Wasquewhat, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons 

Nel mezzo del cammin di Liguria e Toscana

Dante era qui, e ci scrisse la Divina commedia

Marco Ballestracci

La Selva oscura si trova probabilmente nella Lunigiana, che non è celebre come la Val d’Orcia, ma è un luogo di mistica letteratura

Nonostante le numerosissime e inevitabili commemorazioni, non è affatto semplice commentare la vita di un poeta morto settecento anni fa. Questo accade perché le vicende dell’esistenza di Dante non sono conosciute con la nitidezza che gli storici amano così tanto. Tuttavia, nella fitta nebbia che circonda una vita conclusasi da sette secoli, pare certo che Dante si sia cimentato con grande vigore nella stesura della Commedia a partire dal 1306 (nonostante il viaggio nell’aldilà s’intenda compiuto durante l’equinozio di primavera del 1300), sotto la protezione di Moroello Malaspina, in qualche castello della Lunigiana, più probabilmente quello di Mulazzo.

 

Questo è uno dei motivi per cui ha preso forza la convinzione che la spessissimo citata Selva Oscura – quella intromessasi nel mezzo del cammin di nostra vita – sia in realtà un bosco molto fitto che, nel Trecento, si trovava da qualche parte tra i castelli malaspiniani di Mulazzo e di Villafranca. Codesto bosco oggi è identificato con la Selva di Filetto che, per la sua sorprendente ampiezza, anche se gli alberi – i castagni – si sono molto diradati, rende possibile un’immedesimazione trecentesca, anche perché tutto intorno è un florilegio di borghi arroccati venuti su a forza di pietre di fiume lavorate dagli scalpellini. È pressoché certo che Dante si trovasse là quando ricevé la notizia che la sua richiesta di perdono – e quindi di revoca del bando di espulsione da Firenze – era stata rifiutata dai priori della città.

Perciò è in Lunigiana che il poeta ebbe per la prima volta il presentimento che non sarebbe ritornato a Firenze e che il suo destino sarebbe stato quello d’un sempiterno “ghibellin fuggiasco”, anche se Dante, a dir la verità, apparteneva al partito dei  guelfi bianchi. Quindi è proprio tra Mulazzo e Villafranca, nella Media Valle del Magra, che la nostalgia di casa prese a vergargli l’animo con veemenza. Poi il Sommo Poeta se ne andò dai castelli malaspiniani e intraprese il girovagare italiano (e probabilmente anche francese) che lo trovò, all’epilogo della sua vita, settecento anni fa, a Ravenna. Tuttavia se Dante partì da quei luoghi, la nostalgia per il posto dove si è nati e cresciuti continuò imperterrita a soggiornare in Lunigiana, tra Pontremoli e Aulla. Ciò è accaduto perché, nonostante geograficamente si stia parlando comunque di Toscana, la Lunigiana non ha avuto il ben conosciuto appeal dei terreni ondulati, così tanto amati da Sting e dagli inglesi, infilati tra Val d’Elsa, Val di Chiana e Val d’Orcia, e a nessuno è mai passato per la testa di mettere del barolo in un decanter spacciandolo per il vino del luogo così da infinocchiare i non autoctoni.

 

Invece è fiera usanza che, tra Pontremoli e Aulla, il vino si faccia col ciliegiolo e con l’uva pollera e se non si gradisce, beh, si può andare altrove, che spazio in questo mondo ce n’è in abbondanza. Perciò, per questa sorta di orgoglio e ostinazione, la Lunigiana, soprattutto a monte del corso del Magra, è stata terra di fortissima emigrazione e quindi di altrettanto fortissime nostalgie. Basta salire verso la fine d’agosto a Montereggio, uno dei luoghi culturalmente (in senso molto lato) significativi , per immergersi in un profondo senso di struggimento. L’incredibile storia dei librai di Montereggio è stata per la prima volta raccontata da Oriana Fallaci in un articolo su Epoca del settembre del 1952 che descrive l’epopea dei “pastori-librai”. L’articolo è reperibile in rete con facilità, perciò si può attingere direttamente alla fonte, ma ciò che ancora oggi balza agli occhi è la straordinaria circostanza che da un paese sperduto in mezzo all’Appennino (il “centro urbano” più vicino è Mulazzo, che è distante da Montereggio otto chilometri di strada tortuosa) in cui oggi risiedono trentacinque persone, siano partite verso tutto il Nord Italia – e poi pure in Francia e in Argentina – le principali famiglie libraie italiane: i Tarantola, i Lazzarelli, i Giovannacci. A questo bisogna aggiungere il non trascurabile dettaglio che là, d’estate, si sente spesso ripetere tra i tavolini all’aperto di Piazza Angelo Rizzoli: “Beh, noi avevamo la principale libreria di Milano, ma sono sicura, me lo ricordo bene, che mia nonna, che stava al banco della libreria, non sapeva né leggere, né scrivere”. Al di là dell’invito a una seria riconsiderazione di ciò che chiamiamo cultura orale e della lezioncina impartita all’odierno scicchismo del mondo librario-editoriale, questa frase è una sorta d’introduzione allo struggimento e alla nostalgia montereggino-lunigianese.


Lo spirito della nonna analfabeta aleggia immancabile nella piazza del paese, mescolandosi con l’ultima generazione di librai che ogni estate ritorna puntuale a Montereggio da Milano, da Novara, da Biella, da Brescia e da Udine. Si ritorna perché non se ne può fare a meno, perché la nostalgia si tramanda, coi cromosomi, di generazione in generazione, che si faccia parte della dinastia dei “pastori-librai” di Oriana Fallaci, oppure che si sia discendenti dei “barsan”, gli ambulanti di tessuti che dalla Lunigiana partivano per vendere i vestiti in Lombardia (“barsan” in dialetto lunigianese significa “bresciano”). Così ogni mattina di fine agosto, come in uno stillicidio, si rinnova il rito della partenza verso il luogo dove si risiede il resto dell’anno. La cerimonia dell’annuale commiato dura molto tempo, perché è necessario salutare tutti, anche se Montereggio e gli altri paesini abbarbicati intorno contano ormai poche decine d’abitanti. “Oh oui, tornerò a Monterégio anche l’anèe prochaine e ci vediamò di sicurò”. L’anziana signora francese d’origine montereggina che sale sul pick-up col numero di targa del dipartimento della Doubs sa perfettamente che potrebbe trattarsi dell’ultimo soggiorno nell’antica casa di Borgo Giangiacomo Feltrinelli, ma le è altrettanto chiaro che la nostalgia che l’assalirà non appena varcato il casello autostradale di Pontremoli potrà essere rintuzzata solo dalla certezza d’un prossimo ritorno.

 

Questo sentimento s’incontra dappertutto nell’Alta Lunigiana, ma spesso è cronaca di una nostalgia passata perché molti, dopo aver raggiunto l’età della pensione, sono tornati alle vecchie case di famiglia e adesso, con la soddisfazione di chi sta bene dove sta, si concedono pure il lusso di scuotere la testa e tenere uno sguardo corrucciato davanti ai forestieri: “Eh, in questi posti gli inverni sono lunghi, molto lunghi da passare…”, ma non trascorre molto tempo perché, seduti sotto alla veranda del bar di fronte alla Selva Oscura di Filetto, uomini grossi come alberi raccontino la verità. “Mi son trasferito per lavorare in un paese attaccato a Parma e ogni giorno passavo mezze ore a guardare l’Appennino e a pensare al mio paese che stava di là. Una settimana che non son potuto venir giù per la Fiera di San Genesio ero così avvilito che quando son tornato sono andato di filato nei campi di mio padre, ho scavato una buca e ho riempito una sporta di terra che mi son portato a casa. Così che ogni volta che a Parma mi sentivo un po’ giù di morale aprivo la borsa, annusavo la terra e c’infilavo le mani dentro”. Nessuna delle persone sedute sotto la veranda ha battuto ciglio e neppure ha accennato a un sorriso: una sorta di impassibilità confermante e di condivisione che si ritrova persino nell’ottavo canto del Purgatorio, quando parla l’anima di Corrado Malaspina. “Se la lucerna che ti mena in alto / truovi nel tuo arbitrio tanta cera / quant’è mestiere infinito al sommo smalto” / cominciò ella, “se novella vera / di Val di Magra o di parte vicina / sai, dillo a me, che già grande là era”.

A questo punto c’è da chiedersi se davvero, all’inizio del Trecento, sia stata la nostalgia di Dante a impregnare la terra dell’Alta Lunigiana o se, al contrario, sia stata l’indole innata di questa terra a influenzare il Sommo Poeta. C’è anche da chiedersi se chi transita in questi luoghi un poco irsuti conosca il grande potere del sortilegio che li pervade. Chissà se ne sono al corrente i numerosi camminatori della Via Francigena che da Pontremoli scendono a Filattiera e poi alla Selva Oscura di Filetto, e che, sul tragitto, incontrano luoghi come Virgoletta o, se attraversano il Magra, Mulazzo, che il tempo ha definitivamente cristallizzato nel Medio Evo. Chissà  se lo conoscono i turisti olandesi e inglesi – nazionalità svincolate dal cadenzato ritorno degli emigranti – che prendono casa qui perché nelle nobili Val d’Orcia e contermini ormai anche i ruderi più malandati hanno un prezzo fuori da ogni grazia di Dio.

È comunque certo che, se si sale in uno di quei paesi rupestri che – appena sbucati dal Valico Autostradale della Cisa – si osservano annidati sopra le colline, si possono incontrare persone che, tra loro, parlano l’inglese largo degli americani e che, persino, officiano il rito in inglese nelle chiesettine di quei borghi dimenticati. Può addirittura capitare di imbattersi nella famiglia d’un dirigente della Mellon, la Banca di New York, che trascorre l’estate in una casa che ha acquistato e restaurato in una frazione di neppure venti abitanti, ma che, per come è collocata, è una terrazza naturale da cui, nei giorni di aria tersa, lo sguardo scende lungo le colline della Lunigiana sino a La Spezia e al mare. Perché la nostalgia è anche una questione di panorami e quindi di terrazze che guardano le spettinate colline lunigianesi. Così, se si ha un po’ di fortuna, a Montereggio ci si può imbattere in un discendente delle leggendarie famiglie dei “pastori-librai” che per far comprendere la ragione per cui, quasi ogni fine settimana, torna tra i trentacinque residenti del “paese del libro”, accompagna l’ospite sulla grande terrazza della casa di famiglia che domina la valle. Allora, nonostante Dante abbia a lungo risieduto a non più di otto chilometri da qui, pare di sentir risuonare il verso d’un altro. D’uno che ha scritto: “E come il vento odo stormir tra queste piante, io a quell’infinito silenzio a questa voce vo comparando”.

 

Probabilmente è per questa ragione che il giuramento dei librai pontremolesi che Oriana Fallaci descrive nell’articolo del 1952, quello di “ritrovarsi nel nostro paese, in un dato giorno, a questa stessa ora, finché Iddio ci conserva e farci una bella mangiata”, da un po’ di anni viene confermato proprio su questa terrazza montereggina che permette di osservare quegli “interminati spazi” celebrati da quest’altro grande poeta che, purtroppo, dovrà attendere sedici anni per essere ricordato come si deve. Perché, già lo annunciamo, solo nel 2037 saranno duecento anni dalla morte di Giacomo Leopardi.

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