Uno scorcio del Sentiero degli Appalachi, negli Stati Uniti (Foto Unsplsah)

Un piede in paradiso

I sogni, il paesaggio, il romanzo: parla Ron Rash

Francesca Pellas

Un uomo e una valle che scompaiono nell’America sinistra dello scrittore: "Sono uno junghiano, e ho la ferma convinzione che ogni artista attinga a degli archetipi"

In gallese esiste una parola intraducibile che definisce la nostalgia per il proprio luogo d’origine e per i tempi perduti: hiraeth. È il sentimento che provano i gallesi quando pensano al Galles del passato e alla loro lingua primigenia, ed è anche il nodo che spunta loro in gola se vanno a vivere altrove, sapendo che non potranno mai sentirsi in pace da nessun’altra parte. Secondo lo scrittore americano Ron Rash, nato nella regione degli Appalachi e professore di Appalachian Cultural Studies nella Carolina del Nord, l’hiraeth è un concetto comprensibile anche a chiunque sia cresciuto avendo attorno le montagne.

 

“La mia famiglia vive nella regione degli Appalachi dalla metà del ’700: c’è un fortissimo legame tra me e questo posto. Il paesaggio montano, con la sua imponenza, riesce a essere sia un grembo materno, sia un avvertimento costante, che ricorda ogni giorno a chi ci abita la fugacità e la piccolezza delle vite umane”, spiega al Foglio Rash, che negli Stati Uniti è autore di culto, e di cui in Italia è uscito da poco per La Nuova Frontiera Un piede in paradiso (nella traduzione di Tommaso Pincio). È la storia di due sparizioni, quella di un uomo e quella di una valle, raccontate da cinque personaggi: lo sceriffo della contea, il suo vice, una moglie, un marito, e il figlio dell’uomo scomparso. Sono gli anni 50, e gli abitanti della valle di Jocassee si preparano a lasciare le loro case alla compagnia elettrica Carolina Power, il cui progetto è costruire una diga e far diventare la zona un lago artificiale (una storia vera). Jocassee è un luogo bello e sinistro come il suo nome segreto, “la valle degli scomparsi”, che porta in sé la traccia del suo passato e del suo futuro: terra sottratta agli Cherokee dall’uomo bianco, sta per essere nuovamente sottratta ai suoi abitanti dal dio progresso. “Il paesaggio e il destino sono legati in maniera indissolubile: il paesaggio è il destino, o almeno lo è in quello che scrivo”, dice Rash. “Un piede in paradiso è nato da un sogno: una notte ho sognato un fattore in mezzo a un campo, e quando mi sono svegliato sapevo che il suo raccolto era rovinato in maniera irrimediabile, e così la sua vita. Sono uno junghiano, e ho la ferma convinzione che ogni artista attinga a degli archetipi. Tutto il romanzo si è sviluppato da quell’immagine”. 

 

A un certo punto, lo sceriffo dice che per sapere dove una persona potrebbe nascondere un cadavere bisogna prima capire come quella persona vede il mondo. Ma come si riesce a vedere il mondo attraverso gli occhi di qualcun altro? “Servono due cose: un atto di empatia e un atto di immaginazione. Solo che più scrivo, e meno so come o perché accade. Una lettrice una volta mi disse che ciò che scriviamo noi scrittori di montagna viene dalle storie che i morti vogliono veder raccontate. Magari lo diceva per ridere, ma la cosa mi aveva inquietato. Michelangelo era convinto che nel marmo esistesse la statua già finita, e a lui spettasse solo il compito di tirarla fuori. Io voglio credere che se mi arriva un’immagine particolarmente intensa — il fattore nel campo, per esempio — significa che da qualche parte lì dentro c’è già tutta la storia che attende solo di essere svelata”. Questo è un romanzo che si interroga sull’abbandono (sia dei posti, sia delle persone), e sulle scelte a cui veniamo chiamati; racconta però molto bene anche una certa povertà.

 

“Ai poveri sono concessi pochissimi errori: è sufficiente una decisione sbagliata per mettere a repentaglio per sempre le proprie possibilità”, dice Rash. E questo vale sia nell’America rurale degli anni 50, dove bastava un raccolto andato perso, sia nell’America di oggi, dove, come racconta bene Nomadland, per finire per strada può bastare un conto medico troppo alto. Rash non vede però i suoi “blue collar heroes” come un mezzo per raccontare il sud degli Stati Uniti: “L’amore, la lussuria, la compassione, la paura, l’odio, la pietà, il coraggio, sono cose che possediamo tutti. Io scrivo di un posto ben preciso, ma il mio obiettivo come scrittore è provare a raccontare che cosa significa essere umani su questa terra”.

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