Il profilo TikTok di Khaby Lame, 21 enne di Chivasso, è tra i dieci più seguiti al mondo (Immagine da YoTube)

Fuori dai social

Simonetta Sciandivasci

Siamo finiti nella trappola degli influencer. Ce lo ha insegnato il successo di Khaby Lame, il ragazzo delle assurdità di TikTok

A vent’anni si è stupidi davvero, e vedessi a quaranta, cinquanta, sessanta, quando non c’è neppure la scusa della gioventù, o dell’avventatezza, o dell’inesperienza, e anzi ci si crede saggi e scafati, si analizzano pomposamente fenomeni, visi, accadimenti, e si finisce con il distorcerli, ingigantirli, forse pure alimentarli, ingrassandoli tantissimo. Prendiamo TikTok. Specificamente TikTok, che ancora per poco è un social network giovane – Instagram è giovanile, Facebook è geriatrico, gli altri sono come correnti del Pd o forse proprio correnti del Pd. Ancora per poco, TikTok è un social non colonizzato né occupato dai miliziani della critica del torto puro, gli adulti. Noi. Sono due anni che ci giriamo intorno, sacramentiamo, proiettiamo, cerchiamo il bello, il brutto, il cattivo, la fenomenologia, l’antropologia, l’esegesi, la diegesi. Soprattutto, cerchiamo la maniera per conquistarlo, questo TikTok ancora sconosciuto, estraneo, inafferrabile e indicibile come l’advertising per nostra nonna – in certe aree geografiche, anche per nostra madre, in certe altre anche per noi stessi.

 

Diventarne prima utenti complici e poi anche maghi strateghi e amministratori finali è il sogno di molti, tuttavia TikTok è inconquistabile per un maggiore di quarto di secolo che non sia Fran Lebowitz, unica vivente adulta che nelle cose vede ciò che le cose sono, non ciò che teme siano. Per fortuna a lei di TikTok non frega niente, probabilmente non sa nemmeno cosa sia WhatsApp, non ha nemmeno un telefono, anzi ha un telefono ma non uno smartphone. Il resto del mondo adulto, noi, vorrebbe essere TikToker senza averne l’aria, e pure senza avere TikTok, ovverosia vorrebbe percepire del denaro intrattenendo migliaia di persone o anche solo una ventina facendo una Corrida domestica. In fondo, lo farebbe anche gratis: bastano, come ricompensa, le migliaia di persone o anche solo una ventina. Il seguito, l’engagement, il successo, l’ammirazione, l’adorazione: tutti viatici per l’incontestabilità, che è l’elisir di lunga vita di questo tempo. L’incontestabile può tutto. Incontestabile si diventa, ma un po’ si nasce anche. In entrambi i casi, i criteri cambiano in base al tempo, al paese, al mezzo.

 

Di certo, nessuno è al riparo, nessuno è al sicuro se non per poco, pochissimo. Su TikTok essere intoccabili è forse più facile che altrove, dal momento che non di contenuti vive il TikToker, a meno che non sia curioso, bugiardo e infedele (e viva vite parallele, su altri social). Per esistere ed eventualmente fatturare su TikTok, non c’è bisogno di avere un’opinione, una posizione, un lavoro nell’editoria: basta avere un’idea. Un’idea come? Un’idea un concetto un’idea (scusi, Gaber, per l’uso improprio)? No. Un’idea che sia una trovata, una scemenza, qualcosa cui non ha pensato nessuno e che per questo è attraente. Un esempio: rivestire di scotch una forchetta per trattenere i cereali quando li si mangia inzuppati nel latte. Un altro: costruire un manico su un bicchiere per prendere il bicchiere. Ciascuno di questi esempi non è peregrino, non è inventato, non è una ndr: è un video che ha totalizzato centinaia di migliaia di visualizzazioni, cuoricini, interazioni, e ha ispirato sfide, istigato emuli, animato tendenze, affollato feed. L’adulto che li ha visti ha sgrugnato, ingrugnato e, se editorialista, ha scritto vibranti e copiose battute sulla fine di tutto, cioè di niente - se tutto finisce, niente finisce. Da anni, osserviamo TikTok e lo risaliamo e lo scorriamo, certi che sia lì il bandolo della matassa dell’epidemia di stupidità che siamo convinti di attraversare, naturalmente indenni – unici indenni.

 

Su Twitter c’è la bestia, su TikTok lo scemo: così pensiamo. Qualche mese fa, è arrivato Khabane Lame, nome d’arte Khaby Lame, e su TikTok ha fatto qualcosa di decisamente diverso: non s’è inventato niente. Anzi, ha tolto l’invenzione a quei clippini di idee cretine e ci ha fatto vedere quanto erano cretine. E così, al video di una giovane ragazza non caucasica dai tratti decisamente orientali che impacchetta la forchetta per mangiare i cereali, ne ha attaccato uno in cui, guardando la telecamera con espressione basita e incredula, mangia i cereali nella zuppa di latte con il cucchiaio. Semplice, no? Se la forchetta è inutilizzabile, usa il cucchiaio. Perché non ci aveva pensato nessuno? Perché, soprattutto, quella ragazza non ci ha pensato e, anzi, ha complicato tutto, credendo di doversi ingegnare per trovare una soluzione all’innegabilmente fastidioso problema della forchetta che non trattiene i cereali nella zuppa di latte? Alla fine arriva Khaby Lame e tutto è svelato, il tutoraggio smascherato, i seguaci sbeffeggiati e nessuno che possa sentirsi offeso. Come ne “I Mostri” di Dino Risi e forse anche in qualche film di Zalone: ci si riconosce nella scemenza, ci si vede, e vedersi basta, vedersi è sufficiente, vale più di ogni condanna e di ogni assoluzione.

 

I video di Khaby Lame sono tutti così: una risposta a quelli più visti di TikTok. A quelli di un certo tipo, ovviamente – specifichiamo in rispetto alla varietà culturale e formativa del mezzo, che offre un ampissimo ventaglio, un palinsesto ricco e sontuoso, che va dal tutorial su come mangiare una banana (è tutto vero) al riassunto delle notizie in 25 secondi (non sapete che apprensione, tutte le volte, vedere questi poveri giornalisti non più nel fiore degli anni che quasi si strozzano per dire 600 inequivocabili parole in un attimo, per non perdere la priorità acquisita e magari intercettare un non lettore casuale, uno che era lì per vedere un pinguino che fa tip tap e invece è capitato sul Washington Post, smarrito come un trevigiano a Porta Portese). Khabane Lame ha 21 anni, a marzo dello scorso anno ha perso il lavoro, è tornato a vivere con i suoi genitori e ha cominciato a guardare TikTok. Se lo abbia fatto per tedio o disperazione, a fini antropologici o di lucro, non è scritto in nessuno degli articoli che lo ritraggono. Mentre suo padre gli urlava di andare a lavorare, lui osservava clippini, scorreva, caricava, ricaricava, rapito e coinvolto come se si trovasse in mezzo a un girone dantesco, consapevole che il suo futuro sarebbe dipeso dalla sua capacità di tirarsene fuori lasciandosi cambiare. Il New York Times la settimana scorsa gli ha dedicato un ritratto, con tanto di virgolettati. L’articolo s’intitolava “Khaby Lame, the Everyman of the Internet” e diceva a un certo punto che “il suo lavoro è particolarmente degno di nota perché manca del raffinato valore di produzione e post produzione tipico delle più importanti star di TikTok, molte delle quali sono ormai a Hollywood; non collabora con altri influencer; non compra follower: la sua ascesa è stata del tutto naturale. Il segreto del suo successo è essere un uomo qualunque, universale”.

 

L’Everyman globalizzato, il qualunquismo globalizzato: soltanto i social network potevano trovare un punto di sintesi universale anche su questo. Naturalmente, quella di Lame è una parte. Una recita. Un’imitazione. Di chi? Di me, di te, di tutti. Direte: non tutti trasformiamo forchette in cucchiai, poiché non tutti dimentichiamo che esistono i cucchiai; non tutti attacchiamo un manico a un bicchiere, poiché non tutti ignoriamo come si afferra un bicchiere. Giusto. Tuttavia, il punto di Lame non è tanto mostrarci quanti idioti ci sono nel mondo e che tipo di idiozia imperversi. Il punto è dirci, con la sua faccia, i suoi occhi sgranati, le braccia alzate: davvero ti sei stupito guardando uno che anziché sfilare il collare la cane, s’è industriato per tagliarlo? Davvero per un secondo o anche due o anche mezzo hai pensato: geniale? Lo hai pensato, geniale, non è così? Certo che lo abbiamo pensato. Geniale! E abbiamo pensato anche: se ha tutte quelle visualizzazioni, ci sarà un perché. Il mistero di quel perché ci ha intossicato i pensieri, anche se abbiamo scritto o detto, con indignazione, che i ragazzini su TikTok emulano un pelatore di patate. Perché nessuno di noi aveva pensato, prima di Khaby, che per dire qualcosa su TikTok, bastava rappresentarlo levandogli la maschera? Perché nessuno di noi ha pensato a trovare la chiave di quella complicazione, di quei video, di quel successo, di ciò che la gente insegue e segue e guarda e riguarda? Perché volevamo e vogliamo riuscirci anche noi: vogliamo anche noi girare un tutorial virale (scusate la parola), monetizzare, andare alle Hawai, da lì fare Instagram Stories piene di adv, lautamente pagati.

 

Noi impazziamo per Chiara Ferragni e pro domo sua abbiamo imparato a impazzire per Fedez. Non c’è più alcun giornale che osi dire che Fedez è un pupazzo: quando ha fatto la sua scenata contro la Rai, al primo maggio, denunciando di essere stato sottoposto a una inaccettabile censura, s’è letto quasi ovunque che aveva agito con grande coraggio, dignità, amore per gli ideali. Fedez partigiano, icona della sinistra, ribelle combattente con la sua piccola patria dietro la linea gotica, seconda stella a destra di City Lfe. Poche settimane dopo, L’Espresso ha pubblicato una inchiesta che non diceva niente di nuovo né di scandaloso ma voleva evidentemente essere un disallineamento dalla complimentosa lettura data al suo comportamento dalla maggior parte dell’opinione pubblica. L’inchiesta rivelava che Fedez non parla male di Amazon perché Amazon è l’editore di un documentario su lui e sua moglie, e non parla male delle banche e delle assicurazioni (di certe banche e di certe assicurazioni) perché ha con esse firmato contratti milionari che lo vincolano a non comprometterne l’immagine. Ognuno si tutela dallo sputtanamento dell’influencer come può: chi scrivendone bene o non male o affatto sui giornali; chi non mettendo nemmeno un cuoricino su Twitter a chi osa rilevare che esistono taluni influencer bulli e arricchiti che a qualsiasi obiezione o battuta venga loro mossa, rispondono facendo una gara che sanno di vincere, ovverosia a chi ha più follower; chi facendo firmare clausole milionarie.

 

Non temiamo niente e nessuno come una cattiva parola sul nostro conto in una Instagram Story di chiunque abbia più di 100 mila seguaci. Anziché analizzare questa schiavitù, che non è psicologica ma squisitamente pratica (l’influencer sposta denaro, dà e toglie pubblico, avventori, lettori compratori con una forza a una solidità che nemmeno le pubblicità degli anni Novanta riuscivano a fare: come non temerlo, come non volerselo ingraziare?), proviamo a inchiodarli mostrandone i paradossi, le incoerenze, le lacune etiche. L’inchiesta dell’Espresso spulciava tra fatti assolutamente legittimi, contratti del tutto legali, richiamandosi a una purezza aleatoria, ininteressante, forse persino patetica. Soprattutto, scorporava Fedez e il suo successo da chi lo ha alimentato: noi. Siamo noi che cediamo di fronte al numero di seguaci, usandolo come metro di valore, misura e ombelico di tutto. Nessuno ha fiatato quando i Maneskin hanno prestato il volto alla Pepsi e hanno scritto di farlo perché sono liberi di scegliere, ammantando una marchetta di un finissimo senso estetico: primo perché farlo avrebbe significato procacciarsi l’odio dei fan (tra cui moltissimi influencer) e secondo perché quella capacità di vendersi, annettendo alla vendita un’enunciazione estetica, un “contenuto”, è ormai la più invidiata e desiderata delle virtù.

 

Complichiamo il pane, la forchetta, la marchetta: ecco perché, obnubilati come siamo, non abbiamo e non avremmo mai potuto fare quello che ha fatto Khaby Lame, a proposito del quale, lo stesso giornale che ha pubblicato con grande indignazione i prezzi del bar di Chiara Ferragni, ha scritto: “Il percorso di Khaby Lame è in piena ascesa, mentre quello degli avversari risente di una notorietà di più lunga data e di un numero di nuovi follower quotidiani più esiguo. Da una parte infatti Khaby accumula stabilmente nuovi fan su Instagram al ritmo di oltre 200.000 ogni giorno; dall’altra Ferragni continua a crescere a un ritmo regolare ma meno sostenuto, da circa 10.000 nuovi follower quotidiani”. E questa è l’analisi del lavoro del ragazzo e la misura del suo valore: in quanti lo seguono, in quanti potrebbero seguirlo, chi scalzerà. Non una riga sul perché, sul chi, sul come. Ecco perché gli influencer possono insultare i giornali che osano ospitare una riga sarcastica sul loro conto, che tanto in edicola non ci va nessuno, mentre loro macinano seguaci come chilometri in alta velocità. Il quantitativo ha assorbito il qualitativo. Completamente. Khaby Lame sgrana gli occhi perché il problema di quei video su TikTok non è quanto sono stupidi, ma quanto sono seguiti, ammirati, invidiati, scopiazzati. Ci dice: anche voi qui, anche voi ci siete cascati, anche voi state ammirando una che non sa usare un cucchiaio? Uno spettacolo su Netflix che sta facendo molto discutere, con filosofici altissimi pezzi sul New Yorker e sul Rolling Stone, è “Inside”, del comico americano appena trentenne Bo Burnham. Due ore di verità, nient’altro che la verità, su come siamo su Messenger, su Whatsapp, su Twitter, su Instagram, su TikTok, e su come pensiamo, ci ingegniamo, ci affezioniamo. Su cosa facciamo e abbiamo fatto, con il telefono in mano, durante il lockdown.

 

È uno spettacolo esilarante, ci siamo dentro tutti. Un assaggio – dalla descrizione del sexting: “È il sesso del futuro sono pronto a venire con te. Sono nel letto. Userò solo emoji non ci servono che espressioni fonetiche diremo cose sconce come se fossimo antiche egizi. Stasera voglio andarci piano. Mi mandi una pesca rispondo con una carota tu con una ruota panoramica è una cosa piuttosto astratta ti invio la matrice di un biglietto implicando che la ruota sia il tuo corpo e mi piacerebbe molto avervi accesso. Oh no! e se ora pensassi che sto insinuando che la tua vagina sia grande come una ruota panoramica? Mi invii in risposta un pupazzo di neve”. Ecco la risposta a cosa sarà dell’umorismo dopo la pandemia: uno specchio puntato sulla nostra stanza che ha molte pareti e nessun albero. Vivaiddio, a farci capire che cosa stiamo diventando sono arrivati i ragazzi, gli stessi che accusiamo di aver fuso il cervello con il telefono, mentre loro dal telefono ci hanno guardati fondere il nostro. Ci salveranno loro. Il ridimensionamento dei social network lo faranno loro e, per questo, noi anziani li detesteremo profondamente, sempre ammesso che ci saremo – speriamo di no, che vecchiaia sarebbe senza Instagram.

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.