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Billy Wilder prima di Billy Wilder

Valeria Sforzini

Un giornalista che sognava Hollywood. Noah Isenberg ci racconta le memorie del regista premio Oscar

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Questa mattina, trentaquattro delle gambe più seducenti sono uscite dal treno espresso per Berlino, quando è si è fermato alla stazione Westbahnhof”. Anche quando Billy Wilder si firmava ancora Billie S. Wilder, la sua capacità di raccontare per immagini era difficile da eguagliare. Prima che il regista vincitore di sei premi Oscar diventasse l’incarnazione del sogno americano era un frenetico reporter che non poteva fare a meno di inquadrare e proiettare il mondo. Suo padre sognava per lui un futuro da avvocato, un percorso esaltante per i bravi ragazzi ebrei nella Vienna tra le due guerre ma, come lui stesso ci teneva a sottolineare, si era “salvato, diventando un giornalista, un reporter, molto mal pagato”. Gli piaceva raccontare di aver ottenuto il suo primo lavoro a 19 anni nella testata Die Bühne dopo aver sorpreso il caporedattore della sezione teatrale del giornale fare sesso nel suo ufficio con la segretaria. Mentre sul tabloid viennese Die Stunde aveva iniziato con cruciverba e brevi recensioni di spettacoli. Sapeva di poter far strada con la sua parlantina e la sua faccia tosta.

 

E’ da qui che parte il libro “Billy Wilder on assignment”, appena pubblicato dalla Princeton University Press e curato dal professor Noah Isenberg, a capo del dipartimento di Cinema e Televisione della University of Texas, raccogliendo e traducendo per la prima volta in inglese alcuni dei suoi articoli scritti tra il 1925 e il 1930. “E’ impossibile non ritrovare le sue esperienze come giornalista all’interno dei suoi film – spiega Isenberg al Foglio – il primo incontro con il suo caporedattore si è tradotto in ‘Love in the Afternoon’ e in ‘The Apartment’, mentre l’arrivo delle ‘Tiller Girls’, il gruppo di danza femminile giunto a Vienna da Manchester, è il punto di partenza per la compagnia di Sweet Sue and Her Society Syncopators, in ‘A qualcuno piace caldo’”. Dopo avere lavorato come ghostwriter per diverse sceneggiature, riuscì a ottenere un credito in una piccola produzione. Il titolo del film è quasi autobiografico: “Hell of a reporter”, “Un diavolo di reporter”.

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Nei suoi pezzi racconta in prima persona la propria esperienza come “ballerino a noleggio” in un albergo di Berlino, tra donne con profumi costosi, gambe affusolate, rossetti rosso fuoco e lo sguardo incendiario dei mariti o la vita nei caffè viennesi, dove fremeva la scena culturale della città. Ha scritto reportage da Venezia e da Genova e persino da New York, dove però non era mai stato. “I suoi articoli erano costruiti come la buona sceneggiatura di un film – aveva detto di lui uno dei più importanti giornalisti d’Europa, Egon Kisch – organizzati in tre atti e mai noiosi per il lettore”.

 

Il suo sogno era sempre stato di trasferirsi in America. Ci aveva provato proponendosi a una testata come corrispondente da New York. L’editore rifiutò a causa della sua poca padronanza della lingua inglese. “La sua era più che altro una fascinazione – spiega Isenberg – la Repubblica di Weimar era investita da una sorta di americanismo, tra il jazz, il charleston e i cocktail bar. E non dobbiamo dimenticarci i Motion Pictures, i film del tempo”. Quando, dopo l’ascesa del nazismo, fuggì a Parigi con l’amico Peter Laurie, riuscì a collaborare alla realizzazione di un film. Tutta la crew emigrò in America, compreso Wilder, che da lì iniziò la sua ascesa a Hollywood. 

 

“Il suo mantra era: racconta la dannata storia – continua Isenberg – Il cinema di Wilder è sintetizzato in questa frase. Non aveva velleità alla Orson Welles, non ci teneva a riprendere una scena da dietro al fuoco di un caminetto. Il suo scopo era raccontare una storia pazzesca e intrattenere il pubblico, proprio come nei suoi articoli”. 

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