PUBBLICITÁ

Fratelli a pezzi

Marina Valensise

Viaggio ad Auschwitz, senza memoria ma con ferocia e sarcasmo. Guerra e pace di famiglia nell’ultima scorrettissima Yasmina Reza

PUBBLICITÁ

Passano gli anni, spuntano le rughe, i figli crescono, i padri muoiono e Yasmina Reza alza il tiro della sua ambizione con un romanzo molto teatrale, in cui riversa la farsa tragica del nostro tempo osando l’indicibile. Ridicolizza i viaggi turistici a Auschwitz e denuncia l’assurdità del dovere della memoria. Lo fa mettendo in scena una famiglia di ebrei sopravvissuti all’Olocausto e la connivenza primigenia di un trio di due fratelli e una sorella, che si adorano, si inseguono, si dilaniano e si tormentano per futili motivi, sino a litigare a morte mentre vagano nel teatro della tragedia del Novecento, e finiscono per ritrovarsi in limine mortis in un abbraccio pieno di compassione. Caustica, politicamente scorrettissima, nihilista disperata e però dotata di feroce ironia, Yasmina Reza scrive respirando il teatro. Da trent’anni i suoi testi vengono rappresentati in mezzo mondo e persino adattati al cinema, ricorderete Carnage di Roman Polanski.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Passano gli anni, spuntano le rughe, i figli crescono, i padri muoiono e Yasmina Reza alza il tiro della sua ambizione con un romanzo molto teatrale, in cui riversa la farsa tragica del nostro tempo osando l’indicibile. Ridicolizza i viaggi turistici a Auschwitz e denuncia l’assurdità del dovere della memoria. Lo fa mettendo in scena una famiglia di ebrei sopravvissuti all’Olocausto e la connivenza primigenia di un trio di due fratelli e una sorella, che si adorano, si inseguono, si dilaniano e si tormentano per futili motivi, sino a litigare a morte mentre vagano nel teatro della tragedia del Novecento, e finiscono per ritrovarsi in limine mortis in un abbraccio pieno di compassione. Caustica, politicamente scorrettissima, nihilista disperata e però dotata di feroce ironia, Yasmina Reza scrive respirando il teatro. Da trent’anni i suoi testi vengono rappresentati in mezzo mondo e persino adattati al cinema, ricorderete Carnage di Roman Polanski.

PUBBLICITÁ

 

Nel 2016 ha vinto il Premio Renaudot con “Babylone”. Sa captare come un radar le minime vibrazioni della vita quotidiana, i tic più banali, le pose più meschine, per restituirne l’assurdità con trovate poetiche, surreali, deliranti. Lo dimostra all’ennesima potenza questo romanzo apparentemente sbrindellato (Serge, Flammarion, 240 pagine, 20 euro) dove saltando di palo in fresca, seguendo il flusso di coscienza, cambiando di continuo prospettiva, Yasmina Reza gioca su tutta la gamma dei meccanismi psichici che fanno di una famiglia disfunzionale una prigione o un rifugio, senza mai scegliere però che piega dare a quella strana passione inalienabile che è l’amore fraterno. In più, stavolta aggiunge alla nevrastenia borghese un tocco scabroso, perché si cimenta col peso della tradizione, anzi con la morte della tradizione, e dunque il senso della storia e del passare del tempo, come avverte lei stessa nella quarta di copertina: “A casa di mia madre, sul suo comodino, c’era una foto di noi tre che ridiamo aggrovigliati l’uno sull’altro in una carriola. Come se fossimo stati spinti lì dentro a una velocità vertiginosa per venire versati nel tempo”.

 

PUBBLICITÁ

Il racconto in prima persona è affidato al fratello numero due, Jean, un tipo ordinario, esperto di conduttività dei materiali, che sin da piccolo è al centro del triangolo formato dal primogenito Serge e dalla sorella Nana, bellissima e viziata, che anziché looking for a dentist, come vorrebbero papà e mamma, ha sposato un insulso ma solido sottoproletario iberico, “vista l’attrazione elementare verso ciò che tende a deludere le aspettative famigliari”. Jean entra in scena nella cabina dello spogliatoio di una piscina comunale alla periferia di Parigi mentre armeggia con un costume preso in affitto. Cerca di arrotolarsi il pene come se fosse una lumaca per poterlo alloggiare dentro lo striminzito tessuto di lycra, e una volta compiuta l’operazione si scopre riflesso allo specchio nel colletto di rotoli adiposi che gli esce dalla cintola. L’immagine, secondo la migliore tradizione yiddish, è il correlativo oggettivo della sua inadeguatezza, della sua vita incerta, deragliata da binari che restano ai suoi occhi ancora vaghi.

 

Jean è il tipo senza storia, il gregario aggiogato al ben più fantasioso fratello maggiore, che resta il suo mito, nonostante le folli ambizioni, gli smacchi e i fallimenti, e continua a essere il riferimento al quale guardare con la stessa gelosa ammirazione del servo nei confronti del padrone. Ma nonostante questo, Jean è esposto alle intemperie della vita come e quanto il fratello, non tanto nei successi professionali, visto che Serge, consulente improbabile e scarso di redditi, è rimasto anche da grande “re delle imprese nebulose”, quanto nell’incongruenza sentimentale, dato che entrambi vengono mollati dalle rispettive compagne, entrambi puntano per riconquistarle su un affetto vicario, e s’inseguono come se fossero l’uno il riflesso dell’altro. La prova del fuoco per loro sarà il viaggio a Auschwitz. Partono con la sorella per assecondare la figlia di Serge, Joséphine, un germoglio in cerca di identità, e finiscono per restare intrappolati dalle smanie identitarie di quella ventenne sovrappeso, aspirante estetista, decisa a ritrovare le radici familiari. Il viaggio a Auschwitz serve a elaborare il lutto, a colmare il vuoto lasciato dalla morte della nonna, un’ebrea agnostica che ha deciso di farsi cremare. Ma finirà per rivelarsi un’esperienza insulsa e ancora più lacerante del previsto.

 

PUBBLICITÁ

La sorella Nana, petulante e maniacale, preoccupata dal futuro professionale di suo figlio, l’aspirante chef pronto a aprire un fast-food fusion, detta il passo a fianco della nipote. È seria, affidabile, piena di buoni propositi, ma patisce la continua presa in giro dei fratelli che si trascinano svogliati, e la punzecchiano sul marito spagnolo, sul figlio cuoco dalle folli pretese, sulla vecchia coppia di amici che hanno preso un cagnolino giapponese claudicante e davanti a lui si chiamano tra di loro papà e mamma. Costretti a stare dietro alle ragazze, Jean e Serge fanno fronte comune e s’abbandonano a una sorta di resistenza passiva, boicottando il percorso della visita, violando le regole, mettendosi a fumare. Intanto la nipote con la sua mole sovrappeso, la tigna selvaggia e le ciglia finte permanenti, s’aggira come una faina fra i vari blocchi del lager nazista, leggendo ad alta voce le didascalie, scattando foto a raffica, e continuando a prendendo in giro il padre come nulla fosse. Serge, turbato, inizia a dare segni di insofferenza, resta in disparte, s’accende una sigaretta davanti all’ingresso delle camere a gas, osserva sconcertato i gruppi di israeliani che scendono dai bus, cerca di evitare lo sciame dei turisti in calzoncini corti, e quasi sviene davanti a un’orientale col poncho che posa per un selfie di fronte al padiglione delle docce. A un certo punto sbotta “cosa vuole questa ragazza da me?”, e di lì a poco sente venire un infarto.

PUBBLICITÁ

 

Jean per andare a Auschwitz si era portato dietro I sommersi e i salvati di Primo Levi, “mai letto”, commenta Serge che invece tira fuori dalla valigia Il blasfemo, un racconto di Singer dall’inizio premonitorio: “La mancanza di fede può anche condurre alla follia”. I due fratelli hanno preso una stanza a due letti all’Hotel Imperiale, un edificio su tre piani sviluppato in larghezza sui binari morti verso il campo di sterminio più grande d’Europa. Ma dell’Olocausto e della storia degli ebrei in Europa, come della loro storia di famiglia, non sanno granché, per non dire che ignorano quasi tutto. In compenso, conservano il gusto del ridicolo. Dopo un viaggio isterico da Cracovia, a bordo di un’Opel della Hertz, con Serge che cerca il Gps mentre attraversano foreste spesse come quelle di Sobibor viste nel film di Claude Lanzmann, arrivati a Oswiecim, scoprono il borgo più fiorito del mondo: lampadari circondati da crinoline di fiori, corolle debordanti dai vasi, statue floreali che si pavoneggiano sulle piazze, una festa di muri colorati. Alla vista della scritta di Papa Woytila, Antysemityzm jest grzechem przeciwko bogu i ludzkosci (“l’antisemitismo è un peccato contro Dio e contro l’umanità” ndr), Serge traduce a orecchio: “L’ebreo è un buon concime” .

PUBBLICITÁ

 

Intanto però nella sua testa il filo della memoria s’arrotola intorno alla sua vita disastrata: pensa al tradimento di Valentina Dell’Abbate, la calabrese gelosa che l’ha appena sbattuto fuori casa; pensa agli incerti affari immobiliari col socio che ha comprato un garage a Montourge ma non riesce a ottenere il permesso per la sopraelevazione, ripensa al suo progetto in proprio di comprare un bilocale alla figlia, per andarci a vivere lui…

 

Svagati, distratti, tempestati da messaggi ottundenti, dalle immagini di vecchi film e serie tv, i fratelli Popper sembrano impermeabili al raccoglimento necessario per una visita sul luogo della tragedia del Novecento. Sono l’incarnazione del vuoto lasciato dalla tradizione, anzi dalla morte della tradizione, e la coazione a ricordare rischia di tradursi in una posa effimera, senza sostanza, senza conseguenze. Dai loro genitori ormai scomparsi non hanno ricevuto alcun ricordo compiuto, ma solo frammenti, pezzi di biografie, affabulazioni. “Ma chi si vuole imbarazzare per la religione e per i morti? La leggerezza che l’assenza di patrimonio procura non è mai riconosciuta abbastanza”, osserva il narratore tra sé e sé, ripensando al padre, il borghese anticomunista in doppiopetto che lavorava come rappresentante di un lubrificante supersonico e che la domenica mattina, colla giacca del pigiama e il sedere al vento, giocava a scacchi da solo.

 

Edgar Popper nutriva un odio tenace verso gli antisemiti e l’antisemitismo, e reagì con una forma grave di psoriasi quando Pompidou vendette i Mirage al colonnello Gheddafi. Proveniva da una famiglia di ebrei della media borghesia viennese, con un piede nell’avanguardia e un altro in sinagoga, e si era salvato grazie al padre, un ingegnere meccanico che era riuscito a far scappare moglie e figli dall’Austria dopo l’Anschluss, per finire poi con la madre e la sorella a Theresienstadt. Lui s’era salvato ma aveva perso tutto, in compenso però aveva Israele, punto di riferimento al quale ancorare la propria identità e erogare le sue numerose donazioni, nonostante la ferma avversione della moglie, da lui considerata un’ebrea antisemita (la peggiore specie), oltreché la colpevole numero uno della mancata educazione religiosa dei figli: “Non sanno niente, non hanno fatto nemmeno il bar mitzvah”. Marta Heltaï in effetti professava dichiaratamente la non appartenenza al mondo delle vittime, e rifiutava l’essenza stessa dello stato ebraico, nato per esporre una cicatrice indelebile alla faccia del mondo. Era anche lei un’ebrea della Mitteleuropa. Nata da una famiglia di industriali lanieri talmente assimilati da magiarizzare il patronimico, era misteriosamente scampata all’Armata rossa e alla deportazione, mentre i fratelli e i parenti più prossimi erano scomparsi dentro i vagoni piombati nella primavera 1944.

 

Ma tutto quel passato per i suoi figli è un ricordo evanescente. A nulla serve la ricerca dei nomi di parenti e amici sui registri delle vittime dello sterminio nel padiglione ungherese di Auschwitz. A nulla porta l’emozione di quel gruppo di famiglia che resta inebetito davanti alle cataste di valigie, di occhiali, alle matasse di capelli, conservate sotto le teche di vetro del museo, senza un filo di polvere. Certo, per un attimo figli e nipote sembrano smarriti davanti alle due foto dell’ungherese, che prima di entrare a Auschwitz sorride in carne nel suo bikini accanto al figlio bambino, e otto mesi dopo è ridotta a uno scheletro in pelle ossa che non si regge in piedi. Ma ognuno continua ad avere in testa un suo pensiero, una sua idea fissa, il volto di una persona svanita nel fiume del passato. E tutti oscillano tra la freddezza e la ricerca dell’emozione legata al dovere della memoria, che però resta soltanto un certificato di buona condotta. “Ricorda, ricorda… Tutte queste furiose ingiunzioni della memoria non sono forse dei sotterfugi per allisciare quello che è successo e sistemarlo in buona coscienza nella storia?”. Perché la vita quotidiana intanto preme, e continua il suo corso trascinandosi dietro le beghe, le incombenze, le meschinità, le delusioni come detriti impazziti che irrompono nel luogo del lutto universale, come una distrazione molesta che impedisce di riflettere, di ritrovare i propri morti, di dialogare con loro. E così quando fra Serge e la sorella esplode una lite furiosa, con lui che dà di matto e lei che l’accusa di essere un fallito, un rancoroso, un buono a nullo, capace solo di ridere degli altri, il narratore che è la voce della coscienza si sfila. Jean vede il fratello a pezzi, sconvolto dal nipote aspirante chef che gli rimprovera con un sms di non aver bisogno di uno zio che insiste a procacciargli un inutile stage in un ristorante svizzero, e gli rinfaccia di volere semmai solo una famiglia. Guarda la sorella che attaccata al telefono cammina nervosamente avanti e indietro davanti ai finti vagoni piombati della Judenrampe di Birkenau, e per la prima volta ne scopre il corpo appesantito, la borsa rossa appesa a tracolla, gli incongrui stivaletti col tacco troppo grosso e troppo alto. “Mi domando cos’è che ci ha fatto cadere per caso nello stesso nido, per non dire nella vita?”.

 

La risposta, struggente, arriva molte pagine dopo quell’assurdo viaggio verso il nulla della memoria, lungo un cammino senza meta e senza nemmeno la compagnia di un fantasma. Arriva dopo il colpo di grazia della sosta a Cracovia, fra l’orrore della Piazza del Mercato invasa dai festival medievali e da orde di turisti fra una miriade di negozi di souvenir, dopo la scenata al ristorante per far abbassare il volume di una musica che impedisce di parlare, dopo il tentativo di conversazione con la Make Up Artist, amica di Joséphine… È una risposta fatta di silenzio e di speranza, che serve ai tre fratelli per ritrovarsi un’ultima volta, insieme, prima di ripiombare nel nulla. È per questo che un libro apparentemente sconnesso, che confonde di continuo piani narrativi, cambia le prospettiva, alterna primi piani e campi lunghi, si presta perfettamente a far irrompere la vita con la sua banalità, con le sue meschinità, le sue ossessioni, le sue incongruenze, nel santuario più tragico della storia del XX secolo. Con una prodezza delirante, Yasmina Reza riesce nell’impresa impossibile di dar voce alla follia della vita, per fare rimbombare meglio la follia e la tragedia della storia.

 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ