Carla Gravina e Ugo Pagliai nella prima puntata del “Segno del comando”, regia di Daniele D’Anza, disponibile su RaiPlay

il foglio del weekend

La Roma degli spiriti

L'oriente e Jung, Fellini e l'Adelphi. E l'intreccio, nella capitale di allora, fra mondi occulti alti e bassi, tra finzione artistica e biografie personali

Francesco Palmieri

Una fiction che nel 1971 spiazzò tutti con Ugo Pagliai e Carla Gravina. Per cinque domeniche  irretì e  inquietò un’audience di 15 milioni di italiani. Era la risposta della tv alla montante domanda di mistero di quegli anni

“Voltai le spalle al Signore
e camminai sui sentieri del peccato.
Voltai le spalle al Signore
e quando il tempo finì
seppi che ero giunto dove non dovevo”
(B. Vitali, Salmo XVII)

 

Quando Lancelot Edward Forster, professore a Cambridge, bussò al civico 33 di via Margutta per domandare del pittore Marco Tagliaferri, i due fantasmi più famosi di Roma, la soave Beatrice Cenci e la burbanzosa Donna Olimpia Maidalchini Pamphilj appresero che con un’altra, da quel momento, avrebbero dovuto spartire il dominio delle ombre. Questa terza si chiamava Lucia e basta. Imprecisato cognome. Era stata la modella di Tagliaferri, morta come lui nel 1871 ma con facoltà di tornare, o meglio riapparire al solo professor Forster in un pugno di giorni allucinati cent’anni dopo il suo trapasso, nel marzo 1971. Lasciando alla fine della storia sia il professore sia i telespettatori, pure i più attenti, nella sospesa no-man’s-land delle congetture personali.

Mezzo secolo è trascorso dalla messa in onda dello sceneggiato televisivo Il Segno del comando, che per cinque domeniche consecutive a partire dal 16 maggio irretì, inquietò e insegnò a una audience di circa 15 milioni di italiani, obbligati d’altronde al palinsesto unico del Programma Nazionale. Li irretì con l’amore chimerico tra Ugo Pagliai, che era Forster, e Carla Gravina, che interpretava Lucia; li inquietò per l’ingarbugliato mistero di una caccia al tesoro bordeggiante la spy story dietro il romantico lascito del più romantico tra i poeti, Lord George Gordon Byron, testimonianza del suo soggiorno romano nel 1817; ma soprattutto insegnò a frugarsi in tasca per scovare un’altra chiave di lettura degli eventi, quella sofisticata e controversa dell’esoterismo. O, con un termine che ebbe fortuna negli anni successivi, della parapsicologia.

Mai prima, sullo schermo grande o piccolo, la Capitale aveva fatto da scenario a una storia di fantasmi, se si esclude la graziosa commedia Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli del 1961, con un cast barocco che includeva tra gli altri Mastroianni, Eduardo, Gassman, Buazzelli e Sandra Milo.

Forse per distrazione della dirigenza aziendale, per una sottovalutazione degli effetti o piuttosto per l’assecondamento di una voga culturale, la Rai dischiudeva una breccia alle delicate tematiche della reincarnazione, dello spiritismo e della magia nera, con una sceneggiatura scandita sui tempi lenti e l’impostazione teatrale dell’epoca (quando del resto molti spezzavano la giornata lavorativa rincasando a pranzo e godendosi mezz’ora di “pennica”). Si trattava, al contempo, di una sceneggiatura che oggi verrebbe forse bocciata perché troppo colta: dal diario di Lord Byron (allora non ci si preoccupò che la casalinga di Voghera dicesse: Chi è costui?), apocrifo ma reinventato con credibilità, alla negromanzia del Settecento fino all’immaginaria riscoperta di un musicista minore e maledetto, Baldassarre Vitali. A suo nome fu scritta ad hoc persino una partitura per organo, racchiudendo in questo soi-disant Salmo XVII, o “Della doppia morte”, la chiave metrica per la soluzione del mistero (dalle battute musicali si ricavava un certo numero di passi per giungere al “tesoro”). Autore della meravigliosa finzione per note fu Romolo Grano, polistrumentista, compositore di colonne sonore per gli sceneggiati Rai con una formazione sia classica sia d’avanguardia, avendo frequentato a Darmstadt le ultime evoluzioni della musica contemporanea. Opachi restano i suoi più recenti sviluppi di carriera perché, come i lettori provveduti sanno per esperienza, esiste sempre una quota fisiologica di artisti scomparsi prima della scomparsa, come accade a chi tra la gente che lascia una sala s’attarda per vari motivi all’interno, senza accodarsi a nessuno, poi s’accorge che quelli hanno chiuso la porta e lui è rimasto solo in un locale cui per praticità diamo il nome di “oblio”.

Eppure, anche chi non ha visto Il Segno del comando né ha mai sentito parlarne avrà probabilmente ascoltato la canzone Cento campane, sua evocativa sigla di apertura e chiusura, composta da Grano su testo dell’attore e poeta romanesco Fiorenzo Fiorentini, eseguita nella versione originale da Nico dei Gabbiani, ossia il siciliano Nicola Tirone, cui tuttavia Lando Fiorini avrebbe scippato il successo del brano, subito retrodatato come accade per i classici a un tempo senza tempo – magari l’Ottocento – per un’altra delle stranezze che avvolsero Il Segno del comando durante e dopo la lavorazione. Pagliai, per dirne una, ha rievocato di recente l’impazzimento dell’orologio affidato a una segretaria di edizione, che doveva misurare la durata del Salmo di Vitali ma al termine s’accorse che le lancette s’erano mosse all’indietro. In più, vari piccoli incidenti sul set: porte che sbattevano da sole, malori improvvisi e insomma il repertorio classico dell’autosuggestione o di burlette spettrali, chissà.

Accese, l’arrivo del professor Forster in via Margutta, l’interesse pop per l’occultismo gettando tra quei milioni di spettatori d’ogni età i semi da cui sarebbero germinate piante diverse e imprevedibili: arbusti scontraffatti, malfermi alberelli o tronchi fruttuosi in apertura del decennio più cruento e plumbeo per l’Italia del Novecento, che culminò nel 1978 con l’assassinio di Aldo Moro. Il gioco della sorte, che chi scrive non s’azzarda a valutare, volle che il corpo del presidente democristiano ucciso dalle Brigate Rosse fosse ritrovato un 9 di maggio – quasi il settimo anniversario della prima messa in onda del Segno del comando – nella Renault 4 parcheggiata in via Caetani presso il Palazzo Mattei di Giove, che con il nome di Palazzo Anchisi era stato teatro di alcune scene clou dello sceneggiato. Lì faceva capo il circolo occultistico manovratore della trama ai danni del professor Forster, attirato a Roma grazie a un fotomontaggio che contraffaceva una imprecisata piazza capitolina dipinta dal Tagliaferri nell’Ottocento. Gli occultisti volevano sfruttare la competenza dello studioso per ritrovare il magico talismano conosciuto come Segno del comando. Al contempo l’addetto culturale dell’ambasciata britannica, nei fatti un funzionario dell’intelligence di sua maestà, contendeva a un mercante irlandese la scoperta del medesimo nascondiglio perché era stato utilizzato, nella Seconda guerra mondiale, da un ufficiale delle SS per celare un importante carteggio. Tutti quanti, gli occultisti di Palazzo Anchisi, la spia inglese e il mercante, contavano per i rispettivi scopi sulla decrittazione del diario inedito di Byron, di cui soltanto Forster sarebbe stato capace. Lui riuscirà a individuare l’arcana locazione, cui il poeta aveva alluso in una pagina ermetica, e alfine si salverà grazie all’aiuto di Lucia: fantasma soccorrevole ovvero, se siete irrimediabilmente scettici, ambigua esca umana per abbindolare il professore.

 

(En passant: un ulteriore incistamento della fiction nella cronaca, oggi diventata storia, fece sì che nella vana ricerca del nascondiglio di Moro, a “Gradoli”, s’intromettesse una seduta spiritica allestita da esponenti dall’indiscusso pedigree cattolico, i quali evidentemente non aborrivano la medianità malgrado la condanna ecclesiastica, oppure subivano le medesime suggestioni proposte nello sceneggiato sette anni prima).

 

Generò ancora, Il Segno del comando, un dimenticabile remake a colori nel 1992 e sperimentò persino una declinazione nella musica rock con una band genovese battezzata a suo nome. E ancora: schiere minoritarie non esigue di appassionati, singoli o a gruppi, tuttora condividono maniacali ma accurate esegesi sui social network con dibattiti e visite ai luoghi di culto del set nell’altra Roma. Quella cupa, ferrigna e gotica che fa da luna al sole delle grandi bellezze monumentali, delle miserrime immondizie rigurgitate dai cassonetti, delle grevi amatriciane politiche diurne e degli Angelus meridiani.

Chi poteva immaginare, al punto che ancora ne scriviamo, tale duraturo successo nell’autunno 1968, quando Giuseppe D’Agata e Flaminio Bollini detto Flem passeggiavano con l’intento di imbastire una storia diversa perché – il primo avrebbe raccontato una quindicina d’anni dopo – “un’ondata di interesse per le scienze occulte era salita in quegli anni in tutti i settori dell’industria culturale internazionale, dal cinema all’editoria, ma la richiesta di ‘tuffi’ nel mistero, che anche il pubblico italiano esprimeva, non aveva ancora trovato una risposta nei programmi televisivi”. Maturarono l’idea di quest’azzardo e un po’ esitarono anche loro, poiché la sceneggiatura fu stesa solo nel ’70 e affidata per la realizzazione a un maestro del suo genere, Daniele D’Anza, suscitando il ritiro di Bollini che aspirava per sé alla regia (intanto viveva un periodo di abbattimento per una crisi sentimentale).

Come sovente accade, a raccontare bene Roma erano i non romani: milanesi Bollini e D’Anza, bolognese D’Agata (una costante confermata da Pasolini, Flaiano, Fellini, Sorrentino…). Comunque gente che aveva studiato la materia: piaccia o no l’occultismo, vari dettagli rivelano la credibilità delle fonti cui attinsero gli autori e cui la scenografia di Nicola Rubertelli aderì, persino in una svelta inquadratura di un Albero delle sephiroth nella hall dell’immaginario Albergo Galba sulla Scalinata di Trinità dei Monti. Viene alloggiato qui il professor Forster, il quale tra le frenetiche peripezie ispirate dal diario byroniano si sospetta reincarnazione dell’orafo negromante Ilario Brandani, forgiatore del medaglione con civetta che si scoprirà essere il Segno del comando. La sua anima sarebbe già trasmigrata una volta nel pittore Tagliaferri, il cui spettro s’intravede in una taverna trasteverina e nel Cimitero degli Inglesi, e che è effigiato in un disegno al Caffè Greco. Baffi e basette a parte, è proprio uguale a Forster.

Fu davvero la Rai dell’unico Programma Nazionale, quella su cui magari anche il Pontefice indugiava qualche domenica sera, a trasmettere nella sigla di chiusura dello sceneggiato una grafica con le immagini dei diavoli Asmodeo e Belzebù, tratte dall’ottocentesco Dizionario infernale di Collin de Plancy, e che riproduceva i pentacoli del manuale tramandato nei secoli come Grimorio di Papa Onorio, riproposto nel primo volume della Magia pratica che sarebbe uscito a luglio di quel 1971 a firma di un “misterioso” Jorg Sabellicus per le Edizioni Mediterranee. Sì, fu davvero quella Rai (lo sceneggiato, dopo sporadiche pubblicazioni in dvd, è ora fruibile su RaiPlay). A stretto giro Il Segno del comando avrebbe ispirato per alcune tematiche, senza che mai lo eguagliassero, Esp diretto ancora da D’Anza nel ’73 e Ritratto di donna velata con Flem Bollini finalmente regista nel ’75.

Sentiamo cosa ne ricorda e cosa pensa cinquant’anni dopo quello Jorg Sabellicus, pseudonimo dell’ingegnere e scrittore Sebastiano Fusco, che è stato fra i padri putativi del genere fantasy in Italia e fra i promotori della nostrana conoscenza di H. P. Lovecraft: “Noi che fino a quel momento eravamo stati in pochi a interessarci di fantascienza o di parapsicologia, ed eravamo sogguardati dagli altri come individui bizzarri, all’improvviso scoprimmo che quei temi erano diventati di interesse generale, in Italia come già prima in molti paesi”, rievoca Fusco. “La mia personale lettura è che quell’atmosfera collettiva, alimentata anche dal Segno del comando, si generò quale reazione al ’68, che aveva banalizzato e razionalizzato tutto riducendo ogni cosa a una dialettica economica, a un marxismo che annullava ogni istanza superiore. Nello stesso tempo, la Chiesa cattolica si andava secolarizzando per assomigliare sempre più a una ong che si preoccupa del benessere delle persone, ma non parla più all’anima e dell’anima. Ecco, l’occultismo in tutte le declinazioni restituiva soprattutto ai giovani quel mundus imaginalis che rende possibile una più ampia lettura della realtà, grazie a un tipo di cultura in cui si recupera principalmente il valore dei simboli. Sono questi che sommuovono qualcosa di profondo nell’uomo interiore, perché come avrebbe detto Jung riguardano l’inconscio collettivo, e per tale motivo è plausibile che gli sceneggiatori del Segno del comando, anche senza essere iniziati a una scuola esoterica, attingessero inconsapevolmente a certe fonti suggestive con un meccanismo quasi intuitivo”, aggiunge Fusco.

Tra che D’Agata e Bollini concepirono e redassero la sceneggiatura, Rusconi stampava nel 1970 la prima edizione italiana integrale del Signore degli Anelli di Tolkien per volontà di Elémire Zolla. E un anno prima la casa editrice romana Astrolabio Ubaldini aveva pubblicato un testo del principale orientalista italiano, Giuseppe Tucci, che resterà pietra miliare: Teoria e pratica del Mandala, di cui è significativo il sottotitolo “con speciale riguardo alla moderna psicologia del profondo”. L’Oriente e Jung prendono casa assieme in un rimodernato “Condominio della spiritualità” dove convivono, senza contrapposizioni ma a diversi livelli, gli oroscopi della portineria; le vetuste tradizioni magiche e teosofiche al piano ammezzato; l’orientalismo, Guénon e la meditazione al piano nobile. Infine ti ritrovi l’occultismo condensato nel Segno del comando lassù, in una mansarda zeppa di attrezzi narrativi sofisticati e dozzinali in un confuso ma intrigante accatastamento.

L’esuberante domanda di spiritualità era già lievitata all’estero nel decennio precedente. Ne fu esempio clamoroso il bestseller francese di Louis Pauwels e Jacques Bergier, Il mattino dei maghi, tradotto nel ’63 in italiano, cui seguirono la popolarità della rivista Planète e il successo del realismo fantastico. Ora l’onda montava anche in Italia dopo il furor sessantottino, mentre già covava silente il furor del terrorismo politico. La diffusione del genere fantasy e dell’esoterismo, benché pagando dazio a mille storture, incrinava le dighe erette nella cultura nazionale dalle due opposte Chiese, cattolica e marxista, e la divulgazione delle filosofie orientali sprovincializzava gli intellettuali canonici da un’ostinata visione eurocentrica. Lo storico delle religioni Mircea Eliade avrebbe commentato: “Per quanto ingenuo o addirittura ridicolo possa essere il modo in cui queste idee vengono espresse, in esse si manifesta però la tacita convinzione che esiste una via per uscire dal caos della vita moderna e che questa via implica un’iniziazione a – e quindi la rivelazione di – segreti venerabili”.

Quei “segreti venerabili”, tra i piani alti del “Condominio della spiritualità”, s’andavano modellando anche sotto forma di un ambizioso catalogo editoriale, che recuperava “libri unici” irreperibili in italiano o stampati sotto sigle marginalizzate. Così, nel fatidico 1971, Roberto Calasso assume le funzioni di direttore editoriale dell’Adelphi, un progetto maturato grazie all’incontro con Bobi Bazlen, da vivo e da morto imprendibile fantasma di cui inseguì le tracce il formidabile Daniele Del Giudice nel romanzo d’esordio Lo stadio di Wimbledon del 1983

 

L’opinionista tv (e matematico) Piergiorgio Odifreddi, il quale ha dedicato a Calasso un obituary arsenicato lamentando gli “infiniti danni” addotti dalla sua “antiscientifica” editrice alla cultura italiana, ascriverebbe al caso un dettaglio che colpisce invece i lettori di “ciarlatani come René Guénon o Elémire Zolla” e di “scienziati in libera uscita” come Pauli, Capra, Zellini (parole di Odifreddi). Una curiosa psicogeografia, il dettaglio è questo, volle che la dimora di Bazlen, cui Calasso bussò per la prima volta accompagnato proprio da Zolla, si trovasse in via Margutta (al numero 7, primo piano) come quella del fantasma di Lucia cui avrebbe bussato l’immaginario professor Forster. Ha ricordato Calasso nel volumetto Bobi, approdato in libreria a luglio scorso nel giorno della sua morte (Odifreddi giudicherebbe una casualità anche questa): “Prima che dilagasse la parola boom, via Margutta era una tranquilla strada di paese, ricolma di botteghe di corniciai, restauratori, copisti – e qualche antiquario ambizioso”.

Nella stessa strada, al civico 110, avrebbe abitato Federico Fellini, che con Bazlen e Calasso condivise la frequentazione dello psicanalista junghiano Ernst Bernhard, il cui appartamento era nella vicina via Gregoriana al numero 12. Fu questo studioso berlinese (salvato dal citato Tucci da un campo di concentramento durante la guerra) a iniziare Bobi e Federico alla consultazione del classico oracolare cinese Yijing, il Libro dei Mutamenti, e ne lasciò il proprio esemplare personale in eredità al regista che non avrebbe mai smesso di interpellarlo. Esiste un intreccio, nella Roma di allora, fra mondi occulti alti e bassi, fra il passatempo borghese di Giulietta degli spiriti e l’approfondimento adelphiano, tra la finzione artistica e le biografie personali. Fa fugacissima comparsa, nel Segno del comando, l’attore minore napoletano Armando Brancia, che otterrà due anni dopo una parte fondamentale in Amarcord, quella del papà di Titta, mentre il ruolo del nonno sarà affidato al non attore Giuseppe Ianigro, celeberrimo a Napoli come Mago di Toledo perché il suo lavoro primario era e restò quello di veggente, in uno studiolo a vico Tofa sui Quartieri Spagnoli dove, lui morto, avrebbe continuato a esercitare la figlia Grazia.

 

Se sulle tracce di Byron il professor Forster visita interiora terrae, e nel ventre cittadino s’imbatte nei lavori per la metropolitana in una scena mozzafiato dell’ultima puntata, Fellini l’anno dopo propone in Roma un viaggio nelle viscere capitoline lacerate, anche nel suo racconto, dalla realizzazione del metrò che profanava con la talpa meccanica misteri e fantasmi celati dall’antichità.

Roma visse, in quegli anni, anche una rinascita dello spiritismo riportato quasi ai fasti del primo Novecento dopo lunga dimenticanza. Fu tra i protagonisti Fulvio Rendhell, considerato dai cultori il più potente medium a effetti fisici della seconda metà del secolo. “Nel 1969 si cominciava appena a parlare apertamente di esoterismo ma si parlava molto di spiritismo, come di una forma più popolare e fruibile. Quell’anno mio padre fondò il Circolo Spiritico Navona 2000”, racconta Alexandra Rendhell, “per riscoprire gli aspetti anche culturali di queste sperimentazioni. Il Navona 2000 era frequentato da personaggi di spicco come Fellini, Giorgio Albertazzi, la principessa Soraya, i famigliari di Giovanni Leone ed è presumibile che fosse conosciuto anche dagli sceneggiatori del Segno del comando, per la rinomanza che acquisì e lo scalpore che suscitava la sua presenza nella capitale del cattolicesimo. Quelle notti romane”, prosegue la Rendhell, “spinsero moltissime persone di una generazione a confrontarsi con una tematica spesso fraintesa. Gli esperimenti, anche alla presenza di medici e scienziati, cominciavano alle undici di sera e culminarono nel luglio del ’74 con l’apparizione di Katie King, un fantasma evocato esattamente un secolo prima dalla medium inglese Florence Cook: la seduta fu immortalata in una relazione scientifica e le immagini dell’ectoplasma di Katie sono tuttora pubblicamente disponibili. Oggi forse parleremmo di una esteriorizzazione della motricità, di un fenomeno fisico, ma a qualcuno piace pensare che i contatti con l’aldilà siano possibili, perché questo è un aspetto della cultura umana che non dobbiamo esclusivamente associare ai ciarlatani. Se poi Odifreddi arriva a definire tali persino Guénon e Zolla, mi auguro che i fantasmi dei suddetti si prendano qualche soddisfazione…”.

Dopo mezzo secolo permangono vivide le figure e le stranezze di una fiction televisiva, per merito o per colpa della quale tanti o pochi s’avviarono verso un certo sentiero culturale. Anzi, un Borges forse sosterrebbe che quelle figure e stranezze ormai esistono di per sé, dimentiche di essere state inventate. Fu una trasgressione messa alla portata di tutti però liberatoria, se non si sottace, come ha ancora rammentato Calasso, che “più o meno per tutta l’Italia dopo il ’45 la bestia nera era l’irrazionale”. Molto più tardi, a sparigliare le categorie, sarebbe arrivata l’esplosione informatica. Ma non ha certo sbaragliato quei fantasmi. Via Margutta, come sapete tutti, è sempre là.

Di più su questi argomenti: