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Spazio Okkupato

Il “sonno della Regione” genera mostri

Giacomo Papi

Düra minga, düra no. Credere di vedere meglio degli altri e di essere protetti dalla propria laboriosità è una forma di cecità e arroganza

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Il milanese è l’unico dialetto al mondo che per dire lavoro non usa un sostantivo, ma un verbo: “lavorà”. Il problema è che troppo lavoro annebbia la vista e impedisce una visione d’insieme perché costringe a percorrere sempre la solita strada, come i paraocchi ai cavalli. Il lavoro è una droga che trasforma in una performance perfino il riposo. Come dice il cumenda Braghetti in “Vacanze di Natale ’83”: “Alboreto is nothing. Milano-Cortina un giro di rolex”. La figuraccia della regione Lombardia sui dati sbagliati non è un banale caso di inefficienza, è un’imperdonabile sopravvalutazione di sé. È un momento di svolta che cambia l’immagine della città. A Milano accade quasi sempre, alla fine di ogni decennio: il boom degli anni Sessanta finì nel 1969 con Piazza Fontana e l’omicidio di Pino Pinelli, la “Milano da bere” degli Ottanta terminò nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa e i suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini, lo splendore degli anni dell’Expo è andato a sbattere nella gestione della pandemia e in questo incredibile errore. Nei decenni felici in pochi ascoltano il monito di Ernesto Calindri, il vecchio commendatore che nel carosello della China Martini continuava a ripetere, scuotendo la testa: “Düra minga, düra no. Non può durare”. 

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Il milanese è l’unico dialetto al mondo che per dire lavoro non usa un sostantivo, ma un verbo: “lavorà”. Il problema è che troppo lavoro annebbia la vista e impedisce una visione d’insieme perché costringe a percorrere sempre la solita strada, come i paraocchi ai cavalli. Il lavoro è una droga che trasforma in una performance perfino il riposo. Come dice il cumenda Braghetti in “Vacanze di Natale ’83”: “Alboreto is nothing. Milano-Cortina un giro di rolex”. La figuraccia della regione Lombardia sui dati sbagliati non è un banale caso di inefficienza, è un’imperdonabile sopravvalutazione di sé. È un momento di svolta che cambia l’immagine della città. A Milano accade quasi sempre, alla fine di ogni decennio: il boom degli anni Sessanta finì nel 1969 con Piazza Fontana e l’omicidio di Pino Pinelli, la “Milano da bere” degli Ottanta terminò nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa e i suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini, lo splendore degli anni dell’Expo è andato a sbattere nella gestione della pandemia e in questo incredibile errore. Nei decenni felici in pochi ascoltano il monito di Ernesto Calindri, il vecchio commendatore che nel carosello della China Martini continuava a ripetere, scuotendo la testa: “Düra minga, düra no. Non può durare”. 

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Ogni volta che accade la città appare sorpresa, quasi offesa, che sia capitato proprio a lei, come se sentisse di essere protetta in eterno dal proprio lavoro, efficienza e ricchezza. Allo stesso modo, appaiono offesi i politici (credo sinceramente): fece l’offeso Bettino Craxi quando definì Chiesa un mariuolo e oggi fa l’offeso Attilio Fontana, quando si ostina a negare lo sbaglio salvo poi ammettere, tra i denti, che “probabilmente non è colpa di nessuno”. A pensarci è lo stesso schema, la stessa incapacità di cambiare strada e rallentare, che va in scena da marzo. Lo stesso schema dell’hashtag #Milanononsiferma, della decisione di non chiudere Bergamo preparando la sfilata dei camion pieni di bare e delle gaffes dell’ex assessore Giulio Gallera, culminate nelle parole con cui spiegò il ritardo della regione sui vaccini: “Agghiacciante una simile classifica. Per non parlare di quelle regioni che hanno fatto la corsa per dimostrare di essere più brave di chissà chi. Noi siamo una regione seria. I conti li facciamo alla fine”.

 

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Ed è lo stesso schema descritto da Manzoni ne “I promessi sposi” quando racconta l’incredulità della città, mica solo dei politici, davanti alla peste del 1630: “Sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse il contagio, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo”. La Lombardia sembra praticare la religione segreta dei criceti, che sono costretti a girare in tondo sulla ruota fino a non capire più nulla, neppure che a volte è necessario fermarsi. Credere di vedere meglio degli altri e di essere protetti dalla propria laboriosità è una forma di cecità e arroganza. Perché può portare a lavorare in fretta o in modo automatico, come deve essere successo ai funzionari che, nonostante le 54 sollecitazioni dell’Istituto superiore di Sanità, hanno tardato a individuare e risolvere l’errore. Ma è una forma di cecità che riguarda tutti – i baüscia (cioè, i signori, storicamente dell’Inter) e i casciavit (gli operai, storicamente del Milan) – e che finisce sempre per ribaltarsi in indignazione nei confronti di chi aveva la responsabilità di amministrare. 

 

L’anno terribile di Milano e della Lombardia meritava una conclusione più dignitosa del vittimismo di chi non ammette di non essere stato all’altezza della situazione. “Non fare il piangina”, si dice a Milano e si dovrebbe dire a Fontana, quando si lamenta dell’accanimento contro la Lombardia. Il sonno della Regione genera mostri. L’errore sui dati rimarrà come un incalcolabile danno economico, di immagine e di fiducia in sé. Ma dimostra che non ci sono città immuni dall’errore e protetti dalla possibilità della catastrofe. Dovrebbe convincere chiunque, a Milano e dappertutto, che per fare bene un lavoro bisogna farlo bene e che esserne convinti non basta. A Milano è raro che qualcuno dica “lei non sa chi sono io”, perché crediamo tutti che Milano basti a proteggerci. Invece ci vuole un secondo a sbagliare e a rendersi contro che il Re, il Sindaco e tutti noi siamo nudi. Indifesi. Mi ricordo un carnevale di inizio anni Ottanta in Piazza Duomo tra Colombine, Arlecchini e Zorri. C’ero anche io, da bambino, insieme a mio padre, quando all’improvviso apparve Carlo Tognoli, un socialista misurato, brava persona, sindaco dal 1976 al 1986. Mio padre si mise a indicarlo e urlò: “Guardate! Guardate! C’è uno vestito come il sindaco Tognoli!”. E tutti si girarono a guardarlo, a fissare quell’omino con gli occhialetti che attraversava la piazza con la borsa in mano. E anche l’omino sentì e fece la faccia smarrita e, per un attimo, io credo, si domandò se fosse davvero il sindaco Tognoli o qualcun altro che lo impersonava, e se il suo potere non fosse tutta un’illusione. 

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