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La capitana del mondo libero

La banalità che ci incanta

Simonetta Sciandivasci

Amanda Gorman, più dei suoi versi, ci piace perché rassicura e non ci costringe a guardare come siamo diventati. La sua è un’autorevolezza che le deriva dal corpo, dalla voce, dalle mani

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Quando Amanda Gorman ha tenuto il suo discorso alla cerimonia di insediamento di Joe Biden e Kamala Harris, il 20 gennaio scorso, l’America è tornata a farci invidia, a darci voglia. Si è mondata da Trump, e di nuovo ci è parsa impareggiabile, pronta, sconfinata, emozionante, nostra. La capitana del mondo libero. Informale e impeccabile. Di nuovo vent’anni avanti a tutti. Di nuovo con in tasca un’invenzione, un’origine: farsi battezzare da una giovane poetessa afroamericana, farle dire come sarà il cammino nuovo, quale la nuova strada. Il discorso di Gorman, “The hill we climb”, la collina che percorriamo, finiva così: “Viene il giorno in cui usciamo dall’ombra e dal fuoco, ne usciamo senza paura. L’alba nuova è come un pallone che sale mentre lo lasciamo libero. Perché c’è sempre luce, se solo abbiamo il coraggio di vederla. Se solo abbiamo il coraggio di essere luce”.

 

Grandiosamente banale, ma non della banalità hollywoodiana dei grandi ideali, piuttosto di quella consunta delle piccole virtù, del bicchiere mezzo pieno: “Siamo stanchi, ma ci abbiamo provato; abbiamo pianto, ma siamo cresciuti; abbiamo sofferto, ma abbiamo sperato”. Le immagini facili, non semplici (una cosa è il facile, un’altra il semplice). Gli inviti empatici – deponiamo le armi per poterci abbracciare, vinciamo costruendo ponti e non tirando di spada. I miti contemporanei – il riscatto, la riscrittura, la correzione del passato, la varietà, la fierezza, la rinascita. Lei leggeva il tema e noi l’ascoltavamo rapiti, incantati da quelle immagini che conosciamo a memoria, quei desideri che abbiamo da una vita, e che ci confortavano come ci confortano le vecchie canzoni, perché non cambiano, perché ci accompagnano, come ci accompagnavano le mani di lei che lei, ha scritto ieri il New York Times, usava “elegantemente, per enfatizzare le parole della sua poesia”, con fare sacerdotale e urban, in questo realmente accattivante, con addosso un doppiopetto giallo di Prada, un cerchietto rosso tra i capelli, la sua bellezza intensa, i suoi ventidue anni, quanti ne aveva Lauryn Hill (tornano le colline) quando registrò “The Miseducation of Lauryn Hill” e fece la storia del pop (era il 1998).

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Noi lì a imbambolarci, a meravigliarci come se stessimo vedendo il mare per la prima volta, l’abbiamo fotografata, registrata, ripostata, condivisa, commentata in toni epici, molto più epici dei suoi. Amanda potentissima, futura, futuro, abbiamo scritto. Chi non credeva nel sogno americano, non avendoci mai creduto o avendo smesso, ha cominciato o ha ripreso perché “di fronte a una ragazzina nera discendente di schiavi” non potevamo non farlo. Sono state le sue parole, molto di più di quelle di Biden, a farci tornare a dire: la grande democrazia, la nostra salvezza, il grande esempio. Ci siamo sentiti alba, come alla fine dei film della Marvel che sembravano essere diventati realtà durante l’assalto a Capitol Hill d’inizio anno, con lo sciamano, gli sciamannati, le forze della follia che profanavano il tempio del governo, l’istituzione delle istituzioni, e che invece non erano che un brutto sogno, o almeno così crediamo ora.

 

In meno di un anno, abbiamo visto che negli Stati Uniti gli afroamericani possono venire ammazzati per strada dalla polizia e chiamati a inaugurare la nuova presidenza, in qualità di poeti, e una volta lì dire: vengo dagli schiavi, sogno di diventare presidente e il nostro paese è diventato un posto dove una come me può avere quest’ambizione. Gorman è la sesta poetessa a prendere parte a una cerimonia di insediamento ed è la più giovane della sestina, aveva quindici anni quando è diventata Youth Poet Laureate, nel 2014, e mercoledì è stata ufficializzata la sua presenza al Super Bowl, la finale del campionato di Football che tiene da sempre il paese davanti alla tv. Irene Soave, sul Corriere della Sera, ha fatto notare come l’attenzione che le abbiamo riservato, più che sui versi, sia stata subito concentrata sulla sua persona (figlia di madre single, nera, piccolina, bellissima, davvero bellissima) e quello che aveva addosso, “una rete di simboli quasi più sofisticata di quelli delle sue poesie”, e infatti dalla settimana scorsa a rappresentarla c’è l’agenzia di modelle Img, la stessa di Kate Moss e Bella Hadid, ed è “caso raro, anche se non unico, di poeta che diventa rapidamente assai più famoso dei suoi versi (e ancor più raro: ricco grazie a loro)”.

 

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Uno dei temi ricorrenti della poesia di Gorman è il nuovo femminismo, che anche questo fa: s’irrobustisce più tramite accessori e testimonial che tramite messaggi e idee; produce slogan perfetti per bellissime t-shirt; conta sull’esempio delle star. Non conta cosa si dice, ma chi lo dice e come. Nel femminismo, nella politica, nella letteratura, nel cinema, nel lavoro, importa con chi ti schieri, con chi collabori, da quale brutto passato ti sei rialzato, come ti vesti, che cosa curi, che cosa mangi, chi frequenti. Importa se in te tutto è riconducibile a me. Importa se il grande personaggio è alla mia portata non perché si fa capire ma perché mi è simile. È un movimento che dalla costituzione dei nuovi movimenti, dei nuovi partiti, s’è spostato alla costruzione di carriere, all’ideazione, alla teorizzazione, all’estetica artistica, alla poesia. Gorman ci ha inchiodati con le mani, il corpo, la voce, la storia personale e non con le parole, o coi versi, che erano consueti e facili (non semplici, ancora) anche se a noi sono sembrati dirompenti, rivoluzionari, magnetici, primordiali nel modo in cui è primitivo “Black is King” di Beyoncé, dove la novità non è la storia, ma i protagonisti (sostituisci gli uomini primitivi neri ai bianchi e hai il mondo nuovo e il nuovo mondo).

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A noi la banalità piace perché – già, perché? – ci rassicura, ci dispensa dalla ricerca, quindi dal fallimento, ci conferma. È una delle forme del bias cognitivo. Tutta la cerimonia di insediamento di Biden è stata un rituale di riappropriazione di ciò che è nostro, del nostro sogno, del nostro ideale, della nostra identità, delle nostre certezze e Gorman ha riscaldato la radura già illuminata, gli orizzonti già visti, le ambizioni già note. Ha parlato di colline da percorrere, ma è rimasta dentro un recinto. Questo fa il poeta? Nell’introduzione al “Canone Americano”, Harold Bloom scrive, dei dodici che ha scelto (c’è soltanto una donna, Emily Dickinson, cosa che gli è valsa non poche polemiche): “Questi scrittori rappresentano lo sforzo incessante di trascendere l’uomo senza rinunciare all’umanesimo” e ancora “il loro comune denominatore è l’apertura all’intrusione demoniaca”. Ma erano altri tempi, altre americhe, un’altra generazione di poeti, quella che, lo ha scritto John Freeman nell’introduzione a “Nuova poesia americana” (Black Coffee, 2019), negli ultimi anni si è estinta e aveva lavorato a immaginare cosa significasse “essere considerati meno di niente, che pare essere l’esperienza americana per antonomasia” e, soprattutto, aveva esaltato l’io, l’essere individui che stava alla base dei miti popolari statunitensi: “Questo io minuziosamente plasmato e interpretato sta proprio alla base dell’innovazione e dell’impertinenza della poesia americana, ma nel tempo ha prodotto isolamento. Quel Io celebro me stesso e canto me stesso di Walt Whitman in ‘Foglie d’erba’ è annegato nel mare della pandemia insieme a duecentomila persone, per poi riemergere sotto forma della più grande menzogna mai pronunciata da Trump: I alone can fix, solo io posso sistemare le cose”.

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John Updike, scrittore anche lui di un’America fa, si chiedeva: cosa è importante, se non l’individuo? E quale luogo è migliore per conoscere l’individualità delle “armoniose bugie della narrativa”? Gorman scrive per tutti, partendo da tutti, usa il noi. L’ha usato nel tempio della democrazia occidentale e fuori, prima di diventare poetessa laureata, prima di diventare il volto del nuovo Nuovo Mondo. Lì era poetessa, ambasciatrice, candidata. Interpretava tutti i ruoli, facendoli combaciare con il suo corpo, che è l’immagine, la figurina del futuro. Quel corpo racconta la sua storia, che a sua volta racconta la sua poetica. In questo, pur venendo da fuori, lavorando fuori dalle istituzioni, è perfettamente istituzionale e quindi anche politica. La relazione tra linguaggio e istituzioni è delicata da sempre e dipende in modo cruciale dalla persona che la interpreta. In un pezzo di molti anni fa, “Il potere equivoco della parola”, Gillo Dorfles ricordava che per Austin la condizione necessaria per cui un enunciato performativo sia efficace è che “venga riconosciuto come tale, per cui è destinato a fallire ogni qualvolta è pronunciato da una persona che non ha il potere di farlo”.

 

Quindi, la posizione sociale di chi parla, la sua autorevolezza e il suo carisma danno o meno efficacia al suo discorso. In Gorman questo si compie perfettamente, illuminando così il punto vivo, importante: Gorman ha un’autorevolezza che le deriva dal suo corpo, un carisma che le viene dalla sua voce, una posizione sociale che le viene dal suo lavoro e tutti e tre gli elementi fanno di lei una poetessa laureata che va a dare il benvenuto al nuovo presidente. È’ un passo enorme per un paese così malato di razzismo come sono gli Stati Uniti. Ma per noi che, invece, guardiamo da fuori, assorbiamo il sogno, desideriamo il “coraggio di essere luce”, l’emozione di quella lettura, nasce dalle parole o da chi le ha pronunciate? È possibile distinguere? Se a emozionarci è il fatto che una giovane ventiduenne afroamericana sia arrivata fino a lì, nel paese che ha una vicepresidente donna, mentre noi affoghiamo in un’ennesima crisi di governo dove le donne non sono davvero contemplate se non come pedine strategiche, siamo banali? E, se sì, lo siamo perché sono mille anni che stiamo sempre allo stesso punto?

 

Quest’epidemia di poesie, canzoni, romanzi che non ci spostano, non ci portano fuori, che indagano dentro, e a volte come noi ristagnano, è la causa o l’effetto del nostro emozionarci e sdilinquirci per le cose strette, che ci assomigliano, che ci ripropongono, che ci dicono cosa siamo stati e dobbiamo tornare a essere e mai, invece, cos’altro ancora potremmo diventare, inventare, recitare, magari senza scopo, ma solamente per appagamento. Per dolcezza. Per disinteresse. Per sentire un sapore nuovo, trovarlo spaventoso, come quasi tutte le cose nuove, e poi farci l’abitudine. Sorgeremo dal sud inondato di sole, dice Gorman. Una vecchia, vecchissima voce del Mediterraneo lo ripete da secoli.

 

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