Cristina Campo, Bologna, 29 aprile 1923 – Roma, 10 gennaio 1977 (Wikimedia commons)

Un sacro destino

Il pellegrinaggio attraverso i segni di Cristina Campo, accanto a Zolla e Calasso

Immersi nel linguaggio, un viaggio che si potrebbe dire proustiano, attraverso figure-segni, costellazioni di segni, al linguaggio consustanziali

Fatalità, bellezza, destino, costellazioni, dove siete? Qual è il vostro nome? Sono interrogativi dimenticati e temuti, che in Cristina Campo. Catabasi nel destino (Ladolfi, 2021), un libro che è un tappeto volante, quasi una lettera d’amore per Cristina, Giorgio Anelli riprende con entusiasmo, e riflette: “Avere una vocazione era per gli antichi qualcosa di assolutamente intimo quanto naturale. Come volgersi a guardar le stelle” (p. 17). Ma aggiungerei: in quale oscurità abbiamo smarrito la sapienza degli astri e, con essa, il nostro stesso nome? Come molti hanno ricordato, dobbiamo a Roberto Calasso, purtroppo da poco scomparso, il fil rouge che, nel sistema cartesiano della cultura del Novecento, si dipana lungo la sua ascissa, verso l’alto, e che ha raccolto l’eredità, fra gli altri, di scrittori come Cristina Campo (uno degli eteronimi, quello definitivo, di Vittoria Guerrini).

 

Anche traduttrice e teologa, cattolica ortodossa, compagna di Elémire Zolla, era bella e amante della frivolezza. “Avrebbe voluto essere un gatto; (…) o diventare Alice e attraversare come lei lo specchio che ci divide dall’altra esistenza” (Pietro Citati, Ritratto di C. Campo, in Il Giannone, numero 23-24, gennaio-dicembre 2014). Pubblicò il suo primo libro, la raccolta di poesie Passo d’addio, nel 1956, presso l’editore V. Scheiwiller. Nel 1987, Memè Scianca (alias Roberto Calasso – così si soprannominava da piccolo) editò postumo Gli imperdonabili, un’opera catartica e che avverto quanto mai attuale e urgente, proprio perché ci parla, con una potenza intima, chopiniana, da un altrove che è, innanzitutto, come per Chopin, fatale sprezzatura e dolore estraneo. Da là, da quell’ignoto e, paradossalmente, familiare luogo, scopriamo che favole e leggende narrano il linguaggio stesso, lo fanno accadere: la sua epifania è simile all’eloquio d’infanzia – intuisce la Campo – che incandisce e che arriva sempre un po’ in ritardo, conchiglia spiaggiata che evoca il mare da cui proviene. Così è il linguaggio, melodia del flauto suonato da Hölderlin nella Torre, una chiamata del destino.

 

Afferma la Campo ne Il flauto e il tappeto: “Ciò che fa del destino una cosa sacra è lo stesso elemento che distingue il sacro, lo stesso che distingue la poesia: la sua reclusione, segregazione, l’estatico vuoto in cui si compie” (in Gli imperdonabili, Adelphi, 1987, p. 117). Siamo immersi nel linguaggio e compiamo un pellegrinaggio che si potrebbe dire proustiano, attraverso figure-segni, costellazioni di segni, al linguaggio consustanziali: “Ma solo Proust ha saputo mischiare a quello spaventoso movimento discendente del tempo, al precipitare metodico della legge di necessità, al vanitas vanitatum, l’ininterrotto contrappunto ascendente della parola” (Gli imperdonabili, p. 162).

 

Però non si tratta, per la Campo, di figure-archetipi, ma di icone, cioè di immagini sacre, segrete e messaggere, che ci porgono un filo nel labirinto. Ecco che la narrazione si schiude laddove è maggiormente serrata. Come Shahrazad ne Le mille e una notte affabulava il re di Persia Shahryar per scampare alla morte, così la Campo esorcizza ciò che è mediocre. E’ un albatro che non può (e non vuole) entrare nella gabbia di un grillo e questo netto rifiuto ha un effetto catartico. Quanto spesso la realpolitik insabbia la conchiglia e cancella l’orma di uno “spirito fuori del tempo”, quello che solo si rivela agli “imperdonabili”! Ci chiede Giorgio Anelli nella sua accorata evocazione della Campo: “La domanda è a senso unico: vuoi essere portato dal destino? (…) C’è una chiamata nascosta in ogni nostra notte”. Le stelle ci parlano.

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