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Dicerie di untori

Michele Magno

La peste del Trecento e la sindrome del complotto. Perché la caccia al capro espiatorio fece degli ebrei i responsabili dell’epidemia

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La peste bubbonica del 541 d.C. è la prima grande pandemia documentata dalle cronache del tempo. Colpì sia l’impero romano-bizantino che la Persia e altre regioni orientali. Costantinopoli perse quasi la metà dei suoi abitanti (allora ne contava circa duecentomila). Si aprirono così le porte alle invasioni dei popoli nomadi provenienti dalla penisola arabica, da poco convertiti all’islam. Le pestilenze devastarono l’Europa continentale almeno fino al 760. Medici cristiani e musulmani studiarono l’infezione, le sue cause e i modi per prevenirla, riprendendo libri sacri e autori classici: Tucidide, Galeno, Ippocrate, Aristotele, Platone, Rufo di Efeso e i cronisti dell’età giustinianea. Al-Razi (850-923) medico di Bagdad, “diede la prima chiara descrizione clinica di queste affezioni; già nel 910 aveva trattato la sintomatologia del vaiolo. Fiorirono le traduzioni in arabo e i commentari ai testi medici antichi: fu anche merito di questo impegno scientifico-letterario se l’occidente riscoprì la scienza del mondo classico” (Carlo Venuti, La vita al tempo della peste, Quaderni Guarneriani, 2015).

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La peste bubbonica del 541 d.C. è la prima grande pandemia documentata dalle cronache del tempo. Colpì sia l’impero romano-bizantino che la Persia e altre regioni orientali. Costantinopoli perse quasi la metà dei suoi abitanti (allora ne contava circa duecentomila). Si aprirono così le porte alle invasioni dei popoli nomadi provenienti dalla penisola arabica, da poco convertiti all’islam. Le pestilenze devastarono l’Europa continentale almeno fino al 760. Medici cristiani e musulmani studiarono l’infezione, le sue cause e i modi per prevenirla, riprendendo libri sacri e autori classici: Tucidide, Galeno, Ippocrate, Aristotele, Platone, Rufo di Efeso e i cronisti dell’età giustinianea. Al-Razi (850-923) medico di Bagdad, “diede la prima chiara descrizione clinica di queste affezioni; già nel 910 aveva trattato la sintomatologia del vaiolo. Fiorirono le traduzioni in arabo e i commentari ai testi medici antichi: fu anche merito di questo impegno scientifico-letterario se l’occidente riscoprì la scienza del mondo classico” (Carlo Venuti, La vita al tempo della peste, Quaderni Guarneriani, 2015).

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Dopo la rinascita dell’anno Mille (espansione demografica, aumento della produttività agricola grazie anche ai metodi introdotti dai monaci cistercensi e cluniacensi), all’inizio del Duecento l’Europa settentrionale, che allora contava circa trenta milioni di abitanti, fu attraversata da un sensibile cambiamento climatico, una specie di “età glaciale” con inverni rigidi ed estati umide. Dalla primavera del 1315 fino al 1322 le stagioni eccessivamente piovose compromisero la produzione cerealicola, quella dell’uva e della frutta con la distruzione di molti raccolti. Vittime della conseguente carestia furono non solo le famiglie, ma anche gli animali da lavoro e da macellazione. Nelle estati troppo piovose, il caldo umido faceva proliferare parassiti e muffe delle piante. Videro la luce nuove malattie che fecero strage di ovini e bovini. Inoltre, le semine più frequenti e la coltivazione estesa a tutti i terreni disponibili, esaurendo la fertilità della terra, determinarono raccolti sempre più esigui. E’ su questa Europa, indigente e sottoalimentata, che si abbatte la catastrofe della “Morte nera”. 

 
Nell’autunno del 1347, dodici galere genovesi provenienti da Costantinopoli sbarcarono a Messina. In mezzo alle merci conservate nelle stive c’erano topi portatori del bacillo della peste. Dopo quasi sei secoli il flagello tornava in Occidente. Dalla Sicilia si diffuse rapidamente in tutto il Vecchio continente, sterminando un terzo della sua popolazione. E’ la grande peste del 1348-1351, che Giovanni Boccaccio mise sullo sfondo del Decamerone. Il morbo, comparso in Asia centrale attorno agli anni Venti del Trecento, nel 1345 aveva raggiunto via terra la Crimea; la sua avanzata divenne più rapida quando dai porti commerciali sul mar Nero invase via mare il bacino del Mediterraneo (Costantinopoli, Alessandria, Cipro, poi Messina, Genova, Firenze, Venezia), divampando successivamente tra i popoli del Levante islamico e del Nordafrica.

 
La diffusione della peste fu favorita dall’avvio del conflitto tra Francia e Inghilterra passato alla storia come “Guerra dei cent’anni”. L’iconografia popolare rappresentava il morbo come una nube di frecce scoccate dall’alto, contro le quali faceva da scudo san Sebastiano, il soldato romano del Terzo secolo giustiziato per la sua fede. Le autorità cittadine cercavano di fronteggiare l’emergenza con ordinanze che limitavano la libertà di movimento e con rigidi regolamenti igienico-sanitari. Si cominciava con l’isolare le zone infette cacciando i soggetti ritenuti portatori del morbo, in primis ebrei e stranieri, ma anche prostitute e vagabondi. Inoltre, si eliminava ogni fonte di cattivo odore con la sistematica raccolta di avanzi e rifiuti, falcidiando però il reddito e l’occupazione di cuoiai, conciatori, macellai, pescivendoli, becchini.

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Durante le epidemie i medici prescrivevano per lo più diete e stili di vita più sobri, l’eliminazione di luoghi umidi e paludosi, l’abolizione della licenziosità sessuale e dell’accattonaggio. Ma quelli che meglio curavano i malati erano i cerusici: incidevano i bubboni, praticavano salassi mediante le sanguisughe, lenivano le ferite con i medicamenti allora disponibili. Tuttavia, essendo ignota l’eziologia del morbo, non vennero mai adottate misure efficaci contro i ratti e gli altri animali infestati dalle pulci. Le principali misure preventive restavano la sorveglianza all’ingresso delle città, la quarantena per i contagiati, la spedalizzazione e la costruzione dei lazzaretti.

 
La peste comportava spese enormi per le indagini ambientali e cliniche, per sanitari e magistrati, per gli stessi spazi di cura, che i bilanci pubblici non sempre erano in grado di sostenere. Da qui l’imposizione di nuove gabelle e tasse che suscitavano crescenti malumori tra le popolazioni. Per altro verso, la medicina del tempo dipendeva strettamente dai farmaci di natura vegetale: ruta, rosmarino, cipolla, aceto, assenzio e oppiacei. I medici chimici, disprezzati da quelli di formazione filosofica, raccomandavano anche amuleti di vario tipo contenenti arsenico, stagno e mercurio. Il veleno doveva far uscire il morbo venefico in base al principio che “i simili si attraggono”. Stravaganti ingredienti – quali limatura di zoccoli di cavallo, corallo, occhi e chele di granchio, olio di scorpione – erano utilizzati per un impiastro da applicarsi direttamente sul bubbone.

 
Anche la chiesa, “titolare” della liturgia e dei culti contro la pandemia, ne subì pesantemente le conseguenze. La vita in comunità di preti, monaci, chierici, ma anche l’assistenza agli infetti rendevano il clero particolarmente vulnerabile. Le precauzioni igieniche e comportamentali cui doveva attenersi allentarono attività pastorali, studio, formazione e preparazione religiosa. Ricomparvero i “pellegrini danzanti”, che invocavano la protezione divina flagellandosi nelle processioni. Il Trecento si chiuse con la peggiore infezione del secolo dopo la peste nera, forse introdotta in Italia proprio dai flagellanti francesi.

 
Che si sia cercato allora di attribuire agli ebrei la responsabilità dell’epidemia, è noto. Meno note, forse, sono la geografia e la cronologia della persecuzione, da cui emerge quell’intreccio tra spinte dal basso e interventi dall’alto che portò a identificare nei giudei i colpevoli della pestilenza. Alla sua ricostruzione Carlo Ginzburg ha dedicato una delle sue ultime ricerche (Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Adelphi, 2017). Il primo scoppio di ostilità contro gli ebrei avvenne nella notte tra il 13 e 14 aprile 1348, domenica delle Palme: il ghetto di Tolone fu invaso; le case saccheggiate; circa quaranta persone, tra uomini, donne e bambini, massacrate nel sonno. Poco dopo, in varie località della Provenza si verificarono diversi episodi di aggressione, spesso sanguinose, contro le comunità ebraiche. L’ondata raggiunse il culmine il 16 maggio a La Baume, dove tutti gli ebrei vennero uccisi. Negli stessi giorni, a Barcellona un banale incidente trasformò il funerale di un appestato in un massacro di ebrei. 

 
La paura del complotto si era quindi già manifestata, con le sue prevedibili conseguenze: il morbo si propagava perché c’era chi spargeva polveri e pozioni, oppure per altri motivi? A Narbonne e in altre città erano stati catturati poveri e mendicanti provvisti di polveri che spargevano nelle acque, nei cibi, nelle case e nelle chiese per diffondere la morte. Alcuni avevano confessato spontaneamente, altri sotto tortura, di aver ricevuto somme di denaro da individui di cui ignoravano il nome: da qui il sospetto che gli istigatori fossero nemici del regno di Francia. Ma in una lettera scritta dal vicario del visconte di Aymeric, signore di Narbonne, si adombra l’ipotesi che la peste fosse stata provocata da cause naturali, ossia dalla congiunzione in atto dei due pianeti dominanti, Giove e Marte.

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In realtà, come risulta anche dalle testimonianze di medici e cronisti dell’epoca, le due interpretazioni sono perfettamente conciliabili: la causa del morbo era attribuita agli astri, all’inquinamento dell’aria e delle acque; la sua diffusione al contatto fisico. Ma riconoscere che le acque avvelenate avevano contribuito all’origine della pestilenza significava richiamare le voci di trent’anni prima, quando una terribile carestia – insieme al progressivo affermarsi di un’economia monetaria – aveva rinfocolato l’odio nei confronti degli ebrei prestatori di denaro. In più parti d’Europa, ormai, essi erano accusati di avvelenare i pozzi, di praticare omicidi rituali, di profanare l’ostia consacrata. Uguale sorte era toccata ai “fetidi” lebbrosi: “Guardati dall’amicizia di un folle, di un ebreo o di un lebbroso”, si leggeva in un’iscrizione  sulla porta del cimitero parigino dei Santi Innocenti.

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Nel 1321 non c’erano state epidemie: la paura di essere contagiati dalla lebbra era bastata a scatenare la persecuzione, debitamente guidata dalle autorità politiche e dai ceti mercantili ansiosi di impadronirsi delle ricche rendite amministrate dai lebbrosari. Nel 1348 la peste dilagava, la gente moriva come mosche. Individuare dei responsabili umani dava l’illusione di poter fare qualcosa per fermare l’epidemia. In decine di città situate lungo il Reno o nella Germania centrale e orientale, si ebbero così roghi e stragi di ebrei. Le analogie tra le due ondate di violenza sono evidenti: nell’arco di un trentennio l’ossessione del complotto ordito dai discendenti di Abramo si era sedimentata nella mentalità popolare. 

 
Il 4 settembre 1409, Papa Alessandro V inviò da Pisa una bolla diretta al francescano Ponce Fougeyron, che esercitava le funzioni di inquisitore generale in una zona molto vasta, comprendente le diocesi di Avignone, Ginevra e Aosta, il Delfinato, il Contado Venassino (regione della Francia sudorientale). La bolla lamentava che in questi territori alcuni cristiani, in combutta con i perfidi giudei, avevano fondato nuove sètte che praticavano riti proibiti contrari alla religione cristiana: stregonerie, divinazioni, invocazioni del demonio, arti malvage che pervertivano molti ingenui cristiani; ebrei conversi che cercavano di insegnare il Talmud e altri libri della loro legge; infine, cristiani ed ebrei i quali sostenevano che l’usura non era peccato. Nei loro confronti era necessaria la massima vigilanza, concludeva il pontefice. 

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In questo elenco di capi d’accusa molto variegato, s’intravede – osserva Ginzburg – un fitto tessuto di scambi culturali e sociali tra comunità religiose diverse, in un’area in cui era confluita gran parte degli ebrei cacciati dalla Francia. A questa pericolosa contiguità, con possibili deviazioni sincretistiche, Alessandro V cercava di porre un freno. Del resto, già nella seconda metà del Trecento le valli sul versante italiano delle Alpi occidentali erano state teatro di una vera e propria offensiva contro gruppi consistenti di eretici. Il nome con cui venivano chiamati – Valdesi – li identificava come tardivi seguaci della predicazione religiosa condotta da Pietro Valdo – o Valdés – due secoli prima. Si tratta di processi celebrati dall’Inquisizione, attorno al 1380, contro artigiani, contadini e piccoli commercianti (sarti, calzolai, osti). Le loro confessioni rispecchiano anzitutto credenze radicate da lungo tempo nei gruppi eterodossi: la polemica contro la gerarchia ecclesiastica corrotta, il rifiuto dei sacramenti e del culto dei santi, la negazione del Purgatorio. Nel giro di pochi decenni Valdesi, Catari (da “cattus”, perché adoratori del diavolo in forma di gatto) o più genericamente eretici, diventarono sinonimi di partecipanti ai convegni diabolici.  

 
La strada della letteratura demonologica sul sabba era aperta. Tra i suoi incunaboli, sottolinea Ginzburg, c’è un testo più citato che letto: il Formicario (1435-1437). Il suo autore, il domenicano tedesco Johannes Nider, insiste molto sulla descrizione dei malefizi – per così dire – tradizionali: da quelli volti a procurare la malattia e la morte, a quelli usati per procacciarsi l’amore femminile. Ma nel suo scritto si affaccia anche l’immagine ancora sconosciuta di una setta di streghe e stregoni, ben distinta dalle figure isolate di “malefiche” o incantatori presenti nei racconti penitenziali del Medioevo. Alcuni elementi essenziali di quello che diventerà lo stereotipo del sabba sono già presenti: l’omaggio a Satana, l’abiura di Cristo, la profanazione della croce, i bambini divorati. Altri elementi non meno importanti invece mancano, o vi compaiono solo di sfuggita: le metamorfosi animalesche, il volo magico, i raduni notturni con il loro contorno di banchetti e di orge sessuali. Tuttavia, dopo i lebbrosi, gli ebrei, i poveri e mendicanti, era ormai arrivato il turno degli stregoni e delle streghe: saranno loro i nuovi protagonisti del complotto contro la società cristiana. 

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