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L'intervista della domenica

Guerra e Pigi

Simonetta Sciandivasci

L'addio al Corriere, la letteratura che mostra il mondo, il kindle di Marta, Panorama, in aereo con Ferrara, i russi, il comunismo, l'ipocrisia della sinistra. Conversazione con Pierluigi Battista

Da oggi, Pigi Battista non scrive più per il Corriere della Sera. Quando lo ha annunciato, su Twitter, lo scorso 19 gennaio, mi è preso un colpo, gli ho scritto che a questo punto ci deve almeno un libro ogni sei mesi, lui ha detto che a settembre ne esce uno per La Nave di Teseo, un romanzo sull’Italia – “te do sta notizia” –  e mi sono trattenuta dal chiedergli se non stia pure per mettersi a fare il libraio. Alcuni anni fa, al Piccolo Eliseo di Roma, ero seduta una fila davanti a lui e Giuliano Ferrara, e avevo accuratamente origliato tutte le cose che si erano detti, tra le quali c’era: apriamo una libreria in centro, un posto polifunzionale – e sa il cielo quanto mi ero preoccupata.

No, comunque, niente librerie in centro. Pigi non smette di scrivere: cambia. Va all’Huffington Post di Mattia Feltri, dove curerà una rubrica quotidiana e continuerà a sfidare tutti gli eventi, come nella nota del “Frasario essenziale per passare inosservati in società” di Ennio Flaiano che ha posto in esergo al suo libro che più ho amato, “Mio padre era fascista” (Mondadori): “Famiglia romana, con padre liberale e figlio maggiore comunista, minore fascista, zio prete, madre monarchica, figlia mantenuta: si sfidano tutti gli eventi”. Lui è stato un figlio comunista di padre fascista ex ragazzo di Salò che non si auto assolse né abiurò mai, ma rivendicò di “aver abbracciato con entusiasmo una causa pericolosa in un’età in cui suo figlio, cioè io, neanche riusciva a immaginare che il destino avrebbe potuto costringerlo a dilemmi morali e personali così vertiginosi: da quale parte andare a rischiare la morte? A cosa vale la pena sacrificare la propria vita?”. Poi con il comunismo ha capito che non c’entrava niente, ha militato come negli anni Settanta militavano tutti o quasi tutti in qualche minuscolo partito di sinistra mentre in gran segreto votava radicale, è diventato giornalista, ha lavorato a Epoca e alla Stampa, è stato vicedirettore del Corriere della Sera e di Panorama, ha condotto un programma su Raiuno ai tempi dell’editto bulgaro. Ha scritto molti libri, il più delle volte in prima persona, pieni di altri libri, a volte su altri libri, su altri scrittori (“Il senso di colpa del Dottor Zivago”, su Pasternak, è diviso in due capitoli: il primo si chiama “Lei”, il secondo “Lui”). Da metà febbraio, scriverà per l’Huffington di come si vede il mondo dai libri.

 

Sarà un altro modo di occuparsi di politica?

Che palle, cominciamo dalla politica? Guarda che devi farmi sembrare intelligente e snello, ci tengo.

 

Non ti preoccupare, poi metto il filtro. Allora?

Sarà che l’età mi ha reso barbogio, ma la politica mi ha stufato. Non riesco a tollerare che non sia più legata a un’idea (idea, non ideologia), a cose che identificano e dividono, a scelte di campo. Per me quello che si pensa non può essere staccato da quello che si fa. Invece ora è così che va e la prima conseguenza è che la politica non si occupa più della vita delle persone, non ha nemmeno idea di come sia. Il fatto che un governo dipenda dalle paturnie notturne di chi lo compone deriva da questa estraneità, da questa frattura.

 

Con chi hai litigato al Corriere? Me lo puoi dire, lo terrò per me.

Ma figurati. È che il giornale sta andando in una direzione iper politicista, che naturalmente rispetto, ma che mi mette a disagio, perché mi pone in una dimensione comunicativa del tutto estranea alla mia sensibilità – oddio, se uso questa parola sembro uno stronzo, diciamo radar emotivo: fuori dal mio radar emotivo. Le questioni della politica italiana non solo non mi interessano e non mi colpiscono più: mi irritano.

 

Non mi è chiaro se sei più stufo del modo in cui i giornali affrontano la politica o della politica.

Pari merito, del resto le due cose sono collegate. Ho smesso da tempo di leggere le decine di pagine che ogni giorno i quotidiani dedicano ai retroscena di palazzo, le analisi, i commenti. Ma a chi importa quella roba? Non esiste nessuna persona equilibrata, sensata e di normale cultura che legga anche un quarto degli articoli di politica pubblicati oggi. Sotto i trenta è lo zero assoluto, non ce n’è uno che legga quella roba.

 

I ragazzi ne leggono altra.

Certo. Leggono i romanzi, non i giornali. E fanno bene. Alternano digitale e carta. Mia figlia Marta ama i libroni e li legge a letto con il Kindle, così sta più comoda, mentre per il resto preferisce la carta.

 

Vuoi mettere il piacere della carta, l’odore.

Perfetta dichiarazione per ingresso agevolato a Villa Arzilla.

 

Non sei romantico.

Lo sono sin dall’adolescenza. Un nostalgico romantico. A 15 anni rimpiangevo quello che avevo fatto a 14. Ed è proprio perché sono romantico che penso che occuparmi di politica non abbia più senso. Credo che soltanto la letteratura offra una chiave interpretativa della realtà sufficientemente profonda: come una situazione politica diventa esperienza sociale e vita vissuta lo hanno raccontato sempre e al meglio i romanzieri, e infatti nell’Ottocento, quando ancora non c’erano i giornali di massa, le grandi cronache contemporanee le facevano gli scrittori. Balzac è stato il primo grande giornalista moderno, e non a caso ha scritto feuilleton.

 

C’è stato un momento preciso in cui hai capito l’importanza di questo sguardo più penetrante?

Dopo la morte di mia moglie per me è cambiato tutto e sono diventate fondamentali le ragioni intime delle cose. Credo che potrò ragionare e scrivere sul presente molto meglio partendo da un romanzo, da una serie tv o da uno spettacolo che da Palazzo Chigi.

 

Ti è mai successo di sentirti costretto o condizionato?

Mai. Non sono mai stato censurato, non ho mai scritto cose che non pensavo, ma a volte non ho scritto tutto quello che pensavo. Ultimamente, però, ho cominciato ad avvertire che ero artificiosamente appiccicato a qualcosa che non mi rappresenta più.

 

E adesso cosa ti rappresenta?

Un modo di vedere la realtà che deriva dall’intelligenza emotiva, che diversamente da quello che si crede non nasce nelle scienze sociali ma in quelle neurologiche. Il principio basilare è che capisci le cose attraverso l’influenza emotiva che quelle hanno su di te. Mi sembra piuttosto incontestabile: le cose ci colpiscono per una ragione che sta in noi e non in loro.

 

Riformulo sul romantico. Sei diventato un sentimentale.

Appartengo a una generazione per la quale il peso della politica è stato assoluto. Ci offriva una dimensione amicale, sentimentale, professionale: ci dava un ruolo e un’identità.

 

Non mi sembra che sia durata molto quell’identità, però.

Non appena lasciai il liceo e arrivai all’università, capii che con il mondo della sinistra comunista non c’entravo niente. Me ne separai e da allora non sono più appartenuto a niente e questo mi ha arrecato sia tormento che senso di libertà.

 

Più tormento o più libertà?

All’inizio soprattutto tormento. Ricordo che soffrii parecchio, per mesi non vidi nessuno, presi ad andare al cinema tutti i giorni, mi fissai, volevo fare il critico cinematografico: portavo con me gli schedari dove segnavo tutti i dettagli e alla fine piazzavo anche qualche riga di commento – mi scuso se sembro dell’Ottocento, ma così si faceva, non c’erano i computer portatili. Non mi perdevo una retrospettiva al Nuovo Olimpia, finché non capii che contaminare con il lavoro la cosa per me più bella era una cazzata, e smisi di scrivere di cinema ma continuai ad andarci e a litigare con i miei amici, a discutere dei film come fossero questioni di vita e di morte.

 

E dopo?

Capii che il linguaggio dei compagni non mi rappresentava. Ero diventato comunista per uccidere mio padre, per rifiutare il fascismo, perché mi piacevano le idee anti autoritarie e libertarie, e invece mi ero ritrovato dentro un’altra oppressione della quale nessuno di noi era consapevole perché non capivamo niente, non sapevamo niente.

 

Ho letto la tua controbibliografia per i cent’anni della fondazione del Partito Comunista. Hai scritto che era “un blando antidoto a una lettura troppo apologetica”.  

Quei libri non li leggeva nessuno all’epoca e dubito che qualcuno di quelli che magnificano il comunismo oggi lo abbia fatto. Vivevamo dentro una sbornia ideologica per cui ammiravamo Mao senza sapere che nei gulag cinesi c’erano 15 milioni di persone: quanto eravamo ignoranti, andavamo a catechismo, non avevamo alcun senso critico. Quando mi fu chiaro, mi liberai di tutto e sviluppai una totale avversione per il comunismo che però non mi privò mai del rispetto per gli operai comunisti.

 

Sei di sinistra?

Lo sono ancora, sì.

 

Che cosa significa?

Vorrei che i poveri fossero meno poveri, che ci fossero più giustizia sociale, libertà, diritti, tutele per i lavoratori. Dalla sinistra mi sono sempre aspettato che portasse i sindacati nelle fabbriche, assicurasse ai lavoratori le ferie e tutte le garanzie che spettano loro, non che innaffiasse la sua sovrastruttura ideologica, né che indulgesse nella costruzione di una clamorosa menzogna storica: la magnificazione del comunismo, che taceva e seppelliva i suoi orrori. Ho visto le migliori menti della mia generazione andare al Festival della gioventù a Berlino Est, un posto tremendo dal quale la gente voleva scappare.  

 

Ma il nuovo socialismo, quello dei millennial, quello di Alexandria Ocasio-Cortez, non ti fa ben sperare?

Il socialismo è un’altra cosa. Nei primi anni del secolo, prima che arrivasse il comunismo, produceva le società di mutuo soccorso, le prime associazioni sindacali, le banche popolari: era riformista. Parlano tutti di welfare state dimenticando che il primo a elaborarne uno è stato Bismarck e che la Prima Repubblica risollevò l’Italia dopo la guerra attraverso un meraviglioso sistema di welfare. Il piano Fanfani diede una casa a milioni di persone. Oggi chi lo fa? Chi è attento ai bisogni delle persone? La sinistra è quasi soltanto estetica, stile, punto di vista: guarda come rutta quello, guarda quanto è volgare quell’altro. E si occupa praticamente solo del pareggio di bilancio, roba da ragionieri. Tra i rider che chiedevano diritti e i nuovi padroncini, è stata dalla parte dei nuovi padroncini. Ha avallato l’idea che fosse meglio il lavoro a due lire che niente, ha lasciato migliaia di persone a lavorare in condizioni pietose, fregandosene del valore universale delle tutele. Quando Di Maio disse che aveva abolito la povertà, risero tutti. E per carità, Di Maio non ha le mie simpatie. Però, dannazione, la sinistra dovrebbe porsi come obiettivo almeno la riduzione della povertà. Invece niente. Ha smesso perfino di parlare di giusto e ingiusto.

 

Sei progressista?

Riformista. Parola che, quando ero giovane io, la sinistra aborriva.  

 

Sei mai stato radicale?

Dopo la campagna elettorale del ‘76, quando militai per Democrazia Proletaria, votai radicale, cosa che allora era considerata tradimento. Alla classe operaia che je frega del divorzio, dicevano, e però adesso la riscrittura della storia fa sembrare che Nilde Iotti sia stata la protagonista della battaglia sul divorzio, che invece fu un merito dei radicali, e per questo (anche per questo) quella volta li votai. I comunisti non lo volevano il divorzio: volevano l’accordo con i cattolici.

 

Erano maschilisti i compagni?

Erano uomini. Non c’era differenza tra uomini di destra e uomini di sinistra. Di certo, però, quelli di destra non avevano preoccupazioni ideologiche.

 

Quindi quelli di sinistra sapevano quali posizioni assumere, ipocritamente, per non sfigurare.

L’ipocrisia era ed è il tratto caratteristico di quel mondo. Avere sempre un doppio binario, un doppio standard per cui se tu santifichi le cose brutte è progresso, se lo fanno gli altri è peccato. Se sei tu l’oppressore, la libertà d’espressione non esiste più: tu decidi cosa si può dire. Se Trump no ti piace, non può parlare. Sono riusciti a dire che eliminare Trump da Twitter era un preciso diritto di un’agenzia privata. Eppure, fino al giorno prima, i social network erano accusati di fomentare la deriva autoritaria, il bias, le fake news, e poi sono improvvisamente diventate società private che non censurano: scelgono. Chiariamo: se un giornale non pubblica un mio pezzo, ha il diritto di farlo. Ma se un’edicola non vende un giornale, quella è censura. La ragione per cui la sinistra in 24 ore riesca a passare dal mai con i 5stelle al con i 5 stelle è la stessa: cambio le regole quando mi pare perché io sono il detentore del giusto. Il PCI non avrebbe mai fatto un governo con il Movimento Sociale per fregare la DC anche se avesse avuto la maggioranza in parlamento. Capiamo la differenza?

 

Non sarà pure che alla gente non gliene frega più niente della sinistra, non le sta dietro, e quindi quella fa ciò che vuole?

Certo, anche. Se hai un ministro dell’Economia, Padoan, che si fa eleggere a Siena, dopo molla tutto e va a fare il capo dei banchieri dell’Unicredit e come prima cosa fa fuori il manager dell’Unicredit perché contrario all’unificazione con il Monte dei Paschi, come pretendi che il paese veda in te una forza di sinistra? Il Pd è establishment puro.

 

Anche tu lo sei.

Diciamo che, nella guerra tra ricchi e poveri, faccio parte dell’élite ma sto con il popolo.

 

Ti hanno mai dato del fascista?

Flaiano diceva che c’è il fascismo dei fascisti e il fascismo degli antifascisti. Sento che il leader del sindacato tessili è mio compagno, ma l’editore che non vuole pubblicare i libri che sanno di fascismo è un censore ed è mio nemico.

 

Come siamo finiti nella cancel culture?

È finita l’epoca borghese della discussione pubblica. Avere opinioni diverse e scontrarsi, ovverosia il fondamento della società liberale, è cosa ormai impossibile. E non è vero che è colpa dei social, perché nei social le persone si chiudono dentro delle tribù, delle echo chamber dove rafforzano le proprie idee e convinzioni, sostenendosi e a volte persino gonfiandosi a vicenda. Questo, se mai, accade nella vita reale, dove da sempre è difficile che un marxista vada a cena con uno di Casa Pound. Invece, su Twitter entri in contatto con persone che la pensano diversamente da te e ci litighi perché non sai più discutere e questo finisce con lo stravolgere l’intero dibattito pubblico, che prende le forme della rissa.

 

Jonathan Bazzi ha scritto su Domani: “La vera cancel culture è quella da cui discendiamo, che per secoli ha sottomesso e relegato ai margini donne, persone non bianche, individui LGBT”.

Qualche anno fa, quando al maggio fiorentino andò in scena una Carmen col finale cambiato perché si temeva che l’originale risultasse una apologia del femminicidio, mi fu chiaro che si trattava di un principio di inciviltà e barbarie. All’epoca d’oro del politicamente corretto si pensava che il codice dominante andava destrutturato e integrato, che i classici andavano affiancati alla storia raccontata dal punto di vista degli oppressi. E a me stava benissimo. Io sono cresciuto con “Soldato blu” di Ralph Nelson, che per la prima volta diede una rappresentazione ribaltata dei pellerossa: erano gli americani a essere i cattivi. Ora però non si vuole integrare una storia monca, ma la si vuole cancellare, e questo non è un serio conflitto culturale: è soltanto fanatismo.

 

Andiamo sull’incancellabile. I russi. Perché ti piacciono tanto?

In che senso?

 

I romanzi russi, dico.

Perché una volta che hai letto “Delitto e Castigo” e “Guerra e pace”, hai letto tutto.

 

Con la poesia come va?

Insomma. Io amo i romanzi più di tutto, anche più dei racconti, che devono essere per forza perfetti, compiuti, veloci: schizzi. Invece i romanzi sono mondi, possono avere pagine noiose o riuscite per metà, come succede nella vita, ma ti ci puoi addentrare.

 

Come scegli un libro?

Sono un sessantacinquenne, ho una certa esperienza.

 

Com’è la vecchiaia?

Un massacro, come ha scritto Philip Roth. Non è vero che porta un calo del desiderio. Piuttosto, porta una spaventosa dissonanza tra l’intensità del desiderio e la capacità fisica di soddisfarlo.

 

Ma è vero che si è contratta?

Forse, ma questo rende tutto più complicato: da una parte è un’età di bilanci e dall’altra è un tempo supplementare. Io sento di vivere in una terra di mezzo.

 

E questo non ti esalta?

Mi preoccupa, perché non so bene che cosa fare, come sentirmi. Sono intrappolato in questa sensazione di essere né vecchio né giovane. Come sempre nella mia vita, mi ritrovo a essere un terzista e non nel senso di cerchiobottismo, ma proprio di possibilità ulteriore e di non appartenenza. Ho perso mia moglie in un’età in cui era presto per chiudere i giochi e tardi per rifarmi una vita: sono un vedovo di terza fascia. Mediano. Di certo so che ormai ho vissuto più di quello che vivrò e questo mi getta in un’angoscia tremenda.

 

Com’è stato lavorare con Ferrara, quando ti volle come suo vicedirettore a Panorama?

Giuliano ribaltava le convenzioni come un calzino. C’erano i milanesi che parlavano di restyling, allora lui prendeva una copertina qualsiasi, ci giocava, inventava sul momento due o tre cose folli e quelli restavano ammutoliti. Quando gli chiedevano quante pagine dare a una storia di copertina, lui rispondeva: dieci! Dieci, per un giornale dove il pezzo più lungo non superava mai le due pagine, erano tantissime. E lui le voleva senza foto, molto scritte, come poi fece quelle del Foglio. Andavamo a Milano in aereo, io avevo il terrore di volare e quando facevo i miei riti apotropaici, lui mi diceva: fatti il segno della croce, invece, no? Stava cominciando la sua conversione.

 

Perché durò così poco?

Quando andammo via, il giornale tornò identico a com’era prima di noi e Giuliano disse: non si possono raddrizzare le zampe ai cani.

 

E com’è stato lavorare in Rai al posto di Enzo Biagi?

Precisiamo: io non sostituii Biagi. Arrivai a “Batti e ribatti” prima dell’editto bulgaro e lavorai benissimo. Facevo quello che volevo, senza nessuna ingerenza. L’ad era Flavio Cattaneo, uomo pragmatico e molto fortunato, visto che sta per sposare Sabrina Ferilli. Gli ascolti erano altissimi e io non me ne capacitavo. Una volta chiesi a mia figlia, che allora era una bambina, come fosse possibile, secondo lei. Mi rispose che era merito dell’orario: andavo in onda tra il Tg1 e i pacchi di Bonolis, e la gente anziché cambiare canale, si alzava per andare a fare la pipì e restava sintonizzata. Mi sembrò geniale, perfetto.

 

Ti diverti?

Ma come faccio a divertirmi se non posso vedere nessuno e le volte che vado a cena devo tornare a casa alle nove e mezza come se vivessi in Alto Adige. Dai. Mi metto due mascherine, ma quando vedo un ragazzo a volto scoperto mi viene voglia di abbracciarlo, lo sento fratello, mi sembra l’avanguardia della liberazione. Non so come possano pensare di tenere in prigione una società per più di un anno.

 

Soffri la solitudine?

A me questi che dicono che si sta bene in casa da soli fanno incazzare da morire. Ma parlate per voi, stronzi sociopatici.

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.