo dall’islam, lui glielo spiegò diffusamente. Non sono d’accordo con te, commentò l’autista. E’ normale – rispose il frate –, tu sei musulmano e io sono cristiano. Ed è per questo che possiamo dialogare, non “attraverso le somiglianze”, ma “nelle diversità”. Feconda non è l’analogia, ma la distinzione. 

  
Candiard è persona certa di quello che vive e pensa e per questo ha una mente aperta. Non ama la parola “tolleranza”, che a noi europei tardo-illuministi invece piace tanto, perché la trova intrisa di indifferenza: e di disprezzo per il tollerato – “è il tipo di rispetto che viene riservato ai matti” – e a essa preferisce la parola “dialogo”. Alla differenza fra i due approcci con l’altro ha dedicato un libro sorprendente e geniale, che scava in profondità sotto le vulgate pseudoculturali. Tolleranza? Meglio il dialogo. Il caso Andalusia e il confronto tra le fedi (Libreria editrice vaticana), pubblicato in Italia in questi giorni. Il saggio prende in esame la Spagna del XII secolo, riproposta in questo inizio degli anni Duemila come esempio di tolleranza e di coesistenza pacifica tra cristiani, ebrei e musulmani sotto il governo di questi ultimi. Non è storia, è un mito, dice senza mezzi termini e con dovizia di documentazione Candiard. E’ un mito politico che non parla del passato del presente. E’ la proiezione dell’idea di tolleranza del nostro illuminismo su un presunto precedente storico, che ha un doppio obiettivo. Il primo: confermare la bontà della laicità moderna così come si è venuta a configurare da Locke in poi con l’espulsione della religione dal dibattito pubblico. Il secondo: mostrare all’islam che questo illuminismo è roba sua, risalirebbe, appunto, a quel mitico periodo d’oro in cui Averroè (il filoso arabo attraverso cui Aristotele fu conosciuto in Europa), teorizzò la doppia verità. 

 
Candiard è intellettualmente e storicamente onesto. Nega che Averroè abbia mai voluto teorizzare che esiste una doppia verità (una della filosofia e una della religione), nega anche che i sette secoli di dominazione islamica in Spagna siano stati un felice periodo di convivenza pacifica, se non limitati ad alcuni anni e ad alcuni territori, ma allo stesso tempo riconosce che un certo concetto di laicità e di neutralità dello stato ci ha liberati dalle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa del Cinquecento. Salvo poi scoprire nel XX secolo che non era solo la religione ad avere il monopolio della violenza. E lo vediamo anche oggi. Con l’onestà di cui sopra, Candiard spiega che è un mito politico anche quello che di quel periodo dà una lettura opposta, ma altrettanto ideologica.

 
Il problema – dice – è che noi europei contemporanei viviamo davanti a uno specchio, e invece di incontrare l’altro come effettivamente altro cerchiamo in lui conferma di ciò che già pensiamo. Siamo, ad esempio, sempre “disperatamente alla ricerca dei musulmani moderati, con ciò intendendo che dovrebbero essere soprattutto sperando moderatamente musulmani”.

 
Ho incontrato Adrien Candiard in occasione di una conferenza del Centro culturale di Milano e gli ho chiesto un commento a una frase di monsignor Pierre Claverie, un pied-noir, tornato in Algeria, dove era nato, dopo gli studi superiori in Francia, e divenuto vescovo di Orano, anche lui domenicano. Venne trucidato nel 1996 dai terroristi islamici insieme al suo autista e amico musulmano. La frase è questa: “Ho avuto sete di capire come avessimo potuto vivere, e vivere cristianamente, senza porci la questione dell’altro”. Candiard ha risposto che quelle parole di Claverie alludevano alla situazione particolare della società coloniale, una società dove gli arabi non esistevano quasi, nel senso che non erano percepiti come persone umane. Ma le possiamo leggere “in senso più ampio: prendere l’altro in considerazione vuol dire prenderlo in considerazione come altro. Me ne sono accorto quando mi hanno mandato al Cairo dieci anni fa. Come si fa a lavorare sull’islam? All’inizio pensavo di lavorare su autori spirituali, come i sufi o i filosofi medievali: leggendo i loro libri mi sentivo più a casa. Ma poi ho pensato: se faccio così non incontro i musulmani, non incontro davvero l’islam. Cerco nell’islam ciò che mi assomiglia, non prendo in considerazione l’altro come altro. Così ho fatto la mia tesi di dottorato su un teologo del medioevo che è l’autore di riferimento di tutti i movimenti salafiti e jihadisti di oggi. La vera avventura intellettuale è questa. Se vogliamo incontrare l’altro, bisogna accettare che sia diverso da me”. E devo discuterci, perché il prezzo della tolleranza illuminista, che pure ha avuto – come detto – i suoi meriti, è stato “la rinuncia all’unità della verità”.

 
Dialogare vuol dire discutere razionalmente, questo succedeva nella Cordova del XII secolo. “Fratello mio dalle idee errate” era l’incipit delle dispute pubbliche, accanite, anche verbalmente violente, ma la violenza insita in un dibattito in cui ognuno sia convinto delle proprie ragioni è decisamente minore di quella del “sincretismo” in cui siamo immersi, che “è veramente più totalitario” perché “preclude la stessa possibilità teorica del disaccordo”.

 
Abbiamo qualcosa di più interessante che parlare del senso della vita? chiede Candiard. Tollerarsi vuol dire non rispettarsi come uomini, vuol dire relegare ciò che l’altro ritiene più importante di sé fuori dal discorso razionale. Siamo arrivati a fare della religione una questione di identità, di appartenenza nazionale, un dato di nascita che non può essere messo in discussione, una “verità debole” che riguarda esclusivamente il soggetto che la propugna.  Mentre è una questione di convinzione razionale. Solo che “a verità debole, menti deboli”. Privo di un quadro razionale il pensiero religioso si rifugia nei fondamentalismi, eterogenesi dei fini di una secolarizzazione a cui non tornano più i conti.

 
All’incontro del Centro culturale di Milano c’ha partecipato anche don Stefano Alberto, giurista e docente di Teologia all’Università Cattolica di Milano. Se Adrien Candiard, con il suo lavoro intellettuale, è protagonista del dialogo che si svolge su quella linea di frontiera che è il Nordafrica, e che il citato Pierre Claverie chiamava la faglia tra il nord e il sud del mondo, don Alberto lo è nell’est Europa, dove da anni segue comunità russe e ucraine in cui convivono cattolici e ortodossi. Si è cimentato anche lui con la provocazione di Pierre Claverie, e ha detto: “L’altro è sempre un bene per me, anche quando mi fa fare fatica, anche quando non ci troviamo subito in consonanza, perché è sempre un contributo a conoscere meglio me stesso. L’altro porta a galla non solo la mia identità, ma le mie ferite, i miei limiti. Il primo mito da sfatare è proprio questa idea che la convivenza si basi sulla tolleranza, che è spesso la maschera perbenista dell’indifferenza: che tu ci sia o non ci sia, in fondo, non mi importa, non ho l’esigenza di capire che cosa vuol dire vivere insieme. Qui si gioca la democrazia”. E ha citato al proposito Ernst-Wolfgang Böckenförde, giurista tedesco che, nel 1961, anno della costruzione del muro di Berlino, disse: “Lo stato moderno si regge su presupposti che non può dimostrare”.

 

“Pensiamo di cavarcela – ha continuato Alberto – riducendo il processo democratico a procedure in cui l’io possa stare in secondo piano. Pensiamo di risolvere i rapporti con algoritmi e protocolli, invece la dinamica per cui scopro l’altro come bene accade sempre in un incontro. L’incontro, qualcosa che accade e afferra insieme”. Ha quindi parlato del suo rapporto con padre Georgij Orechanov, prorettore dell’Università ortodossa San Tichon di Mosca, recentemente scomparso, che gli diceva: “Quando parli del primato di Pietro mi viene voglia di prendere le armi!”. Una diversità radicale, “incolmabile” l’ha definita, eppure “abbiamo fatto l’esperienza che la fratellanza è proprio ciò che consente agli eguali di essere diversi” (cfr. Fratelli tutti di Papa Francesco). E ha aggiunto: “La verità non è un assoluto, la verità è una presenza. Questo è il contributo che il cristianesimo porta anche dentro alla società secolare. Non innanzitutto una serie di dogmi, che nessuno coglie più, non innanzitutto un messaggio morale, ma la possibilità di incontrare la realtà della verità fatta carne”. Come è stato chiaro ai partecipanti russi a una riunione su Zoom, compreso un italiano rimasto a Kharkiv sotto le bombe, in cui era evidente la paura, il terrore, il dolore, ma anche “il fatto che c’è qualche cosa più forte della guerra, più forte dell’odio, più forte dell’ideologia che inquina il cuore: c’era qualcosa che teneva insieme tutto, senza censurare né la tragedia, né l’orrore, né le terribili contraddizioni di questo conflitto assurdo”. Insomma, il dialogo poggia sul fatto che la verità si può incontrare.

 
Se allora si dialoga nelle differenze e non eliminandole, qual è il linguaggio comune che rende possibile la convivenza? Candiard nel libro fa a pezzi l’idea del Dio unico delle tre religioni del libro, epperò parla di una lingua che non ci dobbiamo inventare, dobbiamo piuttosto scoprirla. Quello che dovrebbe sorprendere del XII secolo – dice – è che Tommaso D’Aquino poteva leggere Averroè e soprattutto capirlo (premessa indispensabile per poterlo confutare) perché n comune avevano un’idea di ragione e una definizione di verità che rendeva possibile il dibattito: adaequatio rei et intellectus, la corrispondenza tra il reale e il pensiero. La definizione, nota ai più come prodotto della filosofia scolastica, è in realtà di un filosofo ebreo egiziano arabofono del IX secolo Isaac Israeli Ben Salomon. Oggi non abbiamo più questo patrimonio comune che univa invece le sponde del Mediterraneo dieci secoli fa. Non ce l’abbiamo neanche in Europa. Candiard non propone certo un impossibile ritorno a modelli filosofici passati, ma chiede se non sia giunto il momento di “una presa di coscienza collettiva” del fatto che la secolarizzazione ci ha portati a “trascurare tutta una dimensione del reale e del mondo”, e che “il malessere provato davanti alla presenza visibile dell’islam in Europa è da interpretare prima di tutto come un sintomo: il sintomo di una carenza, di un rimpianto davanti a quella parte del reale che abbiamo rinunciato a investigare con la nostra intelligenza”.

 
Non a caso lo scenario è, oggi come allora, l’Europa – ha sottolineato Alberto – dove uno dei prezzi da pagare per la tolleranza è la riduzione e la dissezione della ragione, con la rottura che Kant ha sigillato tra sapere e credere: l’oggettività risultante dal metodo scientifico, e il credere relegato all’ambito soggettivo. “Ci siamo abituati ormai da trecento anni, a usare una ragione rattrappita”. Dimenticando che “ad Atene, a partire dalle domande dell’uomo di fronte allo stupore della realtà e del cosmo, di fronte al mistero dell’uomo e della sua libertà, nasce la democrazia. A Gerusalemme un uomo dà la sua vita e dopo tre giorni la riprende, e inizia il cristianesimo, il Dio con noi, E a Roma prende corpo la civiltà del diritto”. “C’è un cuore, un’esperienza elementare, un livello della ragione, qualunque sia il percorso della vita di un uomo o di un popolo, che si esprime in domande ultime. La domanda del pastore errante dell’Asia di Leopardi: e io che sono? Perché il dolore innocente? perché l’ingiustizia? Perché devo morire? C’è la felicità? Questo è il cuore dell’uomo che è dentro alla ragione. La grande avventura è se questo punto è piano piano recuperato non solo a livello personale ma anche nello spazio pubblico. Non dimentichiamoci la particolarità dell’Europa: è il luogo dove è nato il termine persona. Oggi torniamo a parlare di individuo, c’è un individualismo esasperato che pensa che tutto possa essere decostruito e ricostruito nell’impeto di una libertà assoluta, che poi si stanca di essere libera dopo aver ricostruito tutto e sfasciato di nuovo tutto. Ecco, la vera sfida lanciata già da Benedetto XVI: il contributo della fede come istanza critica, come percorso, cammino per allargare la ragione. Per non accontentarsi di una ragione positivista, funzionale, ma riscoprire attraverso l’esperienza nell’incontro e nel dialogo la grandezza quando l’uomo dice io”. 

 
L’immagine finale usata da Stefano Alberto è potente: l’Europa è come il figliol prodigo della parabola, che ha sperperato il patrimonio di famiglia, le sue radici cristiane: “Ma a un certo punto la realtà ridesta la domanda: adesso che sono qui a disputarmi il mangiare con i maiali, mi sono ridotto allo stremo, potrei tornare? Questa attesa, questa vigilanza, questa pazienza, questa paternità che non viene mai meno diventa la riscoperta della radice della propria libertà”. 

 
C’è un bel canto di pére Maurice Jean Cocagnac, un altro domenicano francese del XX secolo, che parla della coscienza del popolo ebraico, ma è come se dicesse a noi: “Ah, si tu savais combien je t’aime, tu retournerais Jérusalem!”, se tu sapessi quanto ti amo, tu torneresti a me, Gerusalemme. E tornare è sempre un inizio.

 
Il laico Václav Havel, il dissidente, scrittore e poi presidente della Repubblica ceca, che ha voluto fortemente portare nell’Unione europea e nella Nato, diceva che “è giunta l’ora in cui l’Europa deve finalmente rinunciare a pensare che deve esportare sé stessa nel mondo intero e sostituire a questa idea un’intenzione più modesta ma più difficile da perseguire. Iniziare a cambiare il mondo partendo da sé stessa, rischiando anche che nessuno segua il suo esempio”.

 
E’ il momento di un nuovo inizio, dice Candiard, “con i musulmani abbiamo alle spalle quattordici secoli di polemiche completamente sterili, bisogna trovare un altro modo di parlarci che non comporti farci la guerra. Il silenzio non mi pare una buona opzione”. 
 

“Tolleranza? Meglio il dialogo. Il caso-Andalusia e il confronto tra le fedi” è il nuovo libro del frate domenicano francese Adrien Candiard, edito dalla Lev-Libreria editrice vaticana (126 pp., 13 euro).

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