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Fenomeni e parole

Siamo proprio sicuri che dire “globale” equivalga a dire niente? Parliamone

Alfonso Berardinelli

 Le piccole avventure, e disavventure, di un lettore comune: curioso e interessato a molte cose, per capire le quali però non dispone della preparazione sufficiente. Riflessioni sull'editoriale di Limes

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Parlo delle solite, piccole avventure e disavventure di un lettore comune, curioso e interessato a molte cose, per capire però le quali non dispone della preparazione sufficiente. Gli intellettuali “generalisti” e pressoché tuttologi non esistono più; se la cavano a malapena, con qualche trucco terminologico, i professori di filosofia che si fingono ma non sono filosofi come erano Aristotele o Bruno o Leibniz. Già nel secolo scorso, lo sviluppo delle scienze sia naturali che sociali li aveva messi con le spalle al muro: i maggiori, i veri filosofi del Novecento sono stati Freud, Weber, Einstein, più che Bergson, Croce e Husserl. Oggi le specializzazioni, con relativi linguaggi e gerghi, sono tali da rendere sempre più difficile non solo trasmettere conoscenze ma anche semplici informazioni. Non siamo in grado di capire i fisici, i cosmologi, i biologi, ma neppure gli ecologisti e gli economisti.

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Parlo delle solite, piccole avventure e disavventure di un lettore comune, curioso e interessato a molte cose, per capire però le quali non dispone della preparazione sufficiente. Gli intellettuali “generalisti” e pressoché tuttologi non esistono più; se la cavano a malapena, con qualche trucco terminologico, i professori di filosofia che si fingono ma non sono filosofi come erano Aristotele o Bruno o Leibniz. Già nel secolo scorso, lo sviluppo delle scienze sia naturali che sociali li aveva messi con le spalle al muro: i maggiori, i veri filosofi del Novecento sono stati Freud, Weber, Einstein, più che Bergson, Croce e Husserl. Oggi le specializzazioni, con relativi linguaggi e gerghi, sono tali da rendere sempre più difficile non solo trasmettere conoscenze ma anche semplici informazioni. Non siamo in grado di capire i fisici, i cosmologi, i biologi, ma neppure gli ecologisti e gli economisti.

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Quando ci annunciano l’esistenza di un problema e fanno previsioni a breve o lungo termine, possiamo memorizzare la notizia, ma non siamo capaci di esaminarne e giudicarne la fondatezza e la logica, se non in termini di partita doppia, entrate e uscite, redditi e tasse, o di inquinamento di aria e acque; già i problemi climatici sono più sfuggenti. Mi sono rifugiato in questo prologo da lettore comune, afflitto e umiliato da una formazione prevalentemente umanistico-letteraria, perché ho avuto bisogno di un po’ di tempo anche soltanto per venire a capo del lungo editoriale non firmato che apre l’ultimo numero di Limes, la nostra rivista di geopolitica fondata e diretta da Lucio Caracciolo. Fin dalle prime righe mi sono sentito sotto processo. Il fitto volume (n. 12/2020) porta un titolo sintetico-allusivo, una specie di calembour che fa man bassa di quasi tutti gli attuali problemi globali. Eppure mi viene subito fatto capire che se continuo a usare un aggettivo come “globale” mi copro di ridicolo: “Non tutte le parole servono per comunicare: ve ne sono che bloccano pensiero e azione. Parole tetaniche. Tabù. Le riconosciamo dal rumore che fanno, come un serrar di chiavistelli (…) In quel vociare, da cui nessuno può davvero emanciparsi se non segregandosi in clausura, l’urlo che echeggia, rimbalza e ci rintrona è globale. Si può concepire parola più muta?”

 

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Accidenti, ci sono cascato! Mi illudevo di avere un certo orecchio per le parole e il loro uso, invece mi sono danneggiato con le mie mani. Dire “globale” equivale dunque a dire niente, fa solo rumore, come tossire o starnutire. Ma allora la famosa globalizzazione non esiste? E’ assurdo, sbagliato, sciocco, volgare pensare in termini di umanità attuale interconnessa e di pianeta Terra? Sono anch’io piuttosto insofferente di categorie e concetti così generali da polverizzare e volatizzare le cose e i fenomeni che pretendono di definire. Ma se un evento ha cause ed effetti enormemente diffusi che si influenzano a vicenda, bisognerà pur evitare di parlarne come se si trattasse di casi isolati, anomali, delimitati. Mi dichiaro ancora una volta favorevole a una “ontologia pluralistica”: trovo gli esseri più interessanti dell’essere e i fenomeni singoli più attraenti del generale divenire. Ma la parola e il concetto di pluralità, che è al singolare, dà nome a qualcosa di plurale, come succede con altri nomi collettivi: folla, esercito, equipaggio, elettorato, popolazione…

 

Comunque sia, non credo che avrò ancora il coraggio di usare in buona coscienza l’aggettivo “globale”. Bisogna infatti essere cauti. Il mondo continua a essere fatto di mille cose diverse da indagare e descrivere con pazienza e da vicino. Cose singole, non totalizzazioni: questo consigliavano certi antifilosofi tedeschi, poeti attratti dalle scienze come Goethe, Benn, Enzensberger, perché l’hegeliana Totalità nessuno la vede e la conosce, è un concetto mistico (più precisamente, pseudomistico) senza confini e vuoto. La rivista di geopolitica Limes ci tiene a “salvare i fenomeni”, come voleva Democrito, invece che dissolverli in viziose genericità. E così siamo al punto: “Finché non ci emanciperemo dalla retorica del globalismo, non spezzeremo il circolo vizioso che forse ci salva l’anima, non l’ambiente e la salute. Chi per indurci a curare serie minacce le dipinge come apocalissi imminenti, definitive, totali, provoca l’effetto opposto: rassegnazione, indifferenza o pura disperazione. Non siamo Dio. Né siamo specie coesa. Globalmente altruista. Ci sappiamo mortali. Umanamente limitati. Tendiamo a guadagnare tempo, finché ce n’è – e ce ne sarà molto o molto meno a seconda di dove vivi e come vivi. Però guadagnare tempo non basta. Se assumiamo che il Covid-19 non è scherzo del destino ma anticipo di prossime micidiali epidemie o di nuove ondate delle già note e che il riscaldamento del pianeta già produce, in alcune regioni del mondo, disastri ambientali tali da destabilizzare intere comunità”.

 

Più avanti il prefatore passa alla politica e ai suoi presupposti culturali: “La Storia dimostra che possiamo sacrificarci per la collettività cui sentiamo di appartenere, in nome del vincolo spirituale che ci lega agli antenati e ai discendenti. Non il mondo: la nazione. E con la nazione, lo stato che ne nutre e organizza la volontà collettiva. Attore geopolitico per eccellenza. Responsabile di spazio delimitato ma mobile (…) L’identità condivisa dispone alla solidarietà (…) Chi ha a cuore il futuro della Terra ha a cuore il futuro della nazione-stato”. Leggo queste parole con molto interesse. Invece di obiettare qualcosa, mi chiedo solo se per caso non esista un “globalismo” culturale che almeno in parte confonda, indebolisca e mescoli le identità; e se la sovranità statale non stia diventando spesso una finzione, benché dotata più di bandiere e inni nazionali che di margini reali di libertà decisionale. Il rapporto fra identità, dialogo, trattativa, compromesso e accordo è un rapporto eternamente instabile. Ogni attore politico deve saperlo, se non vuole fare guai. Poco oltre (il volume di Limes contiene ben ventisei saggi divisi in cinque sezioni) c’è un bel duello fra due esperti di tematiche ambientali, Michael Shellenberger e Bob Ward. Il primo nega che ci sarà un’apocalisse e garantisce che benessere e tecnologia ci proteggeranno, il secondo lo accusa di “falsità e mistificazioni derivanti dal tentativo di imbrigliare i fatti in una ideologica camicia di forza”. Purtroppo sono un povero lettore comune e fra i due non so scegliere.

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