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l'intervista

Luciano Floridi ci spiega cosa c'è di antico nell'intelligenza artificiale

Ginevra Leganza

"Siamo noi che adattiamo il mondo alle macchine, non viceversa. Nell'AI è presente la tradizione filosofica greca. La differenza con l'intelligenza umana? I computer sono più bravi, ma noi sappiamo adattarci meglio". Chiacchierata con il filosofo di Oxford

Sullo sfondo virtuale dei manoscritti della Biblioteca Bodleiana di Oxford, Luciano Floridi, reduce dalla giornata in accademia, ci dà appuntamento al tramonto su Google Meet. Con Federico Cabitza è autore di Intelligenza Artificiale. L’uso delle nuove macchine (Bompiani, 192 pp., 12 euro), saggio da cui trae spunto questa chiacchierata, partita dai piani alti del trascendente… “Quello che ha fatto madre natura per farci fare questa conversazione è straordinario” dice Floridi. “Per ogni passo avanti la scienza apre scenari stupefacenti, e un qualche dubbio che tutto ciò non sia casuale, io – da agnostico – lo capisco. Che ci sia dietro un architetto sembra quasi ragionevole”.

E infatti lei scrive che è più facile perdere la fede con la storia piuttosto che con la matematica o la geometria.

Tanto tempo fa, prima di votarmi alla logica, studiavo teologia e storia della religione. Posso dire che la scienza tiene aperto lo stupore, la storia chiude tutto all’umano. E quando tutto diventa umano, il divino sparisce”.

E a proposito di storia del pensiero, c’è un legame tra l’intelligenza artificiale e la filosofia del passato?

“Sì. Nella filosofia dell’intelligenza artificiale c’è una radice molto antica, da Pitagora al demiurgo. È presente, ancorché indebolita, la tradizione greca. Risuona Galileo, che fa un’operazione interessante: quella della scienza che legge l’universo scritto in caratteri matematici. Viene poi l’idea di una razionalità calcolatrice. Hobbes diceva che pensare è fare di conto”.

Tuttavia lei scrive che l’AI non è propriamente intelligenza, ma capacità di azione. La macchina che chiamiamo intelligente è un’evoluzione tecnologica dello schiavo?

“In effetti, se prendiamo la definizione di schiavo di Aristotele abbiamo lo stesso concetto che può definire la macchina. Ma penso che dovremmo fare uno sforzo più robusto. L’algoritmo è come un cavallo: ti porta dove vuole se non sai cavalcare, ma se sai domarlo è chiaro che l’intelligente sei tu, non lui. Il binomio schiavo-macchina può anche andar bene, ma bisogna trovare schemi nuovi”.

Abbiamo la tendenza ad antropomorfizzare la macchina?

“Ma a ben vedere quello che costruiamo non è l’androide. Non costruiamo robot antropomorfi che lavano i piatti al posto nostro, abbiamo la lavastoviglie. Io ho due robot in casa: uno pulisce per terra e l’altro taglia l’erba, ma nessuno lo fa come lo farei io. È ovvio pertanto chi controlla chi: siamo noi. Bisogna spingere un po’ più in là la riflessione e chiedersi perché oggi siamo in grado di costruire tutto ciò”.

Perché?

“Io penso che siamo noi che adattiamo il mondo alle macchine e all’intelligenza artificiale, non viceversa. Immagini il giorno in cui costruiremo le piscine affinché siano pulite dalla macchina. Cambierebbe il design degli oggetti. Cambierebbe l’ambiente. Oggi costruiamo finestre rettangolari. Immagini se da domani, siccome i robottini hanno le spazzole rotanti, disegnassimo solo oblò. Io stesso ho cambiato la disposizione di alcuni oggetti nel giardino affinché l’erba possa essere tagliata dal robot. Questo, moltiplicato per mille aspetti della vita – dalla banca alla scuola, dalla sanità alla difesa – è qualcosa che ha una bassa percezione sociale, ma è di forte impatto storico”.

Tornando a Galileo, sarà un universo scritto in caratteri di AI?

“Già oggi andando al supermercato e prendendo la scatola di fagioli, guardando il codice a barre, non lo si può leggere. Non è fatto per i nostri occhi. È fatto per la macchina. Immagini di andare in una città dove al posto dei semafori ci siano segnali acustici o radio. La macchina non prende il segnale visivo tanto bene quanto prende quello radio. Sono piccole cose che fanno capire la gentile e progressiva trasformazione dell’ambiente affinché il mondo sia più adatto alle macchine che a noi, e questo andrebbe visto con molta cautela”.

Può portare a esiti nefasti?

“Penso a Oxford, dove avevano deciso di togliere tutti i pagamenti in contanti per il parcheggio dell’automobile. Bello, sì. Peccato però che metà della popolazione non avesse la carta di credito o lo smartphone. Ecco che è tornato il pagamento in contanti. È come se il green pass fosse disponibile solo su telefonia mobile… Io, per esempio, ho tutto stampato. Se il telefono fa un upgrade nel momento in cui devo esibire i documenti e mi blocca per un’ora in aeroporto?”.

Ma allora i padroni siamo noi o è padrona la macchina?

“Se parliamo dell’umanità siamo noi come collettività. Ma se parliamo degli individui, di noi due che facciamo un’intervista su Google Meet, allora non lo siamo affatto. In questo caso i padroni sono quelli che gestiscono e costruiscono le macchine che noi usiamo. Quando io mi trovo un sistema già fatto, vuol dire che qualcuno ha deciso per me. Ma non è che decide l’algoritmo. Il potere resta in mani umane”.

Tuttavia l’individuo conserva un margine di superiorità morale e intellettuale.

“E questo lo si capisce, per esempio, ogni volta che la tecnologia raggiunge quel senso di ‘brittle’, che indica una rottura improvvisa. Mentre i calzini si consumano man mano, le cadute dell’intelligenza artificiale – proprio perché non è un’intelligenza ma una capacità di azione – sono catastrofiche, nel senso etimologico della parola di ‘cambiamento improvviso’. Se c’è una cosa che caratterizza la stupidità è il genere di cadute che fa fare. I robot e in generale le cose più straordinarie che abbiamo costruito, di fronte all’errore, crollano: il robottino, se c’è un sasso, si ferma, noi lo spostiamo o ci giriamo intorno. L’intelligenza umana è nella capacità di adattarsi. Se gioco a scacchi col mio telefonino e lui è al massimo livello, vincerà sempre lui. Ma se scoppia un incendio lui resta, io scappo”.

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