Facce dispari

Giampiero Neri, il poeta in ombra

Francesco Palmieri

"Fratello dispari" di Giuseppe Pontiggia. Poesia rispetto a prosa ma non contro. Come lo Yin non è il contrario dello Yang bensì il suo corrispettivo a complemento

A Milano, al numero 12 di piazzale Libia “con le sue piante, i cespugli e quei platani in doppia fila che fanno corona”, c’è un reputato poeta di novantaquattro anni che ci abita da sessanta. In letteratura si chiama Giampiero Neri, nella vita Giampietro di nome e Pontiggia di cognome, come il celebre scrittore Giuseppe, scomparso nel 2003, che fu suo fratello minore (di sette anni). Il Neri è della classe 1927: aveva compiuto tre mesi quando morì Matilde Serao, quando scomparve D’Annunzio era undicenne. Non si misura con queste date una senilità. Piuttosto la poesia del Tempo, che una voce e una scrittura ci aiutano a sfiorare per il tramite del Neri. Lo hanno definito “un maestro in ombra” e per noi è anche il “fratello dispari” di Pontiggia. Poesia rispetto a prosa ma non contro. Come lo Yin non è il contrario dello Yang bensì il suo corrispettivo a complemento.

 

Nato a Erba a due passi da Como, la maggior parte della vita a Milano. Lei si sente un poeta milanese?

No, mi sento ancora uomo della campagna. Erba è addossata alle Prealpi Orobiche, distesa su una piana abbastanza vasta dove tra una casa e l’altra c’è sempre una certa distanza. Però mi piace l’architettura verticale di Milano.

Le piace Milano?

Quella di sessanta anni fa no, proprio per niente. Per lungo tempo l’ho sentita estranea anche se i miei figli sono nati qui. Sono solo pochi anni che non ho più sentimenti di avversione per questa metropoli. Piazza Libia, che è anche il titolo del libro che ho appena pubblicato le Edizioni Ares, ha avuto grande importanza nel rendermi Milano persino piacevole.

A Milano arrivò per lavorare in banca, come suo fratello che ne trasse un romanzo.

Trentanove anni di servizio: dai venti ai cinquantanove. I primi quindici i più penosi. E l’ho anche scritto: poco tempo dopo l’assunzione venne a trovarmi un cugino. Mi guardò e disse: “Che faccia da pesce ti è venuta”. Era la verità. Facevo cose di cui ignoravo il perché e lavorare senza sapere quel che si fa è deprimente, è orribile. Poi andò sicuramente meglio, però non saprei leggere un bilancio. Il capitale sociale va messo a destra o a sinistra? Boh, mi pare a sinistra, ma non ne sono certo… Invece mi piaceva il contatto umano con la clientela, che nella banca d’oggi è praticamente scomparso ma allora si rendeva necessario. Comunque non ho mai considerato la banca una matrigna. Anzi, le sono grato di non avermi licenziato per incapacità.

L’ironia non le difetta.

È un tratto lombardo. Non abbiamo la facondia dei toscani o dei napoletani, però una certa capacità ironica di considerare gli eventi aiuta a difenderci.

Come finì a piazzale Libia?

Ci passai per caso un giorno in macchina con un amico, nella sua macchina, perché non ho mai guidato e nemmeno ho la patente. La vidi e mi piacque. Non appena potetti permettermi l’affitto di un appartamento, presi un taxi e ci tornai. C’erano due case libere: con mia moglie scelsi questa e ci restai. Sessant’anni fa.

Dice “ci passai per caso”. Al caso ci crede?

Certamente. Ma credo anche alla provvidenza: non la conosciamo però arriva. In fin dei conti sono un manzoniano, perciò dico con Renzo: “La c’è la Provvidenza!”.

Come poeta ha cominciato tardi. Perché?

Mi sono scoperto tardi nella scrittura, ma nutrivo sin da piccolo sensibilità per le parole e per le storie. Mio padre, secondo il costume di molti padri del primo Novecento, non parlava quasi mai. Ma quand’ero bambino mi raccontò la storia di Sigfrido e rimase incancellabile. Io ero proprio avido di storie.

Un grande fornitore fu il professor Fumagalli, che lei ha rievocato nei suoi scritti.

Ah, lui è come se possedesse una cornucopia ricchissima da cui traeva ogni specie di racconti, anche aneddoti personali.

Quella scuola di Erba ricorda un po’ la scuola di Fellini in ‘Amarcord’.

Difatti è un film che m’interessò molto, uno dei suoi migliori.

E lei è stato un buon raccontatore di storie?

Ho comunicato ai miei figli assai più di quanto mio padre avesse fatto con me. Mia madre invece parlava tantissimo.

Suo padre, durante la guerra, venne ucciso dai partigiani e lei si ritrovò a essere il maggiore dei tre figli.

Improvvisamente mi sentii investito di una responsabilità nei confronti di mio fratello e mia sorella. Con il Peppo ebbi quindi un atteggiamento tra il fraterno e il paterno. Per lui in casa c’era molta considerazione già da quando andava a scuola con esiti sempre brillanti, mentre io fui uno studente mediocre salvo un 9 in filosofia all’esame di maturità scientifica, l’unico della scuola. M’interrogarono su Hume e circa un argomento che mi aveva appassionato. Il rapporto col Peppo si guastò negli ultimi anni per una incomprensione reciproca, ma è stato talmente profondo che mi pare quasi una profanazione parlare di lui. Cito Pascoli: “Uomini, pace! Nella prona terra/ troppo è il mistero; e solo chi procaccia/ d’aver fratelli in suo timor, non erra”.

Il suo poeta preferito?

È dipeso dai periodi. Ho avuto un innamoramento per Campana. Poi c’è stato Ungaretti. Rimbaud e Verlaine, invece, amati sempre.

E i prosatori?

Sicuramente Manzoni. Anche Gadda de ‘La cognizione del dolore’, ma la prima parte. Nella seconda mi sembra ossessionante il suo risentimento per la madre. Poverina! Avere a che fare con tale nevrotico…

Perché leggere poesia?

La poesia è sinonimo di verità o perlomeno della sua ricerca. Più di quanto accada nella narrativa.

Perché scriverla?

Poter scrivere ci salva. Quando proviamo certi sentimenti dobbiamo asservirli alla scrittura per trasmetterli, perché vogliamo che altri sentano quel che sentiamo noi.

I suoi testi andrebbero letti a voce alta o mentalmente?

Mentalmente finché non c’è una comprensione il più vasta possibile. Ma anche la lettura mentale ha una sua sonorità nascosta, una musica interiore. A venticinque anni avrei voluto diventare un chitarrista concertista, più tardi la mancata riuscita di questo progetto si è convertita nei primi tentativi di scrittura. Il lavoro di bancario non mi bastava, neppure la famiglia mi sembrava sufficiente a dare un senso a tutto. Milioni di persone invece non desiderano altro. Almeno in apparenza.

Cosa le lascia questa grande prova collettiva della pandemia?

Me ne resta un senso dell’inanità umana maggiore di prima. Un’impotenza che contraddice la retorica illuminista e quella delle “magnifiche sorti e progressive”, alle quali veramente non ho mai creduto. La pandemia è stata una prova che può suggerirne altre, non il superamento di un ostacolo, che so, di una montagna perché dopo ci aspetta la pianura. È stato l’attacco di un virus particolarmente odioso anche nella sua rappresentazione grafica: sembra una mina galleggiante con gli spuntoni intorno. Odioso.

Lei ricorda la guerra mondiale. Ci sono affinità?

La guerra abbrutisce e ottunde la nostra sensibilità: i bombardamenti, le ferite, la fame… La pandemia ha seguito un percorso più subdolo, che in un certo senso fa più paura. In tempo di guerra qualcuno può cercare di scappare, ha l’impressione di cavarsela, di vedere il nemico. Oggi invece ci sentiamo un po’ troppo alla mercè del caso. Per difenderci dal virus usiamo il vaccino che è il virus stesso nella sua forma attenuata.

I platani sulla sua piazza sono cresciuti tanto in sessant’anni e adesso fanno ombra, mentre sempre meno bambini giocano nei prati. Lei com’è cambiato da quando ci arrivò?

A trent’anni mi colpiva il discorso di Marco Antonio sul cadavere di Giulio Cesare. Invece avrei trovato sdolcinati questi versi che ora m’inteneriscono e commuovono fino alle lacrime mentre glieli dico: “Un bel dì vedremo/levarsi un fil di fumo…”, l’aria della povera Madama Butterfly ingannata dal tenente Pinkerton, un uomo dalla duplice superficialità: di marinaio e di americano.

Salutiamoci con un aforisma.

Ogni rovescio ha la sua medaglia.

Mi pare molto dispari. Molto Yin.

 

 

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