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il foglio del weekend

Napoli rinnegata

Francesco Palmieri

Offese e odi indomabili. Perché Enrico Caruso, il più grande tenore del primo Novecento, non mise più piede nel teatro della sua città

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Cosa sono cent’anni? Sono un secolo o niente se – tra guerre e paci – non bastano a rimettere d’accordo un uomo o la memoria di un uomo con la propria terra. Veduto dal 2021, sembra solo ieri o chissà quando quel 1921 in cui morì Enrico Caruso, tenore dei tenori in vita e adesso, la star più luccicante del suo tempo e stella fissa di quelli che seguirono. Fu il figlio più famoso nei cinque continenti dell’amabile e imperdonabile città di Napoli, dove aprì e chiuse gli occhi, dove mosse i primi passi da povero e gli ultimi da ricco in un esiguo tragitto biografico – spirò a 48 anni – segnato da una lite irrimediabile. Scoppiò la sera del 30 dicembre 1901 al Teatro San Carlo. Lui sulla scena Nemorino in L’elisir d’amore, loro – i concittadini nelle poltrone – che non lo applaudirono abbastanza soprattutto sui giornali all’indomani, quando a essere precisi il guaio lo combinò tal barone Saverio Procida, princeps dei critici partenopei.

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Cosa sono cent’anni? Sono un secolo o niente se – tra guerre e paci – non bastano a rimettere d’accordo un uomo o la memoria di un uomo con la propria terra. Veduto dal 2021, sembra solo ieri o chissà quando quel 1921 in cui morì Enrico Caruso, tenore dei tenori in vita e adesso, la star più luccicante del suo tempo e stella fissa di quelli che seguirono. Fu il figlio più famoso nei cinque continenti dell’amabile e imperdonabile città di Napoli, dove aprì e chiuse gli occhi, dove mosse i primi passi da povero e gli ultimi da ricco in un esiguo tragitto biografico – spirò a 48 anni – segnato da una lite irrimediabile. Scoppiò la sera del 30 dicembre 1901 al Teatro San Carlo. Lui sulla scena Nemorino in L’elisir d’amore, loro – i concittadini nelle poltrone – che non lo applaudirono abbastanza soprattutto sui giornali all’indomani, quando a essere precisi il guaio lo combinò tal barone Saverio Procida, princeps dei critici partenopei.

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Recensì sul Pungolo con troppa sufficienza il giovane tenore al quale il mondo della lirica – Scala compresa – incensi e inchini aveva già tributato. Giurò Caruso: “A Napoli non canterò mai più, ci tornerò soltanto per mangiare i vermicelli”. Nei vent’anni dopo tenne fede alla parola, perché così sono i napoletani: possono amare chi gli ha fatto un torto ma non perdonano se a farglielo è chi amano. Pertanto accadde, a prospettiva rovesciata, che i concittadini non perdonarono a Caruso la sdegnosa promessa se non per la parentesi emotiva dei suoi funerali, quando per significare la folla l’aggettivo “oceanica” risultò più fedele che enfatico. Simile regalo di popolo, però da vivo, gliel’aveva fatto la sua città d’adozione New York, molto più generosa con lui di denari e successi al Metropolitan, celebrando il 22 marzo 1919 i venticinque anni di attività dell’artista. “E tali festeggiamenti furono, americanamente, fra i più strepitosi che si ricordino”, raccontò Nicola Daspuro (che da rappresentante della Casa Sonzogno nel Mezzogiorno spinse Caruso agli inizi della carriera).

 

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Invece quel 4 agosto del ‘21, tra la basilica di San Francesco di Paola e la piazza del Plebiscito, l’omaggio collettivo alla salma frettolosamente imbalsamata concretava sia il teorema dello scrittore Giuseppe Marotta, secondo cui la morte è un argomento decisivo per la riconciliazione tra Napoli e i suoi figli, sia quello del giornalista Ugo Ricci: “A Napoli, rammenta: / si torna illustre, non lo si diventa”. La regola, che ha ammesso per fortuna eccezioni, è rimasta valida nel caso di Caruso. La città non gli ha intestato un monumento se non un modesto busto a piazza Ottocalli nei pressi della casa natale (in deplorevole fatiscenza) e una stradicciuola all’Arenella, dopo avergli prima concessa poi revocata una via più significativa (Sant’Eframo vecchio). Un museo gli fu intitolato ma a Milano, un altro a Lastra a Signa vicino a Firenze, nella villa che gli era appartenuta, e i souvenir carusiani si ritrovano a Sorrento, dove il tenore trascorse le ultime settimane di vita al Grand Hotel Excelsior Vittoria (pernottando nella sua suite Lucio Dalla compose il brano Caruso).

 

 

Per il centenario della scomparsa, tolto l’annuncio di lodevoli iniziative individuali, non sembra che Napoli eccederà i limiti sindacali del calendario commemorativo: il San Carlo, nel cartellone reso incerto dal Covid-19, prevede solo un “Gala Concerto” con tre tenori (Francesco Meli, Javier Camarena, Francesco Demuro) per il 19 settembre, festa di San Gennaro. Qualche drappello di appassionati si radunerà prima, come ogni 2 agosto, dinanzi alla Cappella nel Cimitero di Santa Maria del Pianto dove Caruso riposa in una teca di vetro poi protetta dal legno e dal marmo, che nel corso del tempo è stata offesa da tentativi di profanazione e furti di arredi. Molto meno frequentata della vicina Cappella di Totò, fu meta battuta dai turisti, soprattutto americani, negli anni seguenti alla morte del tenore. La visitava l’eterogeneo popolo di melomani e stravaganti cultori di una Celebrity che ebbe maggior fama di un Rodolfo Valentino e precedette quelle di Elvis Presley, John Lennon, Michael Jackson – quando non più i numi della lirica ma i miti della musica leggera avrebbero occupato i cieli.

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Amabile calore e imperdonabile freddezza screziano ancora il rapporto tra la città e il figlio che le prese l’arte del canto ma le avrebbe negato la sua. Eppure Caruso sentiva la necessità di ritornarci ogni anno, non solo a mangiare vermicelli ma per rivedere la matrigna, il fratello, gli amici (cui lauti elargiva pranzi e assegni bancari) e per rincontrare donna Emilia, la maestra che da piccolo lo schiaffeggiava se si lasciava scappare una frase in dialetto, e alla quale confidò la propria malattia con loquacissime lettere dall’America – che spesso nel dialetto scivolavano. Quei primi malori che lo avrebbero condotto in pochi mesi alla morte si palesarono con virulenza l’11 dicembre 1920 al Metropolitan, lui nuovamente Nemorino in L’Elisir d’amore (la vita è fitta di nessi che denominiamo “coincidenze”). In camerino, quando cominciò a truccarsi, Caruso sentì in bocca il sapore del sangue, tossiva e ne sputava nel lavabo, bevve acqua e sale ma l’emorragia si fece più copiosa.

 

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Sangue “e sangue che cominciò alle otto e dieci e finì nientemeno che quattro ore dopo, quattro ore di continuo buttar sangue e come era bello e rosso, pareva sanghe ‘e puorco”. Non più bastando a tamponarlo i fazzoletti che gli passavano dalle quinte, fu costretto a sospendere lo spettacolo. Se, oltre a donna Emilia, avesse consultato anche i medici napoletani, la sua vita sarebbe stata più lunga. Distante, e confidente negli esosi professoroni americani, si sottopose a un tormentoso calvario chirurgico sulla base di diagnosi sbagliate. Quella giusta gliela fece, nella convalescenza di Sorrento, il professor Giuseppe Moscati (poi proclamato santo per virtù di vita e miracolose guarigioni), percependo un onorario di duemila lire comprensive delle spese di viaggio e dell’ultima visita a Napoli: ascesso subfrenico complicato da una pleurite purulenta, con uno “stato settico generale” e “inevitabili degenerazioni epatocardiorenali” frutto di nove mesi di suppurazioni e inutili cure. Troppo tardi per salvarlo.

 

 

A sciami se n’andarono, a sciami vanno via i napoletani per fuggire dalla madre “che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme” come scrisse Raffaele La Capria. Se ne vanno a volte risentiti come Caruso, cui si deve la metafora più cruda della città: “’O presebbio è bello, ma ‘e pasture so’ malamente”. Se ne vanno perché costretti, come Roberto Saviano. O perché è la strada necessaria per realizzare opere e sogni. Erri De Luca ha ipotizzato la condizione di Napòlide: “Chi si è staccato da Napoli, si stacca poi da tutto: non ha neanche lo sputo per incollarsi a qualcosa, a qualcuno”. C’è chi va via esasperato come Eduardo De Filippo: estenuato dalle difficoltà di realizzare un teatro stabile, sbottò nella famosa esortazione “Fujtevenne”, “scappate” da Napoli, un moto estemporaneo ma che rimase inciso nella pietra con la sua morte a Roma, dove finirono anche Massimo Troisi e Totò, Bud Spencer e Luciano De Crescenzo, i quali tuttavia non furono feriti a morte né addormentati dalla Madre Gatta, ma dei suoi graffi e del suo sonno fecero sogno di coltivata nostalgia sviluppando una presenza distanziata.

 

Ossia quell’artifizio per il quale l’inventore del professor Bellavista considerava la sua casa ai Fori Imperiali come collocata “in un quartiere settentrionale di Napoli”. Tutt’altro fu per Pino Daniele, che a differenza di Caruso tornava per cantare ma non più per mangiare vermicelli e che squarciò la piaga quando dichiarò in una intervista: “Io non sono figlio di Napoli” (il titolo per questione di battute o per battuta a effetto soppresse il resto della frase: “Io mi sento un figlio del Sud. Sono un garibaldino”). Non sopportava forse quel suo popolo “che ha bisogno sempre di un re. O di un Masaniello”. Ma fu commemorato a piazza del Plebiscito, come accadde per Caruso, da una folla “oceanica”. Gli onori giunsero per lui assai più celeri e copiosi, perché alla città aveva negato il corpo ma non l’arte. Quella che, canta Jovanotti, “accarezza la pelle / e ci entra nel sangue / scava nelle radici profonde / la musica è il mare noi siamo le onde”. Bisogna provare a farci pace con l’assenza e la presenza, con l’andare o col restare: “Napoli è madre sì, ma non quella imperiosa che immaginava Kafka pensando alla sua Praga.

 

È piuttosto una madre presente e distratta che ti adotta, ti disorienta e poi ti lascia andare con qualche sussulto di nostalgia”, sostiene la germanista Roberta Ascarelli, “emigrata” a Roma e discendente dal magnate filantropo Giorgio Ascarelli, primo presidente del Napoli Calcio. “Quando ci torni e ci cammini pensi a quanto sia bella ma anche quanto oltraggiata. Ti muovi tra l’azzurro, il tufo e gli scempi edilizi raccontati da Francesco Rosi, provando assieme orgoglio e rabbia”, dice un altro “emigrato”, Mario de Laurentiis, editor a Milano, il quale cerca “di non fare il milanese a Napoli perché è provincialismo alla rovescia, mentre mi riesce peggio non fare il napoletano a Milano, anche se non me ne compiaccio”. L’ambigua verità dell’odi et amo tra Napoli e i napoletani la sancì forse Ermanno Rea: “Ho orrore a pensare che avrei potuto, io stesso, non distaccarmi mai da tutto questo; e ho orrore a pensare d’aver mollato gli ormeggi”. Ed è così che sono nate meravigliose pagine della letteratura, i quadri di Salvator Rosa, le partiture di Paisiello, l’inzuccherata retorica dell’assenza e il risentimento della presenza. Perché c’è anche la stirpe dei “separati in casa”, secondo cui “Napoli tutto tollera e perdona fuor che l’ingegno”. Ma Libero Bovio, che lo affermò, mai prese treno o nave per partire. A differenza di Caruso, “Me ne voglio i’ all’America” fu solo l’incipit di una delle sue canzoni su quelli che davvero se n’andavano, tra cui alcuni sarebbero tornati provando il “doppio orrore” descritto da Rea.

 

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