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Breve racconto onirico dell’imperscrutabilità della mente umana

Sergio Belardinelli

Sarà lo stress da dpcm e festività, ma strani individui venuti da chissà dove, somiglianti a noi, ma con una testa un po’ più grande, si sparpagliavano per la città come uno sciame d’insetti

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Qualche notte fa ho avuto un incubo. Sarei voluto scappare, avrei voluto gridare, mi sarei voluto svegliare. Ma niente. Rimanevo prigioniero nel sonno, mentre intorno a me tutto prendeva le sembianze di una normalità insolita, che mi faceva paura, senza che capissi di preciso perché. Strani individui venuti da chissà dove, somiglianti a noi, ma con una testa un po’ più grande, si sparpagliavano per la città come uno sciame d’insetti. Entravano nelle fabbriche, negli archivi, nei musei, nei laboratori, nei palazzi dell’università e del governo con la frenesia tipica di chi cerca qualcosa, di chi vuol conoscere, sapere. Ecco: avrei detto che ci stavano studiando. Ognuno di loro portava a tracolla una borsa che era in realtà una specie di computer sul quale apparivano in continuazione, a grande velocità, oggetti, formule, pagine di libri, monumenti, palazzi, quadri, eventi; il tutto attivato da tante piccole scariche elettriche che uscivano a rapida intermittenza dai loro occhi e dalle loro teste. Era come se stessero scannerizzando la nostra intera civiltà. Lo facevano con una frenesia meccanica, ma avrei detto senza trovarci nulla di interessante. Troppo evoluta la loro intelligenza. Mi colpì in particolare il sorriso di scherno che compariva sui loro volti ogni volta che sui computer scorrevano temi religiosi: chiese, testi sacri, immagini, sacerdoti, papi benedicenti e cose simili.

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Qualche notte fa ho avuto un incubo. Sarei voluto scappare, avrei voluto gridare, mi sarei voluto svegliare. Ma niente. Rimanevo prigioniero nel sonno, mentre intorno a me tutto prendeva le sembianze di una normalità insolita, che mi faceva paura, senza che capissi di preciso perché. Strani individui venuti da chissà dove, somiglianti a noi, ma con una testa un po’ più grande, si sparpagliavano per la città come uno sciame d’insetti. Entravano nelle fabbriche, negli archivi, nei musei, nei laboratori, nei palazzi dell’università e del governo con la frenesia tipica di chi cerca qualcosa, di chi vuol conoscere, sapere. Ecco: avrei detto che ci stavano studiando. Ognuno di loro portava a tracolla una borsa che era in realtà una specie di computer sul quale apparivano in continuazione, a grande velocità, oggetti, formule, pagine di libri, monumenti, palazzi, quadri, eventi; il tutto attivato da tante piccole scariche elettriche che uscivano a rapida intermittenza dai loro occhi e dalle loro teste. Era come se stessero scannerizzando la nostra intera civiltà. Lo facevano con una frenesia meccanica, ma avrei detto senza trovarci nulla di interessante. Troppo evoluta la loro intelligenza. Mi colpì in particolare il sorriso di scherno che compariva sui loro volti ogni volta che sui computer scorrevano temi religiosi: chiese, testi sacri, immagini, sacerdoti, papi benedicenti e cose simili.

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Mentre continuavo ad agitarmi nella mia immobilità, quegli individui incominciarono a radunarsi in una piazza parlando animatamente tra loro. Le loro teste e i loro occhi non emettevano più le scariche elettriche di prima. Si erano fatti calmi, assorti. In un batter d’occhio, alcuni di loro costruirono un enorme schermo, davanti al quale tutti gli altri si disposero in tante file ordinate come nelle adunate militari. In silenzio. Un silenzio denso e profondo, per niente affatto scalfito dalle mie grida strozzate. Finché l’enorme schermo non si illuminò e le loro teste, che questa volta vedevo da dietro, non ripresero a emettere le solite scariche elettriche. Una sterminata folla di persone incominciò a passare velocemente sul grande schermo. Si potevano riconoscere volti famosi e persone comuni; da qualche parte mi parve di scorgere addirittura me stesso da bambino e da adulto. Venni preso dal panico quando mi accorsi che a ognuno di noi venivano scannerizzati i pensieri, le intenzioni e le emozioni, resi visibili come oggetti qualsiasi. Ma evidentemente c’era qualcosa che non andava, visto che le loro scariche elettriche ogni tanto si interrompevano producendo una specie di cortocircuito, come se incontrassero dei vuoti, delle sconnessioni, incompatibili con la loro potente intelligenza lineare.

 

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Dalla mia postazione onirica potevo vedere le loro nuche sobbalzare in continuazione; ebbi l’impressione di cogliere nei loro corpi neri un tremito di stupore e forse addirittura di sgomento per quello che vedevano squadernato nel cervello degli uomini. Intanto sul grande schermo, non so perché, passavano e ripassavano velocemente le familiari immagini della nostra televisione durante la pandemia. Il loro scanner biologico (o forse artificiale, non saprei dire) sembrava impazzito: più insistevano nel vagliare quei programmi televisivi, le sinapsi cerebrali dei loro protagonisti, e più i loro processori s’impuntavano; finché dal grande schermo, che nel frattempo si era fatto incandescente, uscì un’esplosione, un enorme lampo di luce rossastra. Gli strani individui caddero tutti come fulminati per terra. “Sto per svegliarmi”, pensai. Invece proprio in quel momento li vidi rialzarsi lentamente, aggiustarsi la borsa che tenevano a tracolla, togliersi la polvere dai pantaloni, riattivare le loro scariche elettriche, mentre sul grande schermo ricominciavano a passare tutti i volti di prima, ma questa volta trasfigurati in espressioni dalle quali sembrava trasparire soltanto stupidità. La cifra più misteriosa e imperscrutabile della condizione umana aveva costretto quegli uomini neri e intelligentissimi alla resa. “Impossibile, impossibile”, diceva qualcuno; “Dio esiste, Dio esiste”, ripeteva qualcun altro. Parlavano con una voce strana, guardando fisso, increduli, il grande schermo. Mi sono svegliato tutto sudato, con la testa alle festività natalizie, ai decreti del governo italiano contro il coronavirus e alla cena della sera precedente. Arrovellandomi nel tentativo di capire quale potesse essere il significato dell’incubo che avevo avuto, mi è venuta un’idea. Ma un amico mi ha consigliato di non dirla, perché, come diceva Kubrick ai suoi sceneggiatori, se dici che cosa significa non significa più nulla.

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