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"Di tutti perché non è di nessuno"

Madrid non esiste

Guido De Franceschi

Non ha monumenti né uno skyline riconoscibile. E’ brutta e paesana. Ma la capitale spagnola svela il cuore di un intero paese. Un libro

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Roma ha il Colosseo, Parigi ha la Tour Eiffel, Londra ha il Tower Bridge, Berlino ha la Porta di Brandeburgo, Atene ha il Partenone. Copenaghen ha la Statua della Sirenetta, e vabbè. E poi Barcellona ha la Sagrada Família e Bilbao ha il museo Guggenheim. Madrid, invece, non ha niente. Quasi tutte le città europee proiettano un’immaginetta, talvolta un po’ spiccia e dolciastra (un tempo si diceva “da cartolina” ora si dovrebbe dire “da selfie”), che le colloca nel desiderio di chi abita lontano. Non importa la qualità di quel simbolo (il museo del Prado vale un milione di porte di Brandeburgo): vale più la silhouette, la riconoscibilità visiva immediata, la capacità di entrare senza sforzo nel cuore di chi pensa a una città. Ma Madrid un simbolo capace di diventare pittogramma non ce l’ha. Madrid però ha tutto il resto, perché ha quel nonsoché di certe capitali “no logo” che sono difficili da spiegare a chi non c’è mai stato ma che suscitano un reciproco sorriso complice tra le persone che invece le conoscono.

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Roma ha il Colosseo, Parigi ha la Tour Eiffel, Londra ha il Tower Bridge, Berlino ha la Porta di Brandeburgo, Atene ha il Partenone. Copenaghen ha la Statua della Sirenetta, e vabbè. E poi Barcellona ha la Sagrada Família e Bilbao ha il museo Guggenheim. Madrid, invece, non ha niente. Quasi tutte le città europee proiettano un’immaginetta, talvolta un po’ spiccia e dolciastra (un tempo si diceva “da cartolina” ora si dovrebbe dire “da selfie”), che le colloca nel desiderio di chi abita lontano. Non importa la qualità di quel simbolo (il museo del Prado vale un milione di porte di Brandeburgo): vale più la silhouette, la riconoscibilità visiva immediata, la capacità di entrare senza sforzo nel cuore di chi pensa a una città. Ma Madrid un simbolo capace di diventare pittogramma non ce l’ha. Madrid però ha tutto il resto, perché ha quel nonsoché di certe capitali “no logo” che sono difficili da spiegare a chi non c’è mai stato ma che suscitano un reciproco sorriso complice tra le persone che invece le conoscono.

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Ce l’ha Sarajevo, quel nonsoché. E ce l’ha Belgrado. Quel nonsoché di Madrid non viene dai monumenti. Non viene dalla grande bellezza. Viene dall’aria, dalla gente, dalla tavola, dalla certezza che quel marciapiede – con quella particolare sconnessura tra le mattonelle e con quel tipo di paletto dissuasore di quella sfumatura di colore – potrebbe trovarsi soltanto davanti alla porta di un bar di quella città. Proprio per questo, per la mancanza di un simbolo, quando si vuole raccontare Madrid non si sa da dove iniziare. Proprio per questo, per quel suo nonsoché, quando si inizia a raccontare la capitale spagnola non si sa poi dove fermarsi (e se fermarsi). E forse è per questo che il libro “Madrid” di Andrés Trapiello, da poco pubblicato in Spagna da Ediciones Destino, non finisce mai. “Madrid” è un’autobiografia che diventa una guida di viaggio, che diventa un atlante letterario, che diventa una storia idiosincratica della città, che diventa un repertorio lessicale.

 

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E, mano a mano che si procede verso il termine del bulimico volume – che è soltanto un termine fisico, cartaceo, perché Trapiello non sembra volersi arrendere mai al punto finale e ci si aspetta che la sua scrittura tracimi sulla quarta di copertina, sulla costa, sul taglio delle pagine – i capitoli diventano schede. E poi brevi voci d’enciclopedia. E poi elenchi di nomi e cognomi, prima con qualche aggettivo ad accompagnarli e poi del tutto nudi, a indicare da soli, nella loro sequenza, un tempo e un luogo e un mondo, come in un “catalogo delle navi” di un poema epico al rovescio, che lascia in fondo la capacità evocativa dell’enumerazione. “La città è cresciuta e si è moltiplicata in un modo che Andreas Trapiello racconta in modo insuperabile”, ha scritto Mario Vargas Llosa sul País. Ed è vero, perché Madrid, pur così riconoscibile per quel suo nonsoché, è nessuna e centomila senza forse mai essere una, perché nel tempo è cresciuta enormemente e troppo disordinatamente, raccogliendo immigrati da ogni parte della Spagna senza neppure avere un termine dispregiativo per indicare i nuovi arrivati che non fosse, semplicemente, “madrileños”.

 

Questa è la Madrid già raccontata nei romanzi del canario Benito Pérez Galdós (divinità protettrice del libro di Trapiello), nei film del valenciano Luis García Berlanga, nei quadri dall’aragonese Goya, nelle fotografie del barcellonese Francisco Ontañón. Ricostruendosi di continuo e allargandosi molto nell’epoca del Franchismo, in cui trionfavano le pessime cose di gusto atroce (e di qualità autarchica), Madrid ha tritato gran parte del suo passato edilizio. Beninteso, non è che ci fossero grandi meraviglie da abbattere. “Mi fa ridere di pietà un posto come Madrid che parla tanto di religione e che però non ha mai saputo costruire un tempio che sia degno non dico di Dio ma almeno degli uomini che ci entrano”, scriveva intorno al 1870 il Balzac spagnolo Benito Pérez Galdós (affermazione inattaccabile: provate a trovare una singola chiesa di qualche vago interesse a Madrid che non sia l’eremo di San Antonio de la Florida affrescato da Goya). Certo, in centro la città ha saputo crearsi gli spazi pieni di cielo propri di una grande capitale, dal paseo de la Castellana alla calle de Alcalá. Ma la Gran Vía, con quel suo aspetto un po’ cartongessoso illuminato da neon rétro, non riesce a cancellare mai del tutto il sospetto di essere la scenografia di un musical.

 

Questa strada, scrive Trapiello, è una specie di “Nueva York en La Mancha”, piena di edifici che “hanno l’aria di essere stati preparati in uno shaker. Molti sono incoronati da ciuffi pomposi e teatrali e così la Gran Vía assomiglia molto di più alle sue imitazioni che sono state costruite ad Albacete, a Murcia o a León di quanto non assomigli a ciò che cercava di imitare, Chicago e Parigi. Per me, in compenso, la grande riuscita di questa strada è dovuta al fatto che non abbia ancora perso del tutto la peluria erbosa del pascolo (della Mancha)”. Eh, sì, perché Madrid è la sineddoche de La Mancha e La Mancha è la sineddoche della Spagna. Madrid è tutta la Spagna in quanto è somma, per pura addizione, di tutti i paesi graziosi e delle cittadine e dei paesoni e dei paesacci che nel corso degli ultimi due secoli sono stati lasciati quasi vuoti dai loro abitanti che si sono trasferiti in quel punto qualunque in mezzo al nulla che si chiama Madrid. Per questo, per essere la parte per il tutto che è l’intera Spagna, Madrid non può che esserne la capitale.

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E, anche se Madrid ormai è levigata e chic e cosmopolita e ultramoderna e costosa e turistica – quasi ogni aspetto della città riesce ancora a essere, in una qualche sua maniera, “auténtico” e “de toda la vida”, come dicono gli spagnoli quando qualcosa ricorda loro il profumo che ristagnava nel tinello della nonna di Ciudad Real. A Madrid sono “auténticos”, e “de toda la vida”, perfino i “señoritos” del ricco barrio Salamanca, che, pur circondati dagli stessi negozi di lusso di ogni altra città europea, sfoggiano ancora, e in numero sorprendente, pettinature aznariane e mocassini con le nappine (un’altra cosa fantastica di Madrid: ti guardo quindici secondi e so con esattezza chi voti). E allora si può immaginare lo choc che ebbe Barcellona dopo la morte del dittatore Francisco Franco. Con la sua cosiddetta “gauche divine”, formata da intellettuali francesizzanti, il capoluogo catalano – così nordico e così borghese e così avant-garde e così anarcoide e così ribelle, nonostante tutto – provava e rodava, fin dagli anni Sessanta, il suo ruolo di città-guida per il rientro a pieno titolo della penisola iberica in Europa, dopo la lunga età dei dinosauri Franco e Salazar.

 

E invece Barcellona si vedrà rubare la scena dal fracasso drogatissimo, ultrapop, alcolico, sboccato, disperato, warholiano e travolgente che veniva prodotto dalla Movida madrileña, in cui la messicana Alaska cantava canzoni, il manchego Pedro Almodóvar girava film, Eduardo Haro Ibars (lui, sì madrileno, ma cresciuto a Tangeri) scriveva poesie, il leonese Alberto García-Alix scattava fotografie e i fratelli Panero (Juan Luis, Leopoldo María e Michi, originari di Astorga) facevano semplicemente se stessi: i fratelli Panero. Sì, venne da Madrid e non da Barcellona la luce (stroboscopica) che segnalò al mondo che la Spagna era tornata in Europa. Quelli della gauche divine erano disperati, scrive Trapiello. “Ma se i madrileni sono dei grezzi, degli ordinari! Ma se non sono mai usciti dal paesello, non come noi, che siamo la porta dell’Europa! Ma se puzzano di ascelle!’”.

 

E, in effetti, era difficile credere che il posto dove succedeva tutto fosse quella gigantesca cittadina troppo spagnola, troppo paesana, troppo “auténtica” e “de toda la vida”, troppo bruttarella, quella Madrid che durante il Franchismo, così scrive Trapiello, era tutta “color pensione, color commissariato, color ferrovia, color ferramenta, color carcere, color ‘Portineria’, color ‘Si rammendano calze’, color ‘Materiali da costruzione’, color ‘Vendonsi carboni’, color merdoni, color cenere, color calzolaio da sottoscala, color ‘Si compra pane secco’, color carta vecchia, color carta da pacco, color carta carbone, color carta assorbente, color carta straccia, color penitenza, color Adorazione Notturna, color suora, color prete, color fame, color garofano, color tifo, color San Isidro, color cialda, color lebbra, color urine, color sputi, color vinaccio Valdepeñas, color tombola, color ‘Torni domani’, color congresso eucaristico, color ‘Perdona il tuo popolo, Signore’, color rosa, color goldoni, color ‘Malattie veneree’, color formica, color rossetto, color topa”.

 

Intanto Barcellona, bellissima e riconoscibilissima grazie ai loghi passe-partout ereditati dal genio di Antoni Gaudí, è diventata la capitale dell’Erasmus, di Airbnb, del low-cost, del primo weekend all’estero senza i genitori, del “quasi quasi mi trasferisco in Spagna”, e perfino, seppur un po’ di malavoglia (noblesse oblige), la capitale della Catalogna wannabe indipendente. Ma la capitale vera e larger than life era ed è Madrid. E’ lì, a Madrid, che si annusa quello che è stato, si scucchiaia quello che è e si cuoce quello che sarà un intero Paese. Nei suoi quartieri alti, in quelli popolari, e perfino nei paesi dormitorio e nelle urbanizaciones di lusso subito fuori città. Nei bar che sono stati conservati così com’erano perché ai turisti piace così. Nei bar che invece sono rimasti così com’erano perché anche i loro habitués sono rimasti così com’erano. Nei locali costosi dove si servono cocktail che non sono certo quelli “de toda la vida”, ma dove, nonostante questo, si porta ancora l’occhiata da torero. Nei bar in cui ci sono davvero i noccioli di oliva sputati per terra e in cui, a fianco della spina del vermú, riposano delle medias raciones di qualche pietanza (il vetro dell’espositore dentro il quale sono collocate è rigorosamente crepato e ha una leggera appannatura, perché l’impianto di refrigerazione, poverino, spolmona sotto quel bancone fin dai tempi della Guerra civile).

 

Roma è la città eterna, scrive Trapiello, e Madrid è la città umana, “la città di tutti perché non è di nessuno”. E, in effetti, sembra che Madrid sia resa quello che è soltanto dalle vite che la vivono e dalle vite che le passano attraverso. Ma poi, pochi mesi fa, nelle fotografie del lockdown totale, abbiamo visto un’inedita Madrid deserta, improvvisamente identica a quella dipinta da Antonio López nei suoi quadri strepitosi. E allora, guardandola per la prima volta come un guscio vuoto, come una conchiglia senza il suo mollusco, guardando i suoi edifici da splendida città bruttina (“E’ la capitale del mondo più difficile da capire, è difficile da capire come un grande artista, come ciò che ha in sé qualcosa di geniale”, scriveva Ramón Gómez de la Serna) si è capito che aveva ragione Tomás Borrás quando sosteneva che “il segreto di Madrid è che non esiste e questo è anche il segreto della sua grandezza”. Sì, perché anche Madrid, come la Ascoli Piceno di Giorgio Manganelli, non esiste.

 

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