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Non fatevi ingannare da tutta la pariginità di Proust in mostra al Carnavalet

Giulio Silvano

L'autore di Alla ricerca del tempo perduto compie 150 anni, così attraverso tutti i suoi tic, i dettagli della sua vita e persino la sua cerimoniosità sentiamo l'energia di una grande vita universale, dove la pariginità è solo un ornamento. 

In un angolo degli Champs-Elysées, non troppo lontano dal Fouquet’s, si vedono tre volti: Éric Zemmour, Mussolini e Amélie Nothomb. I primi due sulle cover di riviste, una di attualità e l’altra storica, mentre quello della scrittrice belga è sul manifesto per celebrare la vittoria al premio Renaudot. Poi, su un cartello scorrevole lungo il boulevard, subito dopo un poster di un profumo Chanel, appare il volto emaciato e simmetrico di Marcel Proust. Scompare dopo pochi secondi, facendo posto a un film di Louis Garrel. Lo scrittore con le occhiaie, i baffetti, la bocca socchiusa, il fiore bianco sul bavero è come un fantasma che si aggira da qualche giorno per i viali di Parigi e nelle pareti curve delle stazioni del metrò, per pubblicizzare la mostra del Musée Carnavalet.  

Il museo, che occupa due hôtel particulier nel Marais, ha riaperto quest’estate dopo quasi cinque anni di ristrutturazione ed è dedicato alla storia della città; dopo sale di re, imperatori, architetti e rivoluzionari, adesso si arriva fino agli attentati del 2015. Tra gli artefatti risalta un matitone blu di cartapesta usato per la manifestazione “Je suis Charlie”. Nonostante la fama – nello shop si vendono saponette a forma di madeleine – la figura di Proust ha molto poco di nazionalpopolare, troppo formale lui, percepito come snob, filo aristocratico e polveroso, troppo faticosa la sua opera “unica”, quasi 4mila pagine: forse il romanzo che più persone fanno finta di aver letto. Si sente spesso dire, anche in Italia, terra di mille proustiani: “Sai, sto rileggendo la Recherche”. 
L’occasione della mostra “Marcel Proust, un roman parisien”, è l’anniversario della nascita, 150 anni fa, e – non ufficialmente – il centenario della morte che ci sarà nel 2022. Quadri di Pissarro, acquerelli di Place de la Madeleine, cartoline di fine secolo, tele di serate mondane nei ristoranti verandati del Bois de Boulogne, ventagli, poster teatrali, video con carrozze sui viali che trasportano uomini con la tuba; per la natura del museo la mostra sullo scrittore si concentra sul suo rapporto con Parigi, con immagini dei quartieri in cui ha vissuto, e sul setting urbano delle avventure del narratore, di Swann, di Odette, dei Guermantes, dei Saint-Loup e di tutti i personaggi di “Alla ricerca del tempo perduto”, arrondissement dopo arrondissement. A tratti sembrerebbe che si voglia vedere Proust come un cantore del suo tempo, come un cronista della Belle Époque, dimenticandosi la sua universalità. A momenti sembrerebbe che la Recherche sia soprattutto un reportage della frivolezza salottiera della Ville Lumière, e non l’opera di un individuo con un’incredibile percettività e ineguagliabile spirito di osservazione. Emozioni che vanno di pari passo con la sensibilità, visibilissima sul volto del Proust bambino nelle foto presenti alla mostra. Il modo in cui appoggia i piedi, in cui accavalla gli stivali o tiene la mano sotto il mento testimonia inequivocabile delicatezza. Le sue lettere sono commoventi tanta è la deferenza, mescolata con prodigiosa acutezza. Un compagno di scuola, grinzoso e barbuto, lo ricorda negli anni del liceo Condorcet: “Non sembrava essere uno di noi, tanto era straordinario”, rammentando quanto l’accenno di un rifiuto nei suoi confronti gli provocasse immediata tristezza negli occhi. 
Paul Morand e Jean Cocteau, intervistati in video, raccontano tic e dettagli della sua vita, della sua cerimoniosità, del modo in cui Céleste, la materna domestica, chiedeva all’ingresso dell’appartamento: “Avete per caso dato la mano a una donna che ha toccato un fiore?”, per proteggerlo dai pollini che gli avrebbero potuto provocare una crisi d’asma. “Niente, a prima vista, predispone la vita di Proust al prestigio delle grandi biografie”, scrive Roland Barthes. Nella sala con il suo letto, il cappotto, un frammento della parete di sughero e la foto scattata da Man Ray Sur son lit de mort – dove, come dice Cocteau “sembra il capitano Nemo” – sentiamo tutta l’energia di una grande vita universale, dove la pariginità è solo un ornamento
 

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