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La vita sottosopra

Il terremoto tra distruzione e cambiamento

Gaia Manzini

Sulle sfondo della catastrofe sismica del 1908 nello Stretto di Messina si articola Trema la notte, il nuovo libro di Nadia Terranavova che tiene insieme il dolore per la distruzione ma anche la speranza per un cambiamento di vita

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Il protagonista di Alexandre Dumas fu svegliato a metà della notte; aprì la finestra. La città era tutto un grido. Terremoto! Terremoto! C’era stata una scossa terribile, ma lui non l’aveva sentita, nonostante il letto si fosse scostato dal muro e avesse raggiunto il centro della stanza. La gente si riversava in strada terrorizzata, mezza svestita. Poi man mano ritornò la calma, non ci furono altre scosse. Il mattino seguente fu lo stesso proprietario dell’albergo ad andare a svegliarlo. Molti dei palazzi intorno erano crollati. Il protagonista si trattenne ancora qualche giorno; le scosse avvenivano di notte; di giorno il convento dei cappuccini dava messa grande e i superstiti si ritrovavano lì tutti insieme. Il racconto di Alexandre Dumas, I sepolti vivi. Un terremoto in Sicilia, è ambientato tra Messina e Siracusa negli anni successivi al terremoto che tra il 5 febbraio e il 28 marzo 1783 colpì l’area dello Stretto, devastando Messina e la Calabria, e venne considerato la più grande catastrofe dell’Italia meridionale nel diciottesimo secolo.

Salvatore Quasimodo nel 1958 scriveva una poesia bellissima per il novantesimo compleanno di suo padre (Al padre). Una poesia che rende onore agli insegnamenti del genitore, a partire dai giorni terribili del terremoto di Messina: “Dove sull’acque viola / era Messina, tra fili spezzati / e macerie tu vai lungo binari / e scambi col tu o/ berretto di gallo / isolano. Il terremoto ribolle / da due giorni, è dicembre d’uragani / e mare avvelenato”. Il padre che con la sua forza fisica e morale era riuscito a proteggere la famiglia, a far dimenticare la paura di quella tragedia terribile trasfigurata nei versi in qualcosa di più di una catastrofe ambientale: qualcosa che assomiglia al rito di passaggio all’età adulta, altro smottamento inevitabile dal quale ognuno di noi è dovuto passare. Questa volta si tratta del terremoto del 1908. Lo stesso che fa da sfondo al nuovo romanzo di Nadia Terranova, Trema la notte, Einaudi Stile libero. “Ho trascorso su questa riva tutte le notti della mia vita, e del mio finto orizzonte conosco ogni inganno: gli occhi di chi nasce davanti al mare si perdono all’infinito, ma il mio mare è diverso, ti spinge indietro come uno specchio. Io sono nata con il muro di un’altra costa a bloccarmi lo sguardo: per questo, forse, non me ne sono mai andata, anche quando l’acqua mi ha offesa e ingannata, ha violato la mia giovinezza e distrutto chi ero”.

Questa storia ha due protagonisti e due città. Barbara e Nicola; Messina e Reggio Calabria. Nicola ha solo undici anni e già è abituato al dolore, e all’orrore: perché non sa neanche che di orrore si tratta, perché non ha mai conosciuto un’altra vita, nessuno gli ha mai concesso di sognare una diversa quotidianità. Nicola è figlio della più importante famiglia calabrese di produttori di bergamotto. Abbonato al “Giornalino della Domenica”, si è abituato a vedere il proprio cognome spuntare nella réclame alla fine di ogni puntata delle avventure dei Cadetti di Guascogna, mentre una donna bruna dai capelli lunghi e la bocca carnosa stringe fra le mani la boccetta di profumo Fera.

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Nicola è sempre da solo, non conosce davvero la spensieratezza dell’infanzia, non dorme – come ci si aspetterebbe – in una camera ovattata e protetta, inondata dalla luce. Il suo letto è un catafalco, un monumento funebre, e la stanza non ha finestre perché si trova in cantina. Vorrebbe scappare, ma il desiderio di fuga è tentazione demoniaca: il bambino sa che deve rimanere lì, fa parte delle regole inviolabili della notte che gli sono state impartite dalla madre. E’ necessario dormire in cantina e non nella stanza al piano di sopra, per sfuggire al diavolo. Al diavolo non verrebbe mai in mente di cercarlo sottoterra. E comunque, anche se dovesse accadere, vedendolo nel catafalco lo scambierebbe per un morto e sarebbe costretto ad andare a cercare altri bambini. Sua madre glielo aveva spiegato così tante volte che a Nicola non restava che obbedire a tanta scrupolosa protezione. Nicola vive in un mondo sottosopra, dove l’infanzia è cupa, dove bisogna stare sottoterra per crescere forti e sani.
E poi c’è Barbara, dall’altra parte dello stretto, per cui la vita è esattamente quella delle donne di quell’epoca, ma non è la vita che lei vorrebbe. Anche qui il mondo gira al contrario rispetto ai propri desideri. Barbara non vorrebbe il marito che il padre ha scelto per lei: non vorrebbe dover sottostare alle leggi di una tradizione maschilista, ma imitare le eroine dei libri che legge in continuazione (prima tra tutte Maria Landini, protagonista del romanzo di Letteria Montoro, autrice messinese dell’Ottocento) . In fondo al suo corpo c’è il desiderio di un’altra vita. “Mi era sembrato allora che mio padre, con la sola sua presenza, avesse il potere di controllare ciò che mi accadeva e mi era montata dentro la rabbia degli invisibili, l’unica famiglia cui sentivo di appartenere, quella delle persone che non possono decidere di sé perché non hanno una tribuna e nemmeno un inginocchiatoio per le suppliche, sono state infilate a forza dentro uno scranno dorato da un dio che non hanno scelto. Mio padre era il mio dio, e io non lo adoravo”.

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La vita di Nicola e di Barbara è già una vita disassata e in tumulto, una vita che si muove nell’oscurità dei desideri, delle speranze. Che si muove nel silenzio, perché entrambi non possono opporsi, non possono esprimere davvero la propria opinione. Se il terremoto arrivasse sarebbe quello della Divina Commedia: la terra trema e Dante cade svenuto. Dove non c’è spiegazione ai misteri dell’oltretomba, il personaggio perde coscienza. Dove non c’è possibilità di tracciare un destino, meglio affidarsi alle forze della terra.

Il terremoto, la catastrofe. “Lisbona è distrutta e a Parigi si balla”, così scriveva amaramente Voltaire all’indomani del catastrofico terremoto che il primo novembre 1755 aveva distrutto la città portoghese e ucciso quasi la metà della sua popolazione. Voltaire, mondano e disincantato, rimase sconvolto dall’evento; il suo immaginario ne fu colpito, tanto da considerarlo dimostrazione dell’inesistenza di Dio. Scrisse di getto il Poema sul disastro di Lisbona: 234 versi furenti. Ma il tono non piacque a Rousseau, per quanto impressionato anche lui da quella sventura. Voltaire si curò poco della critica di Rousseau e consegnò le sue riflessioni al suo romanzo più fortunato: Candido, ovvero dell’ottimismo, che nel 1759 circolò più o meno clandestinamente per tutta Europa.

Il terremoto, il mondo sottosopra. Nel romanzo di Terranova quando il terremoto arriva, è sangue, distruzione, perdita, ma anche ribaltamento – dunque speranza – possibilità di ricostruirsi una propria vita, di trovare un ordine a qualcosa che ordine prima non aveva. Ecco le impensabili strade del destino. Non è un caso che ogni capitolo sia intitolato a un arcano maggiore: le carte, i tarocchi, simboli che nella cultura popolare possono dare un’interpretazione della vita diversa da quella che i fatti parrebbero suggerire. Terranova sa usare parole precise per dipingere le sfumature che si agitano nell’animo dei suoi personaggi; conosce perfettamente le contraddizioni dei desideri e della volontà; le contraddizioni dell’amore. Ma sa che per mettere in moto un cambiamento c’è bisogno di una spinta radicale.

L’uso figurato della parola “terremoto” ha una lunga storia. La prima attestazione di terremoto nell’accezione di mutamento improvviso, inaspettato, che rinnova profondamente una situazione o ristabilisce un equilibrio, si trova in una lettera di Carducci: “Io anelo un terremoto politico che sfasci tutte le putride fondamenta di questo bordello della vecchia Europa e della vecchia società”. Il terremoto è una forza primigenia che, come nei miti, dà origine a qualcosa che prima non c’era. Il grande scrittore giapponese Murakami Haruki ha scritto una raccolta di racconti, Tutti i figli di Dio danzano, in cui ogni storia ha un legame con il grande terremoto di Kobe che colpì il Giappone nel 1995. In ogni singola vicenda il terremoto gioca un ruolo differente, può significare la paralisi oppure la rigenerazione. I personaggi, tuttavia, sono caratterizzati sempre da una stessa consapevolezza profonda.

Quando nel 2016 il Giappone fu colpito da un altro grande terremoto, quello di Fukushima, Murakami Haruki tenne un lungo discorso. “Come saprete, alle 14 e 46 dell’11 marzo un forte terremoto ha colpito l’area nordorientale del Giappone. La potenza di questo terremoto è stata tale che la Terra ha girato più velocemente sul suo asse e il giorno si è ridotto di 1.8 microsecondi… Essere giapponesi significa convivere con le calamità naturali… Perché? Potreste domandarmi. Com’è possibile che così tante persone vivano la propria esistenza quotidiana in un posto così terribile? Non impazziscono dalla paura? In giapponese abbiamo la parola muj.  Significa che tutto è effimero. Tutto ciò che nasce in questo mondo cambia e alla fine scomparirà. Non vi è nulla di eterno o di immutabile su cui possiamo fare affidamento”. In questa sorta di rassegnazione ci sono molte forme di bellezza. Prima tra tutte la volontà di vivere nonostante gli ostacoli, la volontà di sognare; anzi la rivendicazione di essere “sognatori irrealistici” che procedono con vigore e trasformano la loro esistenza, pur consapevoli della propria fragilità.

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Anche essere messinesi vuol dire convivere con le calamità naturali ed essere sognatori irrealistici. Nadia Terranova che è di Messina lo sa quanto i suoi personaggi.  “Il mondo come l’avevo conosciuto finì e ogni cosa amata e odiata disparve”. A Barbara e a Nicola il terremoto regala la libertà. Libertà dai vincoli famigliari, dagli obblighi d’onore, dalla geografia (e infatti le loro due storie si incroceranno). E’ una libertà che si spalanca davanti agli occhi come un baratro. C’è una scena mirabile. In mezzo all’apocalisse, ai palazzi crollati, ai detriti accumulati, ai corpi riversi e ai lamenti indistinti, una donna siede con espressione anodina e guarda nel vuoto. Vicino a lei un gruppo di marinai si dà da fare sopra le macerie. Scavano con le mani. Infine estraggono un piccolo piede, poi una piccola gamba, infine un bambino intero e vivo, piangente. La madre assiste all’operazione in silenzio, la faccia stupita di chi vede il proprio figlio nascere una seconda volta. E ancora: vedremo Barbara nuda, ma è una nudità piena di vergogna, quella di chi è stata umiliata, e tuttavia non sa che sta venendo alla luce un’altra volta. I personaggi di questo libro nascono tutti una seconda volta e questo vale ancor di più per Barbara che si scopre madre, madre per caso, madre con uno strappo, una violenza.

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La maternità stessa è un terremoto, smottamento delle viscere, cambiamento radicale di una vita che si sdoppia. C’è un’interrogazione silenziosa che percorre tutto questo libro: una domanda su cosa sia il materno e quante possano essere le sue declinazioni. Anche l’assenza è una possibile declinazione; è il pensiero galvanizzante che raggiunge Nicola durante la sua prima notte insieme agli altri orfani di Raggio Calabria. “Reggio non esiste più, – disse ancora Emma, ripetendo le parole dei grandi. Nicola non voleva sentirlo. Reggio esisteva, ammaccata ma viva, distrutta ma sempre uguale. Dove c’erano case ci sarebbero state caverne, dove c’erano strade avrebbero potuto costruire sentieri: sarebbe stato semplice sopravvivere. Ventidue bambini insieme erano un popolo intero, se tutti avessero voluto, se li avessero lasciati fare. Eppure, a parte Nicola, sembrava che chiunque non vedesse l’ora di avere un nuovo papà e una nuova mamma”. E così c’è Sabina che non avrebbe mai avuto un neonato, ma ora avrebbe avuto un bambino. Non più un bambino immaginario, ma un in carne e ossa. E’ un pensiero pieno di esaltazione, ma anche di paura, di dubbi, di esitazioni.

Anche se le vicende ruotano intorno al terremoto del 1908, Terranova racconta una storia di donne che ci appaiono contemporanee e vere: nel loro esitare, nel loro porsi quesiti, nel non esaurirsi solo dentro al ruolo di madre. Non c’è più l’esistenza di prima, è nato un altro tempo. Nella città devastata non c’è nemmeno la speranza, al massimo ci sono i miracoli. Intorno c’è la morte, e Barbara ha dentro la vita. Sua figlia si chiamerà Cinzia: non sarà di nessuno, neanche di sua madre; sarà del mondo, del mare, della città.

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