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Rallentare, dilatare

Suonala con calma, Glenn

Marco Ballestracci

Era la “pace autunnale” del pianoforte di Gould. Da Bach al jazz svedese, elogio della lentezza in musica

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Tutto è velocemente cambiato nel fantasmagorico mondo della riproduzione musicale. La rete ne è diventata il principale palcoscenico, ma ciò non significa affatto che questa disciplina abbia subito uno svilimento. Anzi, per l’appassionato dedito a scoprire registrazioni che prima erano soprattutto appannaggio dei collezionisti sfegatati il web è una benedizione, così che la propria passione per la musica – dopo un’accurata verifica del materiale che la rete propone – possa ancor più estendersi, senza delusioni, nel repertorio degli artisti che più si amano. In questo senso, per esempio, la produzione di Glenn Gould una volta limitata alla discografia ufficiale, col passare del tempo, grazie a un più libero accesso ad archivi di varia natura è diventata estesissima. Al punto da incontrare appassionati che ammettono d’essersi rivolti al mercato giapponese pur di avere una copia del cd dell’Arte della fuga che contenga oltre alle incisioni originali pubblicate nel 1962, anche quattro ulteriori contrappunti (L’arte della fuga di J.S. Bach – pubblicata nel 1751, un anno dopo la morte del musicista – è formata da 24 composizioni: 16 contrappunti e 8 canoni. Ciascun contrappunto apporta una variazione al primo contrappunto – che è il più semplice – addentrandosi lentamente in un fitto labirinto di variazioni dal tema originale), prima mai divulgati su supporto hi-fi, in cui Gould suona finalmente il piano.

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Tutto è velocemente cambiato nel fantasmagorico mondo della riproduzione musicale. La rete ne è diventata il principale palcoscenico, ma ciò non significa affatto che questa disciplina abbia subito uno svilimento. Anzi, per l’appassionato dedito a scoprire registrazioni che prima erano soprattutto appannaggio dei collezionisti sfegatati il web è una benedizione, così che la propria passione per la musica – dopo un’accurata verifica del materiale che la rete propone – possa ancor più estendersi, senza delusioni, nel repertorio degli artisti che più si amano. In questo senso, per esempio, la produzione di Glenn Gould una volta limitata alla discografia ufficiale, col passare del tempo, grazie a un più libero accesso ad archivi di varia natura è diventata estesissima. Al punto da incontrare appassionati che ammettono d’essersi rivolti al mercato giapponese pur di avere una copia del cd dell’Arte della fuga che contenga oltre alle incisioni originali pubblicate nel 1962, anche quattro ulteriori contrappunti (L’arte della fuga di J.S. Bach – pubblicata nel 1751, un anno dopo la morte del musicista – è formata da 24 composizioni: 16 contrappunti e 8 canoni. Ciascun contrappunto apporta una variazione al primo contrappunto – che è il più semplice – addentrandosi lentamente in un fitto labirinto di variazioni dal tema originale), prima mai divulgati su supporto hi-fi, in cui Gould suona finalmente il piano.

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Il sospiro di sollievo è legato al fatto che l’artista canadese - che spesso proponeva nei recital pianistici i contrappunti dell’Arte della fuga – quando si trattò d’inciderne la prima parte decise, nessun biografo conosce la ragione precisa, di utilizzare l’organo della chiesa anglicana di Tutti i santi di Toronto, così che, per molto tempo, l’unica testimonianza gouldiana dell’“opera somma del pensiero polifonico” fu affidata a uno strumento del tutto inusuale nella sua discografia. Oltre a questa ragione meramente strumentale, ciò che rendeva assolutamente necessari i quattro nuovi contrappunti era il fatto che due di questi – il primo e il quattordicesimo – erano suonati con un’ampiezza, che per i comuni mortali si traduce con lentezza, memorabile. D’altro canto i quattro nuovi frammenti erano stati registrati durante una serie di sessioni che, alla fine, avevano condotto all’incisione delle Variazioni Goldberg pubblicate nel 1982 e riversati dalla colonna sonora del film Glenn Gould Plays Bach di Bruno Monsaingeon.

 

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Ogni atto musicale, perciò, si dipanava sotto l’influsso della particolare ispirazione che condusse alla clamorosa differenza di lunghezza tra la prima versione delle Goldberg incise da Gould nel 1955 (trentotto minuti e trentaquattro secondi) e la seconda, appunto, del 1982 (cinquanta minuti e cinquantotto secondi). Che cosa rappresentano quei dodici minuti in più delle Variazioni e la lentezza memorabile dei Contrappunti I e XIV dell’Arte della fuga? La risposta è probabilmente contenuta in un’intervista che Gould concesse a Ulla Colgrass: “Mi piacerebbe credere che esista una sorta di pace autunnale in ciò che faccio, in modo che buona parte della musica diventi un’esperienza tranquillizzante. Non dico che le mie registrazioni ci riescano del tutto, anche se sarei molto felice se così fosse. Sarebbe meraviglioso se ciò che realizziamo sotto forma di registrazione contenesse la possibilità di un certo livello di perfezione non soltanto tecnico, ma anche e soprattutto spirituale”.

 

In altri termini si potrebbe dire che Glenn Gould alla fine della sua carriera – che corrisponde, ahinoi, anche alla fine della sua vita – cercasse nelle sue esecuzioni di oltrepassare il limite puramente tecnico delle composizioni che affrontava, prendendosi libertà di interpretazione che, ancora oggi, tra i puristi fanno scaturire reazioni del tipo “l’impostazione di Gould è assolutamente antimusicale e mi ricorda lo spettacolo di una foca addomesticata che suona God Save the Queen su una serie di trombe d’automobile”, ma, al contempo, fa anche in modo che in alcuni ospedali la sua musica venga fatta ascoltare, come una sorta di tranquillante naturale, ai pazienti che s’accingono ad affrontare interventi impegnativi, proprio per la “la pace autunnale” che induce. Ora c’è da chiedersi se la dilatazione dell’ampiezza musicale sia un orizzonte al quale approdano alcuni spiriti sensibili, come Gould, con la maturità o se sia invece una sorta di qualità innata.

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Per quanto riguarda il pianista canadese la seconda ipotesi è molto più plausibile della prima. Se la dilatazione dei Contrappunti I e XIV e delle Goldberg appartiene al 1981, un anno prima della sua morte, la controversia (per quanto nessuno dei due protagonisti l’abbia mai considerata tale, riconducendosi a una normalissima differenza d’opinione artistica) con Leonard Bernstein a proposito del Concerto n.1 in Re minore di Johannes Brahms risale al 1962, con Gould appena trentenne. L’ormai celebre discorso di Bernstein al pubblico prima dell’esecuzione alla Carnegie Hall spiega bene l’oggetto del contendere: “L’interpretazione del solista (Glenn Gould) è, diciamo così, poco ortodossa. È un’interpretazione che si distingue nettamente da tutte quelle che finora ho ascoltato o anche solo immaginato e ciò per la dilatazione eccezionale dei tempi e le frequenti digressioni dalle indicazioni dinamiche di Brahms”, che tuttavia terminano con un eccezionale apprezzamento, “Ho deciso di dirigere ugualmente perché sono affascinato e felice di gettare un nuovo sguardo su un’opera così tanto spesso eseguita e perché nell’esecuzione del signor Gould ci sono momenti di grandissima freschezza e persuasione e poi perché possiamo tutti imparare da questo artista straordinario che è anche un filosofo della musica”.

 

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Perciò la famosa differenza d’opinioni, poi ingigantita dai critici musicali sino a controversia, riguarda “l’eccezionale dilatazione dei tempi”, in altre parole il rallentamento dell’esecuzione. “Ancora una volta voleva ignorare le assurdità competitive della forma concertistica, affrontando questo pezzo spettacolare in maniera antispettacolare. Voleva che l’esecuzione fosse basata su un’etica della contemplazione piuttosto che della competizione. Voleva introspezione e non esaltazione, perciò scelse tempi insolitamente lenti per tutti e tre i movimenti. E Bernstein, conoscendo il valore e la sincerità di Gould l’assecondò fino in fondo” (Kevin Bazzana). Questa attitudine contemplativa delle sue esecuzioni lo fece ben presto ascendere al ruolo di asceta: un uomo che osserva il mondo da lontano. Tuttavia l’ampiezza memorabile che si riscontra nei due contrappunti “giapponesi” dell’Arte della fuga e nell’“incidente di Bramhs”, si ritrova anche in Gould quindicenne, alle prese coi suoi primi recital.

 

“Una signora ci ha telefonato dopo che suo figlio di diciannove anni aveva sentito suonare Glenn nell’ottobre del ‘47. Ha raccontato che quando suo figlio è tornato a casa dal concerto le ha detto: ‘Mamma, tu mi racconti sempre che esiste l’aldilà e la vita eterna. Non ci ho mai creduto finché stasera non ho sentito suonare Glenn Gould. Adesso lo so che esiste’. Perciò anche la musica strumentale può avere una grande influenza sulla vita degli uomini, quando è benedetta dal Signore”. Parole che esprimono tutta la gratitudine presbiteriana dei genitori di Gould verso l’Altissimo e che si esplicita sulla terra grazie alla semplice – a quindici anni, appena accennata e tuttavia inesorabile – dilatazione dei tempi della musica. Fran Lebowitz, nella fortunatissima serie Pretend, It’s a City (Fran Lebowitz – Una vita a New York), racconta del proprio sbigottimento di fronte a ciò che le confidano gli amici psicologi: “Il più grande problema di quelli che vanno in analisi a New York non sono tanto, chessò, i conflitti giovanili coi genitori o gli atti di bullismo da bambini. No. Pagano montagne di dollari per confidare all’analista che il loro problema più grande è il rumore che c’è sempre in città. Cioè, vanno dallo psicanalista per il rumore che fa New York. E’ incredibile!”.

 

Certamente il rumore perenne, quasi una disfunzione cronica dell’orecchio, è una fonte inestinguibile di nevrosi, ma, a ben guardare, può diventare anche generatore di effetti che si rivelano persino positivi coll’andar del tempo. Per esempio dare un apporto decisivo allo sviluppo della musica moderna. Non a caso uno dei comandamenti sempre ribadito dai cultori della musica afro-americana è che l’inurbamento dei neri del sud, soprattutto a Chicago e Detroit, provocò l’elettrificazione degli strumenti per contrastare il moltiplicatissimo fragore del nuovo ambiente che li circondava e ciò aprì alla black music orizzonti del tutto inaspettati. Lo stesso precetto vale per New York, che se non ha la maternità per ciò che concerne il jazz, nato pure lui nel Sud degli Stati Uniti d’America, è senza dubbio il luogo in cui questa musica è cresciuta e ha raggiunto una robustissima costituzione, tanto da mettere in dubbio l’indiscutibilità del principio mater semper certa est. Il be-bop, l’hard-bop e il free jazz trovarono il luogo ideale in cui ramificarsi lungo le strade di New York City e la loro concitazione è la perfetta rappresentazione del frenetico via-vai newyorkese e ciò fa in modo che siano la precisa colonna sonora del buffissimo speech di Fran Lebowitz.

 

Se si prendono i cento migliori album di jazz secondo Rolling Stone non si fa altro che risalire Madison Avenue sino alla 115esima e poi attraversare l’Harlem River per arrivare prima a Brooklyn e poi a Queens. È sempre e continuamente New York in versione diurna o notturna a seconda che si scelga, per esempio, Out to Lunch! di Eric Dolphy o Eastern Sounds di Yusef Lateef. Tuttavia questo salire e scendere lungo le arterie gonfie del traffico e del rumore della città termina improvvisamente quando si arriva al cinquantottesimo posto della classifica, perché là ci si imbatte in Jazz Pa Svenska – Jazz in Svezia – di Jan Johansson, un disco di riarrangiamenti in forma jazz di canzoni della tradizione svedese. Jazz Pa Svenska è un album che ha venduto oltre mezzo milione di copie in tutto il mondo, tuttavia Jan Johansson è ancora poco conosciuto in Italia. Senza dubbio si conoscono molto meglio i musicisti che occupano le precedenti cinquantasette posizioni, probabilmente perché l’anno dell’uscita del disco, il 1964, corrisponde all’epoca in cui Bill Evans regnava incontrastato.

 

La coltre si dirada quando si rivela che Jan Johansson è l’autore della colonna sonora di Pippi Calzelunghe, anche se questo stride un poco coll’aura rossastra che dovrebbe diffondere un musicista di jazz. Invece è proprio la capacità di sfuggire ai canoni e, al contempo, d’ottenere un suono inconfondibile che riassume ogni influenza a rendere il pianista svedese un imprescindibile punto di riferimento per un intero movimento musicale, tanto che quando si diffuse la notizia della sua morte – in un incidente stradale, mentre si recava a suonare, il 9 novembre 1968 – i giornali specializzati scrissero “Purtroppo è vero, sulla strada per Jonkoepping è morto il jazz svedese”. Curiosamente ciò che descrive meglio i tratti di Jazz Pa Svenska è proprio un portale web di diffusione musicale. “Jan Johansson in questo disco suona solo col contrabbassista Georg Riedel. Insieme danno una rilettura alla musica tradizionale svedese attraverso le dinamiche e i canoni del jazz. Johansson mette nel cassetto i pirotecnici virtuosismi del bop e riduce al massimo gli spazi all’improvvisazione, concentrandosi sulla portata emotiva di polke, marce e vecchie canzoni che riemergono in una potente veste malinconica piena di blue notes”.

 

La melodia di Visa fran Utanmyra, il pezzo d’apertura e probabilmente il più conosciuto di Jazz Pa Svenska, è così scandita che pare il fischiettare tranquillo d’un pescatore che il vento fa arrivare in terraferma da qualche punto del Golfo di Botnia e il suo apparire sonoro pare non estinguersi mai. D’altro canto è proprio accanto su quel mare che separa Svezia e Finlandia che Jan Johansson è nato: a Soderhamm, duecentocinquanta chilometri a nord di Stoccolma. È una cittadina piantata in luoghi molto simili a quelli che Glenn Gould evocò in un documentario del 1967, prodotto dalla Radiotelevisione canadese, The Idea of the North, che racconta le esperienze di cinque persone che si addentrano nel Grande Nord americano, al limite del circolo polare artico, dove un suono si espande con un’ampiezza pressoché infinita. Il significato profondo dell’esperienza di The Idea of the North venne raccontata da Glenn Gould un po’ di anni dopo: “Ho voluto raccontare ciò che spesso m’è capitato di notare. Tra le persone che si erano spinte a nord molte, la maggior parte, parevano essere state trasformate in filosofi. Filosofi empirici, come sono i musicisti, ma comunque veri e propri filosofi”. Pensatori del Grande Nord che cercano la perfezione spirituale nell’ampiezza, che per i comuni mortali si traduce con lentezza, della musica.

 

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