Vincenzo Campo (foto LaPresse)

Facce Dispari

Vincenzo Campo, editore di libri con l'anima

Francesco Palmieri

Alla scoperta delle Edizioni Henry Beyle. Oltre duecento titoli, quindici collane, testi brevi su carte elegantissime. Ma non chiamatele snob

Le sue interviste sono come i libri che pubblica: a tiratura limitata ma di pregio (e se questa non lo fosse, non dategli la colpa). Perché Vincenzo Campo, per nascita professionale docente di lettere, editore per successiva definitiva scelta, mostra spiccata propensione al pubblico silenzio e alla chiacchiera privata, quell’arte che si dilata e si condensa nel “conversare”, opposto al verbo “intervistare” come sanno solo gli happy few. Qui l’abusato richiamo stendhaliano si legittima ampiamente, perché è il grande romanziere francese il dio eponimo delle Edizioni Henry Beyle: la “y” nel nome non è refuso o è un refuso voluto, come spiegherà tra poco Vincenzo Campo, siciliano di Giuliana (paese collinare federiciano dell’entroterra palermitano) trasferitosi da molti anni a Milano. Dove vive e realizza i testi della sua casa editrice.

 

Oltre duecento titoli, quindici collane, testi generalmente assai brevi su carte elegantissime realizzate in monotype o in offset, artigianato controcorrente per lettori anche bibliofili o per bibliofili che, addirittura, leggono ciò che comprano. Accomunati tutti dalla voglia di “ospitare” anziché accatastare libri sui propri scaffali. I prezzi di copertina, considerando i costi e le esilissime tirature, sono alti o comunque ragionevoli? Dipende dai punti di vista: chi ancora gode del piacere di fumare può compararli alla spesa di una stecca e valutare il libro sul numero di sigarette detratto il senso di colpa. Chi non fuma sarà per una volta più svantaggiato.

 

Professor Campo, a cosa aspira con un libro?

Al piacere di avere sul tavolo, o negli scaffali della propria libreria, un oggetto di pregio e immutabile dai tempi di Aldo Manuzio fino a noi.

 

Quando è nata la sua casa editrice e perché?

E’ nata a Milano il 19 marzo 2009, giorno di san Giuseppe, data parzialmente casuale perché fu quella in cui il notaio mi fissò l’appuntamento, divenuta poi data simbolica perché il santo attinge a una ricca tradizione religiosa e ha attraversato la mia infanzia. Quindi il caso si è rivelato, a posteriori, di particolare interesse e piacere. Perché nacque la Henry Beyle? Naturalmente non immaginavo tutto quello che sarebbe accaduto, assai più modesto era il proposito originario: fare un libro all’anno quale strenna per gli amici che avesse a tema la bibliofilia. Insomma un libro su altri libri. Però curato in ogni dettaglio, con tecniche tipografiche ormai remote o quasi dismesse, quindi in numero limitato di pagine e copie in forza o in virtù dei costi. Un oggetto libro agli antipodi di quelli raffazzonati e poco piacevoli che già allora, e ancor più adesso, si vedono sovente in giro.

 

Com’è approdato al mondo editoriale?

Mi ero occupato di editoria scolastica dal 1984, quando cominciai a insegnare nelle scuole superiori. L’orizzonte delle letture per gli studenti era confinato a ‘I promessi sposi’ e alla ‘Eneide’, sicché avvertivo, io come altri docenti, la necessità di allargarlo. Leggere per obbligo è già un incivile paradosso, è la certificazione di una impossibilità. Figuriamoci se si comincia con ‘I promessi sposi’, che costituiscono piuttosto l’imprescindibile punto di arrivo, uno dei tanti possibili, nel percorso di un lettore. Ebbi modo di conoscere, in questa mia iniziale attività, figure fondamentali come Salvatore Guglielmino e Federico Roncoroni, che sono riusciti con i loro testi per la scuola ad esprimere al meglio l’esigenza di un’offerta più ricca ma qualificata agli studenti, oggi molto meno sentita rispetto agli anni Ottanta. Allora anche Adelphi collaborò con La Nuova Italia all’arricchimento della scolastica, seguendo il percorso aperto dalla Einaudi con la collana di letture per le scuole medie. Inizialmente ho lavorato con la storica casa editrice napoletana Morano, e quando quella esperienza si concluse la continuai con Elvira Sellerio. La conobbi nel 1996 e tuttora la ricordo con infinita stima e ammirazione. Estrapolammo dal suo catalogo generale i titoli che più potevano prestarsi alle letture adolescenziali per temi, situazioni e stile narrativo.

 

Quest’antefatto è già la genesi delle Edizioni Henry Beyle?

La Henry Beyle nacque quando raggiunsi e ahimé superai l’età sinodale delle perpetue. Feci questa boutade già in altra occasione e mi arrivarono alcune e-mail risentite di giovani editori, quasi che ponendo un rimando anagrafico intendessi impedire loro ogni sopravvivenza.

 

E invece?

Non ho dubbi che fare l’editore sia l’ultimo tratto di un ultimo viaggio in ferrovia. Giriamo pagina, prendiamo a immagine il film ‘Karate Kid’: il maestro, al bambino che vuol imparare l’arte, fa pulire l’automobile con uno straccio perché con quei gesti, in apparenza estranei all’apprendimento specifico, assimila i movimenti fondamentali.

 

Ma ancora non abbiamo raccontato la ragione dell’intitolazione a Stendhal, o meglio al suo nome anagrafico: Henri, il suo è con la “i”, Beyle.

Prima di tutto perché mi piacerebbe molto iscrivermi al club stendhaliano. Intendiamoci: sono un semplice lettore, non uno studioso, uno che lo rilegge quasi ogni anno e lo ama oltre misura venendo sempre catturato pagina dopo pagina dalla successione delle peripezie e dei moti del cuore, cangianti tutte le volte a seconda dell’umore e del tempo in cui ogni nuova rilettura avviene. Come si sa, detestando il padre, Henri passò gran tempo della vita a inventare pseudonimi dietro cui celare la sua identità. Tolse quello di Stendhal forse da una città tedesca dove aveva contratto, per inciso, anche una malattia venerea. Così è scritto almeno, e dunque è vero.

 

Lei invece ha ripreso, per la sua casa editrice, il vero nome dello scrittore.

Pensai che se lui aveva usato Stendhal per nascondere Beyle, io avrei usato Beyle per nascondere il mio nome.

 

Ma la “y”?

Qui il rimando è a Leonardo Sciascia e alla sua scala stendhaliana: metteva al primo livello i lettori per i quali il capolavoro è ‘Il rosso e il nero’, al secondo quelli che optano per ‘La Certosa di Parma’ e al culmine chi ritiene sia ‘La vita di Henry Brulard’, libro autobiografico. Questo è l’Henry con la “y” che ho messo innanzi a Beyle. Se pare un refuso lo trovo ancor più piacevole. Anzi, una sorta di ammonimento e talismano contro i refusi.

 

Le sono capitati? Ne ha paura?

Non dovrebbero mai capitare anche se, come dice il mio tipografo, l’ultimo correttore è il lettore. Se qualcuno dovesse scrivermi apposta per segnalarmi un refuso, ne rimarrei annerito per giorni anche se non è il refuso che fa il libro. In ogni caso bisogna far di tutto perché non ve ne siano. Un giorno mi sono arreso: è successo con un testo di Valentino Bompiani, ‘Vari tipi di editore’: anziché mandare tutto al macero ho inserito in ogni copia un minuto foglietto con l’errata corrige. Ammonimento e segno della finitezza di ogni opera umana.

 

Perché fare l’editore?

Le dico per me: con la Henry Beyle ho conseguito due obiettivi estremamente piacevoli. Il primo è avere messo assieme un catalogo in cui mi riconosco molto. Il secondo è l’amicizia. Ricorro a una riflessione di Ferdinando Scianna che gran parte ha avuto ed ha in questa storia editoriale: esiste una forma di amicizia legata alla giovinezza, o addirittura all’infanzia, che può prolungarsi per tutta la vita. Poi c’è, più rara, l’amicizia che sboccia da adulti, la migliore in questa categoria è quella nata tra persone unite dall’intento di fare uno o più libri. Per meglio dire: di infondere l’anima a un libro.

 

Cos’è un libro con l’anima?

Lo spiego ‘a contrario’ con una battuta di Giuseppe Ungaretti, il quale nelle sue prime esperienze di poeta fu pubblicato con rarissima maestria. Quando passò a uno dei più grandi editori dell’epoca, Vallecchi, questi gli mandò la copia staffetta del suo volume di poesie. Ungaretti appena la ebbe in mano gli scrisse: ‘Questo libro non ha anima di libro’. Era solo un prodotto editoriale. E lo rifiutò.

 

Roberto Calasso ha spesso rimarcato il concetto di “libro unico”. Cosa ne pensa?

Il concetto, secondo me, si snoda in due diverse accezioni: una riferita ai singoli libri pubblicati rispetto agli altri di uno stesso autore, la seconda nel senso che i libri della casa editrice diventano parte di un unico libro che è la somma di tutti quelli pubblicati. Calasso è stato in questo, ma naturalmente non solo in questo, un incomparabile editore. Ciò premesso, io mi sento all’opposto: desidero appartenere al numero degli editori che non scrivono di quel che fanno. Parla, racconta, il catalogo. Ma se un giorno decidessi, seguirei il desiderio di Vanni Scheiwiller: fare un libro sui libri che avrei voluto e non sono riuscito a pubblicare per disparati motivi, dagli impedimenti di tipo legale a quelli connessi alla concessione o al costo dei diritti, eccetera. È un elenco di cui il lettore non viene mai a conoscenza, sono i silenzi del catalogo.

 

Quanto conta il caso nella formazione del suo catalogo?

Non è che uno si sveglia al mattino e progetta d’improvviso un certo libro. Anche se questo può succedere, lo cerco. Facciamo un esempio: ho pubblicato tre quaderni del filosofo Guido Calogero, brevi monografie dedicate ad Aristotele, Socrate e Platone: 375 copie numerate, stampa in monotype, carta Zerkall Bütten, cucitura a mano. Come ho scovato questi Calogero? Girando e frugando tra mercatini mi è capitata una vecchia edizione della Eri, che produceva libri, antologie soprattutto, ricche di fascino, sovente trascrizioni di trasmissioni radiofoniche. Più che al caso in sé e per sé, credo alla dote del saper vedere.

 

Lei pubblica libri intonsi per i quali è necessario il tagliacarte. Non rischia di sconfinare nello snobismo?

I libri intonsi accrescono il piacere del lettore. Un tempo egli tagliava le pagine fin dove aveva letto e da lì ricominciava con questo segnalibro naturale, magari avendo già provato il gusto di sbirciare tra i fogli ancora chiusi le pagine che seguivano. Inutile paragonare la cura che si dedica a questa lettura a quella su kindle, che non regala la sensazione tattile della carta né quella visiva dei rapporti tra stampa e spazi bianchi. Si tratta di due universi antitetici. Il supporto elettronico offre l’indubitabile vantaggio pratico di portarsi dietro una intera biblioteca, ma io guardo a quell’altro universo, alle vergature della carta, agli spazi architettonici del testo… Molti ricorderanno la bellezza e la sapienza grafica della collana Nuova Universale Einaudi, disegnata da Bruno Munari e inaugurata nel ’62 con i ‘Canti’ di Giacomo Leopardi. Il mio intento di editore è stato questo: dedicare tutte le forze intellettive per costruire un oggetto di indiscutibile eleganza. Naturalmente, anche il gusto è figlio del suo tempo, per cui un libro che oggi sembra bello potrebbe domani risultare pacchiano. Ma è inevitabile. Speriamo di non vederlo.

 

Un testo letto in edizioni e formati diversi, in cartaceo o in digitale, è davvero lo stesso testo? E un libro riletto è sempre lo stesso libro?

Le porto proprio il caso di Stendhal. Stavo lavorando alla pubblicazione di Giuseppe Barbera, ‘Breve storia degli alberi da lettura’, che illustra gli intrecci fra alberi e libri. Al contempo rileggevo ‘Il rosso e il nero’, quando mi imbatto in un passaggio in cui il protagonista Julien Sorel trova negli alberi i suoi unici amici. Non so quante volte avevo letto il romanzo, ma non ricordavo per nulla quella frase. Il libro di Barbera me la svelava come se non l’avessi mai veduta prima.

 

Qual è il lettore tipo delle edizioni Henry Beyle?

Non m’interessa tracciare identikit. Preferisco pensare di aver creato un gruppo di sconosciuti amici, gente che non si è mai incontrata, non ha cenato insieme però risulta accomunata dal gusto per gli stessi libri e dal desiderio non soltanto di leggerli, ma di ospitarli a casa propria.

 

L’understatement sembra essere una sua cifra caratteriale. Non è anche questo una declinazione della vanità?

No. Sono al contrario inesorabilmente colpito dalla sindrome dell’impostore – Franz Kafka nei suoi Diari ne scrive in modo mirabile – la cui genesi mi affascina molto. Mi sento certo anch’io di non avere meritato ciò che potrei vantare. Questa convinzione mi coglie tanto spesso da procurarmi il desiderio acuto, se non di scomparire, di tendere al silenzio. Cosa davvero estremamente difficile, quasi quanto pubblicare un libro ben fatto, senza refusi sia inteso.

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